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Accoglienza di frontiera e frontiere dell’accoglienza

21 Luglio 2017

Mentre la legge sullo Ius soli non vede la luce, sorgono nuove barricate contro l’apertura di nuovi hotspot e strutture di accoglienza
Mentre la legge sullo Ius soli, soggetta ai tempi del dissenso tra le forze politiche al governo, non vede la luce, sorgono nuove barricate a Civitavecchia e in diversi Comuni della Sicilia (Castell’Umberto, Agrigento, Acireale, Taormina) contro l’apertura di nuovi hotspot e strutture di accoglienza. Tutto questo avviene simultaneamente, e a frontiere blindate: al Brennero, con militari e corazzati austriaci, a Ventimiglia, al confine con la Slovenia, che un mese fa ha firmato insieme ad altri 4 Stati balcanici e all’Austria un patto di alleanza militare contro i flussi migratori. Intanto, lontano dalla sua ratio, il «Sistema di Dublino» continua a funzionare come dispositivo di esternalizzazione interno allo spazio europeo.

Nel crescendo indubitabile degli sbarchi, la crisi migratoria sembra restare legata ai numeri, ma le logiche assumono sfumature diverse a seconda del contesto e dei livelli di applicazione: garanzie della protezione internazionale, criticità gestionali, misure emergenziali e mantenimento dell’ordine pubblico, accoglienza privata, assistenza volontaria…

A livello locale, la mancanza di coordinamento è denunciata da vari soggetti, primo fra tutti il Presidente dell’ANCI («Associazione Nazionale Comuni Italiani») e Sindaco di Bari Antonio Decaro, che imputa alle Prefetture lo scavalcamento dei Comuni (e del sistema SPRAR di «seconda accoglienza», largamente inattivo) a vantaggio dei privati che, con il sistema delle gare indette su base provinciale, gestiranno i «Centri di Accoglienza Straordinaria» (CAS) con uno sbilanciamento, in termini di numero, sui Comuni che già accolgono. Ciò dipende dalla capienza delle strutture, ubicate in un numero circoscritto di località, e dall’interesse dei gestori a occupare tutti i posti disponibili favorendo così il concentramento dei loro ‘ospiti’. Per logica di impresa, se le aziende già titolari di CAS hanno accesso ai bandi, saranno le prime a rispondere ricorrendo all’espediente dell’aumento dei posti disponibili. Questa sproporzione porta ad avere Comuni che non accolgono (in tutto il Paese, oltre 5500 su 8000) e Comuni sovraccarichi, oltre al permanere di quella prospettiva emergenziale che impedisce all’accoglienza integrata di essere implementata con successo.

Pertanto, i problemi di numero che gravano sull’Italia non interessano solo una ripartizione tra gli Stati dell’UE, ma anche un cambio responsabile di gestione interna al nostro sistema. A Decaro fa eco Pierluigi Vinai, Segretario di ANCI Liguria, che a fronte dei numeri di persone accolte a Genova (1173, ossia oltre il doppio del limite legalmente consentito, ossia 2 persone ogni 1000 abitanti) sottolinea come Prefettura e Comune non abbiano avuto contatti diretti. Intanto, dopo la recente inversione di tendenza annunciata dalla nuova Giunta di centrodestra, proseguono i bandi aperti per i CAS nei Comuni vicini (l’ultimo interessa i centri di Chiavari e Rapallo).

In ambito europeo, le sorti dei rifugiati e richiedenti asilo dipendono dall’operatività – finora inflessibile – del «Sistema di Dublino», che stabilisce (Art. 13, par. 1) che lo Stato membro competente per l’esame della richiesta di protezione sia quello di primo ingresso, la cui frontiera sia stata attraversata illegalmente dal cittadino di un Paese terzo. Per chi non ricade in quella categoria (i c.d. «migranti economici» e «climatici») ed entra in Europa irregolarmente non sono previste altre soluzioni che il rimpatrio successivo all’identificazione, ‘soluzioni’ che, di fatto, si traducono nella permanenza a tempo indeterminato nei centri di prima accoglienza.

Sul piano giuridico, un cambiamento significativo potrebbe prodursi in forza del potenziale feedback di un’interpretazione recentemente avanzata dall’Avvocato della Corte di Giustizia dell’Unione Europea Eleanor Sharpston.   Nel Comunicato stampa n. 57/17, trasmesso in data 8 giugno, Sharpston sostiene che in circostanze eccezionali di ingresso massivo di persone, provenienti da Paesi terzi, in uno degli Stati membri, il fatto che tale Stato abbia loro concesso di entrare nel proprio territorio e transitare in altro Stato dell’Unione per presentare domanda di protezione internazionale non è contemplato dal Regolamento di Dublino del 2013. In altre parole, quella normativa (che sanziona l’«attraversamento clandestino») è stata concepita a garanzia dell’ integrità esterna della frontiera europea.

Diversa è, invece, l’esigenza di una responsabilità condivisa e sostenibile tra gli Stati che risponda all’afflusso eccezionale al quale stiamo assistendo (similmente al 2015, anno in cui in Europa – secondo l’OIM – si è superato il milione di arrivi e sono morte in mare più di 3500 persone). A riprova di questa evenienza specifica, l’Avvocato generale ricorda come gli Stati europei hanno facilitato sia l’ingresso in massa sia il transito delle persone attraverso il loro territorio.  L’appiglio giuridico, anche qui, esisterebbe già: esso è contenuto nel «Codice frontiere Schengen», istituito dal Regolamento (CE) n. 562/2006, che autorizza i cittadini di Paesi terzi a varcare la frontiera esterna in ragione di obblighi internazionali o per motivi umanitari (motivi che stanno già alla base del ricongiungimento familiare e sono riconosciute dall’art. 17, par. 2, dello stesso Regolamento di Dublino – c.d. «clausola umanitaria»). In base a tale argomentazione, ci sarebbe allora differenza tra un ingresso «irregolare», comunque tutelato dal diritto internazionale, e l’«illegalità» sanzionata dal Regolamento di Dublino.  Il parere è stato espresso in relazione a due procedimenti del 2016, tuttora pendenti. Per esemplificare, uno di essi è relativo a un cittadino siriano (C-490/16, A.S. c. Repubblica di Slovenia) che, entrato «illegalmente» in Croazia, ha attraversato il confine con la Slovenia nel cui territorio ha successivamente presentato domanda di asilo.  La situazione, in questo caso, sarebbe troppo grave per applicare il «Sistema di Dublino», redatto sulla base di presunte condizioni di omogeneità distributiva. In proposito, nell’introduzione alle Conclusioni presentate dall’Avvocato generale, leggiamo che:

«Il Sistema di Dublino non prende le mosse dalla carta geografica dell’Europa (…). Al contrario, esso presuppone implicitamente che tutti i richiedenti protezione internazionale arriveranno per via aerea. Qualora lo facessero, ci si avvicinerebbe in linea teorica alla possibilità che (in termini molto approssimativi) gli stessi numeri di richiedenti arrivino in ciascuno dei 28 Stati membri. In un siffatto contesto, il sistema realizzato appare estremamente sensato».Lungo le frontiere interne allo «Spazio Schengen», le problematiche finiscono per sovrapporsi, localizzandosi sui confini di Stato e condizionando la geografia umana, le scelte di vita e le vicende dell’accoglienza.

Sul limes italo-francese, lo stallo politico-istituzionale ha generato un aggravarsi del problema abitativo: il ‘popolo del fiume’ accampato a Ventimiglia, sulle rive del Roja, è cresciuto. La sua stanzialità dipende dai capricci del meteo, oltre che dalla sorveglianza della polizia francese di frontiera.  Finché una parte dei respinti seguirà il corso del fiume (un destino che, in Liguria, ha finito per accomunare i «nomadi» ai «clandestini»), si spera che la siccità estiva non sia preludio di eventi familiari a questa Regione, terra di alluvioni, a elevato rischio idrogeologico. Gli incidenti che coinvolgono chi tenta di passare il confine, sono frequenti: pedoni travolti in galleria sulla linea ferroviaria che collega Ventimiglia a Mentone, altri caduti nelle scarpate, nel tentativo di passare la frontiera su quelle che erano le rotte del contrabbando. Il c.d. «sentiero della morte» parte da Grimaldi, una frazione di Ventimiglia, e risale con percorso esposto i rilievi prossimi al mare che portano in Francia: una strada che raccoglie i passi degli ebrei in fuga, dei perseguitati politici, poi degli spalloni, dei rifugiati e di una moltitudine di persone ancora prive di uno status giuridico riconosciuto.  Molti vanno da soli, di notte, diretti verso la Mortola, il Colle di Tenda o il Piemonte, per raggiungere i valici situati più a Nord. Da qualche anno esiste un giro di passeur provvisti di auto e furgoni con targa francese, ma i controlli si sono intensificati ed ora è più difficile anche per loro passare per le cornici o l’autostrada. Qualcuno si offre di accompagnare a piedi.

Ma chi sono gli attori dell’accoglienza a Ventimiglia? In prima linea, troviamo Don Rito Alvarez, Parroco della Chiesa di S. Antonio, nel quartiere delle «Gianchette», coadiuvato da una presenza costante di volontari della Caritas e della Comunità di S. Egidio di Genova. Da oltre un anno, la chiesa – che al momento ospita 60 persone – ha aperto le porte ai richiedenti asilo, soprattutto donne, famiglie e minori stranieri non accompagnati.

Secondo quanto annunciato dal Sindaco di Ventimiglia, Enrico Ioculano, l’edificio sarà totalmente ripristinato nella sua funzione originaria trasferendo tutti i suoi ospiti nel centro di accoglienza del «Parco Roja», gestito dalla Croce Rossa e ampliato a fine maggio (con passaggio da 252 a 300 posti). Proprio Ioculano, nel 2015, a fronte della «persistente emergenza umanitaria» dichiarata, aveva vietato con ordinanza la somministrazione gratuita, nel piazzale antistante la chiesa di S. Antonio e in altri luoghi pubblici, di cibo e bevande da parte di soggetti non espressamente autorizzati – cittadini italiani e francesi – che a tale scopo avrebbero dovuto rivolgersi alla Caritas o alla Croce Rossa, previa autorizzazione della Prefettura. Gli argomenti addotti a sostegno di questa misura, formalmente motivata da ragioni igienico-sanitarie, si sono basati sulla necessità di rispettare «esigenze minime di equilibrio» tra emigranti e residenti richieste dall’organizzazione dell’accoglienza sul territorio comunale. Tra i cuochi multati, si contano diversi membri dell’associazione francese «Roya Citoyenne»,  oggetto di un’istanza presentata al Tribunale di Nizza da Olivier Bettati (candidato alle legislative per il Front National) per il suo scioglimento, con l’accusa di «costituire una base operativa collusa con la mafia per il transito dei clandestini oltre frontiera».

La società civile, nonostante tutto, continua a fare rete. Un’altra associazione, « La Cimade », creata nel 1940 – all’indomani dell’entrata in guerra contro la Germania – e membro della Federazione protestante francese, persegue fini di solidarietà attiva con migranti, richiedenti asilo e rifugiati. Oltre ad avere criticato per inefficacia le misure emergenziali annunciate, il 12 luglio, dal governo francese con il nuovo «Piano migranti» (snellimento delle procedure di asilo secondo la legge vigente, creazione di 7500 posti, sbarramento per i «migranti economici»), «La Cimade» ha a più riprese denunciato le condizioni dell’area di stazionamento forzato di Pont St. Louis (tra Ventimiglia e Mentone, dove è stato appena inaugurato un nuovo Ufficio di frontiera della nostra Polizia di Stato). La struttura è stata disposta, con atto informale, dal Prefetto del Dipartimento «Alpes-Maritimes». In seguito a un ricorso d’urgenza presentato dall’associazione, il Tar di Nizza a inizio giugno ha stabilito che i container che alloggiano le persone respinte alla frontiera sono da ritenersi «area di attesa» in vista della riammissione in Italia (non ci sarebbero prove di detenzione illegale e arbitraria) e non «centro di detenzione illegale per migranti», come ha denunciato l’associazione. Una definizione in contrasto con quella opposta dalla stessa polizia francese, che a metà maggio vietava l’accesso all’area ritenendola «luogo temporaneo di detenzione».

Parte essenziale di questo scenario, il discorso pubblico a cavallo della frontiera si arresta – con stili ben distinti – entro i rispettivi ambiti di competenza, a ‘livelli’ decisionali di prudenza, peraltro rigidamente applicata nel caso francese, che impediscono una reale cooperazione e sembrano dirottare il problema dei flussi fuori dall’ambito di rispetto dei diritti umani. In Francia, dal 2015 la polizia ha mostrato i muscoli lungo il confine di Stato, compresa proprio l’«area di attesa» di Pont St. Louis, con una serie di violenze, fermi arbitrari, espulsioni e respingimenti.  L’abitudine di ‘spaccare il capello in quattro’ e l’astrattismo politico-amministrativo nell’affrontare la questione migratoria rispetto a quella che è, a tutti gli effetti, una crisi profonda della nostra società, sono stati denunciati da Jean-Louis Balsa, Vescovo di Viviers (cittadina dell’Ardèche) in visita a Ventimiglia. Dello stesso avviso è anche il suo omologo della Diocesi di Ventimiglia-Sanremo, Mons. Antonio Suetta, che ha lanciato ripetuti appelli alla Francia affinché modifichi le proprie modalità di gestione dei flussi migratori in un senso maggiormente orientato alla tutela della dignità e della sicurezza delle persone, oltre al loro diritto di domandare asilo in quel Paese, nell’auspicio di un dialogo ritrovato – da ambo i lati del confine – tra istituzioni e società civile.Nelle piccole realtà municipali di prossimità sorgono, intanto, logiche di autodifesa locale basate sulla tutela del paesaggio (alla maniera britannica), sulla vocazione turistica dei Comuni e sulla «sensibilità dei residenti». Per fare un esempio recente, il «Comitato pro-Triora ed il suo territorio», forte di più di 100 firme, avanza le sue priorità sui social: si teme l’affollamento all’interno del centro di accoglienza (l’ex-Albergo «Colomba d’oro») e nell’intero borgo – circa 200 persone, comunque meno dei 350 residenti registrati – , ma non si disdegna la possibilità di una «partecipazione attiva dei migranti» alla realtà socio-economica del ‘paese delle streghe’.

Due giorni fa, all’incontro sulla Sicurezza organizzato con il Prefetto, il Sindaco di Sanremo Alberto Biancheri si è pronunciato per una riduzione al minimo dell’impatto del fenomeno migratorio sulla cittadinanza, malgrado il Comune che rappresenta non abbia integrato la quota di riparto prevista dal Ministero degli Interni e sussista l’urgenza, in capo alle Prefetture, di ricollocare i cittadini extraeuropei sul territorio.

Pur muovendosi nel presente e nell’urgenza articolata dai numeri, trattare di un problema di dimensioni inter-continentali nelle forme che esso può assumere localmente non dovrebbe, tuttavia, far perdere di vista un aspetto costitutivo del futuro delle nostre società, qualunque esso sia: l’esistenza di una nuova prospettiva geopolitica allargata ed aperta, che veda nella ricomposizione della cittadinanza non una minaccia, ma una fonte di rinnovamento sociale necessaria.  Ed è proprio sulle frontiere politiche, costruite lontano dalla geografia dei rapporti umani, che si gioca questa partita, là dove il carico di tensione, come una vecchia molla pronta a scattare, impedisce il riconoscimento dei diritti sanciti oltre mezzo secolo fa sui tavoli di Ginevra, nella previsione di un nuovo ordine democratico transnazionale.

Nel quadro attuale, se il parere dell’Avvocato generale Sharpston fosse accolto dalla Corte di Giustizia, avremmo un’evoluzione importante per l’Italia, che potrebbe permettere il transito delle persone in un altro Stato, là dove esse ritengano più opportuno presentare la propria domanda. Non solo: rovesciando il «Sistema di Dublino», quella sentenza porrebbe un freno giuridico alle politiche di Paesi come la Francia e l’Austria, ma anche dell’Est e del Nord europei (Scandinavia compresa), in grado di abbattere i muri alle frontiere e far arretrare i carri armati.