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Ogni giorno in Tunisia si suicida una persona L’immensa sofferenza del malvivere

di Néjiba Belkadi, Tlaxcala, 22 novembre 2016. Traduzione italiana di  Milena Rampoldi, ProMosaik. Nel 2015 in Tunisia si è registrato un caso di
suicidio al giorno, ovvero 365 casi in totale. Cosa ancora peggiore: questo
triste bilancio è quasi doppio rispetto a quello precedente la rivoluzione. Ai
primi tre posti per numero di suicidi vi sono le regioni di Kairouan, Gafsa e
Bizerta. La fascia d’età più colpita è quella che va dai 20 ai 39 anni. Tra i
mezzi adottati, al primo posto è l’impiccagione (58.63%), seguita
dall’auto-immolazione (15.89%). Quali sono le ragioni? Come far fronte a questo
flagello? Leaders ha rivolto queste domande a degli specialisti.

Nel 2015 in Tunisia si è registrato un caso di suicidio al giorno, ovvero 365 casi in totale. Cosa ancora peggiore: questo triste bilancio è quasi doppio rispetto a quello precedente la rivoluzione. Ai primi tre posti per numero di suicidi vi sono le regioni di Kairouan, Gafsa e Bizerta. La fascia d’età più colpita è quella che va dai 20 ai 39 anni. Tra i mezzi adottati, al primo posto è l’impiccagione (58.63%), seguita dall’auto-immolazione (15.89%). Quali sono le ragioni? Come far fronte a questo flagello? Leaders ha rivolto queste domande a degli specialisti.
Mohamed Bouazizi, di Carlos Latuff, dicembre  2010
L’atto fondatore della rivoluzione tunisina è il suicidio per fuoco di Mohamed Bouazizi, che ha influenzato tanti che si sono riconosciuti nel mal di vivere del giovane venditore ambulante. Infatti, dal 2011 le auto-immolazioni, quali atti di protesta politica coniugata con la rassegnazione alla morte, si susseguono senza sosta, dando l’impressione di alimentarsi a vicenda. Tuttavia, questa forma particolare di suicidio –spettacolare, pubblica e profondamente politica – non deve far dimenticare il suicidio “comune”, quello che non si consuma nello spazio pubblico. Reso più “banale” dalla sua ricorrenza e ripetitività, il suicidio per impiccagione o avvelenamento strappa un numero sempre più crescente di vite di giovani tunisini.
Un fatto sociale
E’ del tutto evidente che, a cinque anni dalla rivoluzione, i suicidi “riusciti” o solo tentati –autentico flagello che pesa sul clima sociale tunisino – continuino a propagarsi come un incendio. “Il suicidio è un fatto sociale”, insiste Mohamed Kerrou, citando Émile Durkheim. Il sociologo scarta subito le spiegazioni psicologistiche, che isolano il suicida dal proprio ambiente sociale: un ambiente che egli non ha scelto, ma che gli pesa addosso. Mettendoci in guardia dalle interpretazioni deterministiche che considerano il suicidio quasi fosse un fenomeno sociale incontrollabile, Kerrou s’interroga sul ruolo giocato dalla società nella produzione di un tal numero di suicidi. Esclusi dalla società, i suicidî sarebbero “portatori di una protesta”, che finisce per sfociare in un “suicidio reattivo”. Inoltre, il suicidio di Bouazizi sarebbe di tipo “anomico”, poiché rifletterebbe l’incapacità della società, divenuta sregolata e sregolatrice, di dotare gli individui della capacità di limitare i propri desideri individuali [sic].
Si tratta, dunque, di un fenomeno nuovo che dipende soprattutto dai fallimenti della rivoluzione,Fatma Charfiquanto a giustizia sociale? C’è da temerlo, visto che “assistiamo sempre più ad auto-immolazioni che fanno seguito a conflitti con qualche rappresentante del potere pubblico, come nel caso del suicidio di Bouazizi”, spiega Fatma Charfi, presidente del Comitato tecnico di lotta contro il suicidio. Per Kerrou, il suicidio per fuoco, “atto politico per eccellenza”, assume un tale valore solo allorché viene mediatizzato”. Ed è mediatizzato solo se è “messo in scena” in modo spettacolare. Secondo Amen Allah Messadi, professore di rianimazione medica, il dolore più atroce che possa provare un essere umano è quello causato da un suicidio per fuoco. Si tratta dunque di un’auto-messa in scena spettacolare e dolorosa. Come abbiamo fatto ad arrivare a tal punto?
Una realtà sconvolgente
Le statistiche nazionali sul suicidio relative al 2015, ottenute attraverso i nove servizi di medicina legale in Tunisia, attestano che 365 persone si sono suicidate in Tunisia, così che il tasso di mortalità per suicidio (o “incidenza suicidaria”) si è elevato al 3,27 su 100.000 abitanti. Il suicidio, inoltre, sembra rappresentare un fenomeno soprattutto maschile e giovanile (infatti, coinvolge persone tra i 20 e i 39 anni). Gli uomini che si suicidano sono quasi tre volte più delle donne (nel 2015, il 4,75/100.000 rispetto all’1,8/100 000). Secondo le cifre ufficiali pre-rivoluzione, l’incidenza suicidaria annuale ammontava in media intorno all’1,8 su 100.000 abitanti, mentre a partire dalla rivoluzione si raggiunge il 3,15 su 100.000. Si tratta senza dubbio di un aumento significativo, che conviene, però, da relativizzare, dato che allora il suicidio era tabuizzato, quindi censurato: secondo alcuni esperti, sebbene il numero dei suicidi sia effettivamente in aumento, le cifre riguardanti il periodo prima del 2011 sarebbero state sottostimate.
Il fatto che in certe regioni del paese permanga la cultura che considera il suicidio un tabù spiegherebbe la disparità delle incidenze secondo il luogo in cui avvengono. E’ una situazione che impedisce di trarre conclusioni chiare su quelle specificità regionali (sviluppo socio-economico, rapporto tra gli abitanti e i rappresentanti del potere, clima sociale) che potrebbero contribuire a determinare condizioni di vita suicidogene. Nel 2015, Kairouan, Gafsa e Bizerta sarebbero state le prime tre regioni colpite dal fenomeno, ben di più del Sud del paese, ove esso sarebbe raro (vedi immagine).
Il fenomeno dell‘auto-immolazione
Se le modalità usate per suicidarsi sono numerose, due sembrano prevalere nettamente. L’impiccagione si colloca al primo posto nella classifica dei mezzi impiegati (il 58,7% dei suicidi viene commesso in questo modo). L’auto-immolazione, invece, riguarda il 15,89% dei suicidi registrati nel 2015. Fenomeno relativamente nuovo, prima della rivoluzione il suicidio per fuoco figurava al quarto posto: dopo l’impiccagione, l’annegamento e l’assunzione di sostanze tossiche.
Dopo Bouazizi, il ricorso sempre più diffuso (in media, i tentativi di suicidio per fuoco sono 20 volte più numerosi che prima della rivoluzione) a questa modalità, spettacolare e dalle venature sacrificali, mette in luce il cambiamento della percezione sociale del suicidio in Tunisia. “Fino a ieri strettamente confinato nello spazio domestico, oggi il suicidio tende a divenire strumento per una disperata richiesta d’aiuto”, spiega Mehdi Ben Khelil, assistente ospedaliero-universitario di medicina legale. E’ un’invocazione di aiuto che si colloca in un contesto che rende possibile la manifestazione della sofferenza individuale e la sua condivisione con la collettività.
In effetti, oltre all’aumento dei suicidi per fuoco, si registra anche l’incremento di quelli commessi in spazi pubblici simbolici (spesso davanti a municipi, commissariati di polizia, ecc.): a dimostrazione del conflitto endemico che oppone i rappresentanti dell’autorità agli esclusi dalla società. Inoltre, anche se la maggioranza dei suicidanti sono celibi/nubili, si registra un incremento dei suicidi commessi da persone sposate, spesso a causa delle difficoltà finanziarie che gravano sul loro ménage. Non è sorprendente, se si considera che oltre l’80% dei suicidanti è costituito da disoccupati e operai.
“Scompensi mentali”
Allorché sono esplicitate, le motivazioni del suicidio spesso riguardano qualche malattia mentale, problemi finanziari, conflitti coniugali o familiari persistenti. In ogni caso, va preso in considerazione anche il problema di un’eventuale instabilità psicologica pregressa. A parere di Mehdi Ben Khelil, quando si verifica un incremento di suicidi commessi da soggetti affetti da turbe psichiche, non si sa se ciò abbia a che vedere con una predisposizione al suicidio più accentuata in queste persone o se dipenda dal fatto che le famiglie dei suicidi vanno abbandonando il tabu delle malattie mentali, molto stigmatizzate in Tunisia. Se così fosse, forse si supererebbe la tendenza a tacere sui motivi che hanno spinto al suicidio.
Ma potrebbe trattarsi anche di casi in cui la malattia mentale è a tal punto «scompensata» da spingere chi ne soffre a mettere fine alla propria sofferenza. E’ un’eventualità che spiegherebbe un’altra realtà allarmante che emerge dai dati degli anni più recenti: l’incremento dei suicidi compiuti con modalità estreme, in particolare col ricorso all’arma bianca. Insomma, in Tunisia i suicidi non sono soltanto sempre più numerosi, ma anche più violenti, più pubblici, sempre più spesso compiuti da persone instabili.
Attenti all’effetto Werther!
Si parla anche di “suicidi mimetici”. Si tratta di un fenomeno sociologico messo in evidenza negli anni ottanta da un sociologo usamericano, secondo il quale l’eccessiva mediatizzazione di un suicidio, soprattutto se si tratta di una persona celebre, e il suo trattamento in termini positivi possono scatenare una sorta di epidemia di suicidi. Se l’effetto Werther riguarda esclusivamente la popolazione che già presenta fattori di predisposizione al suicidio, nondimeno il Comitato tecnico di lotta contro il suicidio mette in guardia dai danni che potrebbe provocare una maldestra mediatizzazione dei suicidi, semplicistica e sensazionalistica.
Mehdi Ben Khelil così come Fatma Charfi e Ourida Boussada, docente di comunicazione, auspicano un codice etico relativo alla copertura mediatica che permetterebbe di fissare principi deontologici più saldi in materia di trattamento di temi di tal genere. A loro parere, la posta in gioco è assai elevata poiché si tratta di rivolgere l’arma mediatica contro il suicidio, contribuendo così alla sua prevenzione invece che alla sua propagazione. Secondo numerosi specialisti, il picco dei suicidi compiuti da adolescenti, osservato alla fine del 2014, ha una certa relazione con il trattamento mediatico “eccessivo” che ne è stato fatto, oltre tutto in fasce orarie di grande ascolto.
Un bisogno di re-incanto del mondo?
L’antropologa sociale Meryem Sellami ha avuto occasione di parlare con adolescenti sopravvissuti a tentativi di suicidio, nel corso di una ricerca condotta presso il Servizio di psichiatria giovanile dell’Ospedale Razi di Tunisi. I casi di cui ha ricostruito la storia sembrano confermare la tesi avanzata da Kerrou, secondo cui l’attuale fenomeno suicidario ha a che fare con tratti propri della post-modernità. La quale sarebbe caratterizzata soprattutto dall’”industrializzazione” e dalla secolarizzazione dell’esistenza, le quali possono indurre un tale “disincanto del mondo” da incrementare tendenze suicide o comunque comportamenti a rischio.
Secondo Meryem Sellami, “nei tentati suicidi degli adolescenti non predomina il desiderio di morire, bensì il tentativo di vivere”. Essi sono, infatti, un mezzo per esprimere, attraverso il proprio corpo, l‘“impossibilità provvisoria di esistere”. Ne sarebbe prova il fatto, sorprendente, che gli adolescenti, ancor prima di tentare il suicidio, pensino al dopo, “cosa che gli adulti non fanno”. Secondo l’antropologa, i tentativi di suicidio degli adolescenti spesso sono un mezzo per “fare una pausa”, durante la quale il corpo si purificherebbe dal dolore. E’ una «morte reversible, senza cadavere» da sperimentare come sospensione di un’esistenza troppo piatta o, all’opposto, troppo dolorosa.
La riparazione dell’atto suicidario si realizza con l’ufficializzazione cerimoniale e religiosa del ritorno alla vita. La ricercatrice spiega, infatti, che le cerimonie di purificazione, accompagnate da preghiere (hizb latif), organizzate dalle famiglie “per ringraziare Dio” sono molto efficaci sul piano simbolico. “Danno sollievo alla adolescente mediante l’intervento di un uomo –un sostituto del padre quale un imam – che salmodia versetti del Corano e preghiere a lei dedicate. In un certo senso, attraverso tali liturgie si compie la riparazione e la ri-sacralizzazione del sé”, afferma Meryem. Allorché alla recitazione si associa il padre, ristabilendo un contatto intimo con la figlia, egli la riconduce alla vita.
Che linea di riflessione seguire?
Oltre al “re-incanto del mondo”, sono necessarie misure politiche radicali contro la disoccupazione, fattore determinante dei suicidi degli adulti. Più in generale, coloro che operano nell’ambito di associazioni tese a contrastare il fenomeno suicidario hanno ampiamente sottolineato l’urgenza di rasserenare il clima sociale, a volte molto violento, che prevale in certi ambienti, quartieri o categorie professionali. Altri sostengono che l’incremento dei casi di suicidio è da attribuire anche all’uso degli stupefacenti, sempre più disinibito e normalizzato, nonché alla persistenza di tendenze fataliste, alla generalizzazione della violenza e della delinquenza, e così via.
Ma, si avverte, la sola risposta economica non è sufficiente a migliorare le cose. Per limitare quelli che Durkheim definiva “suicidi anomici”, si dovrebbe urgentemente valorizzare percorsi artistici, ricompattare la società intorno a ideali condivisi, offrire a tutti le opportunità per l’integrazione sociale.
Che cos’è il  Comitato tecnico di lotta contro il suicidio?
Si tratta di un organismo che dipende dal ministero della Sanità, fondato nel mese di febbraio del 2015, al fine di attuare un programma di prevenzione contro il suicidio e un programma di sorveglianza epidemiologica delle tendenze suicidogene per conoscere meglio la popolazione a rischio. Sta per creare un registro nazionale del suicidio e dei tentativi di suicidio. Un rapporto relativo ai suicidi del 2015, alla cui realizzazione ha contribuito il comitato, è già stato pubblicato sul sito del Ministero della sanità (www.santetunisie.rns.tn) e costituisce il primo documento epidemiologico dettagliato sul suicidio.
►Su questo tema, leggere
Dedalo, 2012
ISBN: 9788822063229
Un’acuta analisi socio-antropologica del fenomeno attuale dei suicidi col fuoco, pubblici e di protesta, dalla Tunisia all’Europa, fino a Israele.