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“Il muro della Hasbarà. Il giornalismo embedded de «La Stampa» in Palestina“, Amedeo Rossi – la nostra intervista

Di Milena Rampoldi,
ProMosaik. Qui di seguito la mia intervista con l’autore del Libro “
Il muro della Hasbarà. Il giornalismo embedded de «La
Stampa» in Palestina“
, Amedeo Rossi con il quale ho parlato degli
obiettivi del Suo libro e della necessità e delle modalità in cui vivere un
atteggiamento di vita
antisionista e anti-imperialista.  



 Perché è fondamentale
parlare apertamente dell’HASBARA in Italia?

Credo che uno dei maggiori successi del movimento
sionista e dello Stato di Israele sia la capacità di aver reso predominante, se
non l’unica legittima, la propria narrazione del conflitto con i palestinesi e
con il mondo arabo. L’immagine del piccolo Stato delle vittime di ogni
persecuzione che resiste contro le spietate orde di nemici barbari ed assetati
di sangue ebreo, nuovi adepti dell’antisemitismo nazista, è stata trasmessa dai
mezzi di comunicazione del mondo occidentale ed è entrata nella visione  più comune del conflitto. L’altro fulcro di
questa propaganda è rappresentato dalla definizione di “unica democrazia
del Medio oriente”, ancora più efficace con il diffondersi del fondamentalismo
jihadista: Israele sarebbe in prima linea nella lotta per difendere la cultura
occidentale dalla barbarie orientale. Tutto questo è servito a nascondere
quelle che sono invece le caratteristiche di un movimento e di uno Stato
colonialisti e razzisti, che hanno predicato e praticato, e continuano a
praticare, la pulizia etnica come parte fondamentale della costruzione di una
Nazione esclusivamente ebraica, in cui le componenti non ebraiche sono sempre
meno tollerante.

Che cosa è l’HASBARA e come si
manifesta nei media?
Il
termine ebraico “hasbara” ha vari significati, che possono andare da
“versione dei fatti” al più esplicito “propaganda”. In
pratica si tratta di un sistema piuttosto articolato e sofisticato che permette
allo Stato di Israele di influenzare, in modo a volte implicito, altre volte
più esplicito, il lavoro dei giornalisti che si trovano in Israele/Palestina.
Attraverso gli inviati dei vari mezzi di informazione, che spesso si trovano in
territorio israeliano e raramente  si
spostano nei territori occupati, anche per problemi logistici, questa versione
dei fatti arriva al pubblico dei Paesi occidentali e ne condiziona la visione
degli avvenimenti. Un esempio: quando avviene un omicidio particolarmente
efferato perpetrato dalle forze di sicurezza o dai coloni israeliani, anche
quando ci sono prove schiaccianti, il portavoce del governo e/o dell’esercito
nega sistematicamente ogni responsabilità. Questa dichiarazione viene ripresa
dai media e poi il fatto viene dimenticato. Al contrario, quando sono i
palestinesi a commettere un attentato, non solo questo fatto ottiene uno spazio
molto maggiore, ma, non essendo mai contestualizzato, viene più o meno
esplicitamente spiegato come un episodio di antisemitismo, di odio nei confronti
degli ebrei in quanto tali e non in quanto manifestazione di resistenza contro
l’occupante.
Quali sono gli obiettivi
fondamentali dello studio che ha intrapreso sul tema?
Leggendo
i quotidiani, in particolare “La Stampa” di Torino, mi sono reso
conto di quanto i meccanismi già citati e molti altri che ho analizzato nel
libro siano presenti nell’informazione sul conflitto e come vengano veicolati
in modo molto spesso implicito. A differenza di mezzi di comunicazione
palesemente di parte (israeliana), “La Stampa” si presenta come un
giornale indipendente, che informa in modo oggettivo. Io ho cercato di
confrontare cosa e come viene raccontato e cosa viene taciuto dal giornale sul
conflitto con altre fonti di informazione, palestinesi o filo-palestinesi, e da
organizzazioni indipendenti. Ho fatto anche ampio ricorso a fonti israeliane,
sia critiche nei confronti del proprio governo che fonti ufficiali. E’ un
lavoro già fatto da altri autori, per esempio da Chomsky sui conflitti in
Centro America e su come sono stati raccontati dai media negli USA.  Il risultato mi pare piuttosto evidente: la
preponderanza della narrazione israeliana è palese e, mi pare, indiscutibile. Si
tratta di una denuncia per come l’informazione che arriva ai lettori (e non
solo de “La Stampa”: penso che prendendo in considerazione altri
mezzi di comunicazione “indipendenti” i risultati non sarebbero molto
diversi) sia di parte e dell’importanza di questa parzialità nel modo in cui
l’opinione pubblica si forma un’immagine delle vicende in Israele/Palestina.
Andando
a cercare la bibliografia internazionale sull’argomento, da analisi fatte in
Francia, Gran Bretagna, USA e Spagna ho scoperto che molti dei meccanismi che
ho individuato nel mio lavoro di ricerca si ritrovano quasi identici anche in
quei Paesi.
Cosa
si può fare per contrastare il monopolio dell’informazione aggiogata al carro
del sionismo?
Collaboro da qualche anno con un gruppo che, come
attività di militanza per la causa palestinese, si dedica alla traduzione in
italiano di articoli di giornale pubblicati in Israele o su mezzi di
informazione palestinesi, che poi vengono inseriti nel sito Zeitun.info. Questi
articoli consentono di avere un’idea molto diversa della situazione rispetto a
quello diffuso dai nostri media. Quello dell’informazione è un aspetto cruciale
di questa vicenda, forse ancor più che nel caso di altri conflitti, e ritengo
che sia molto importante svolgere un’attività di controinformazione. Le forze
del campo filo-palestinese sono infinitamente ridotte rispetto alla potenza ed
efficacia dell’hasbara israeliana, ma credo che piccole iniziative come questa,
unite ad incontri di approfondimento, proiezione di film e documentari,
conferenze di esponenti palestinesi e israeliani critici possano avere una
certa efficacia.

Come lei è diventato antisionista? È stata una
sofferta scelta personale? Oppure un retaggio storico-familiare di una cultura
politica in difesa dei popoli oppressi?
L’antisionismo deriva dalla mia formazione
ideologica e politica. Mio padre è stato dirigente provinciale del PCI fino al ’64.
In casa mia si parlava spesso di politica e circolavano giornali e riviste di
sinistra, tra cui mi ricordo in particolare “L’astrolabio”, che si
occupava molto di politica internazionale. Di quella formazione familiare mi
sono rimasti l’avversione per l’imperialismo, il colonialismo, il nazionalismo,
il razzismo, in generale per le ingiustizie. Il sionismo ed Israele
rappresentano tutto questo, nella loro storia e nel loro presente. Poi sono della
generazione che è passata dai western in cui gli indiani erano i cattivi a
quelli in cui sono diventati i buoni, della decolonizzazione e della lotta del
Terzo mondo contro neo-colonialismo ed imperialismo, del Vietnam e del Cile,
del Che e di Ho Chi Min. E, nonostante le molte delusioni, sono rimasto
coerente con quel passato.

Che cosa significa per Lei
personalmente la lotta antisionista per l’affermazione dei diritti dei
palestinesi?
Per dirla in poche parole: cercare di evitare per
quanto possibile che ai palestinesi tocchi la stessa sorte di altri popoli
nativi, a cominciare dalle  Americhe (mi
sono occupato a lungo di America latina) e poi nel resto del mondo. Nel film
“Non ci resta che piangere” Benigni e Troisi cercano di evitare la scoperta
dell’America per salvare gli indigeni dallo sterminio. Non si può tornare
indietro nella storia, ma si può, anzi si deve, evitare che quello che è
successo nel passato ad opera dei colonizzatori europei si ripeta ancora, ed
oggi questo sta avvenendo in Palestina.

Ci può dire qualcosa su Moni
Ovadia che ha accettato di scrivere una prefazione? Le è stato difficile
poterlo raggiungere e convincere?

Non è stato difficile contattarlo perché un amico
aveva il suo indirizzo mail ed il suo numero di telefono. Non è stato neanche
difficile convincerlo: si è detto interessato al libro e disponibile a scrivere
una presentazione. Moni è molto sensibile al problema e credo che, in quanto
ebreo, sia indignato da quello che viene fatto da Israele anche in suo nome. Il
problema è stato che è sempre molto occupato per il suo lavoro e quindi non
aveva tempo da dedicare alla lettura ed alla stesura dell’introduzione. Ci sono
voluti parecchi mesi, però alla fine è riuscito a scrivere la presentazione ed
io ne sono molto contento, sia perché lo stimo sia come artista che come
persona, sia perché ritengo che sia molto preparato sul tema e quindi il suo
apprezzamento per il mio lavoro mi ha gratificato.