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Governo Gentiloni: cosa lascia in eredità Renzi?

14 Dicembre 2016

Dalla legge elettorale al risanamento delle banche; dal testamento biologico alla cannabis ‘a norma di legge’

Ieri alla Camera e oggi al Senato, il Governo di Paolo Gentiloni ha ottenuto la fiducia, che così è ora nel pieno dei poteri: alla Camera con 368 sì e 105 no, al Senato con 169 sì – la maggioranza richiesta, su 269 presenti, era di 135 voti – i contrari sono stati 99, nessun astenuto. L’imminenza del nuovo Governo, nella sua portata emozionale, si è imbattuta nel potere di temperamento attivo da parte del Colle. Nonostante i postumi dialettici del 4 dicembre e la proposta di un ‘governo di scopo’ capace di intervenire sulla legge elettorale, il Presidente della Repubblica ha definito gli ‘affari correnti’ secondo le esigenze di una transizione stabile. Una premessa logica necessaria a considerare questo processo è distinguere la riforma costituzionale e i suoi oggetti dal programma di governo. Se nel primo caso le istanze avanzate erano, a ben vedere, depositarie di un processo risalente, ‘raccolto’ dal Ddl Renzi-Boschi sulla scorta dell’elaborazione attuata da successive commissioni parlamentari, il cantiere aperto che erediterà la nuova amministrazione è frutto del lavoro di una specifica coalizione maggioritaria durata 1020 giorni, con un ‘lascito’ di 74 provvedimenti in Parlamento ancora in sospeso.
Il discorso di Paolo Gentiloni al Senato ha appena segnato un punto a favore della lucidità di fronte alla crisi politica, che solo una concertazione diversa, seppur transitoria, potrebbe garantire: «Non siamo innamorati della continuità. Abbiamo, anzi, rivolto una proposta all’insieme delle forze parlamentari per individuare una convergenza più larga (…) La presa d’atto della situazione ha spinto le forze che hanno sostenuto questa maggioranza a dar vita a questo governo, per responsabilità».
Iniziamo questa breve rassegna dalla legge elettorale, la ‘spina nel fianco’ in testa all’agenda del futuro governo, che ha alterato (malgrado non ne costituisse l’oggetto) l’intera campagna referendaria. La riscrittura dell’Italicum è condizionata dalla pronuncia della Corte Costituzionale sul ricorso ‘pioniere’ presentato al Tribunale di Messina (che lo ha accolto lo scorso 24 febbraio) dall’ex-senatore Enzo Palumbo, il quale si è mostrato più che convinto che una nuova legge elettorale fosse indissolubilmente legata alla vittoria del NO. A questo ricorso, che – lo ricordiamo – interessa le modalità elettive della sola Camera dei deputati, si  sono aggiunti quelli dei Tribunali di Perugia, Torino e Genova. L’aspettativa sulla sentenza, annunciata per il 24 gennaio, è alimentata da una tendenza a sovrapporre le competenze di giudici e legislatori, quasi si trattasse di un unico organo: contro ogni ingerenza logica capace di consolidarsi in attitudine, il Presidente emerito della Corte, Ugo de Siervo, ha ribadito che essa «è un organo di giustizia, che può rilevare vizi anche gravi di incostituzionalità, eliminando alcuni aspetti, ma non riscrivere l’Italicum», compito al quale è preposto il Parlamento, «l’organo naturalmente più idoneo a operare».  In proposito, oltre alla proposta di un’estensione dell’Italicum al Senato, avanzata dal M5S e difficilmente compatibile non solo con quanto affermato prima del 4 dicembre, ma con la stessa proposta in senso proporzionale (c.d. «Democratellum»), la Commissione PD sulla legge elettorale ha insistito sull’equilibrio tra rappresenanza e governabilità: riduzione del premio di maggioranza, ora attribuito alla coalizione, possibile eliminazione del ballottaggio e dei capilista ‘bloccati’. Dal canto loro, i bersaniani formulano una proposta più definita verso un ritorno al sistema misto di tipo maggioritario a turno unico, con collegi uninominali e un premio di maggioranza spettante alla coalizione (c.d. «Mattarellum 2.0»). Sempre all’interno del PD, i «Giovani turchi» caldeggiano una sorta di Italicum sprovvisto di ballottaggio, mentre i Centristi hanno depositato una proposta favorevole a un proporzionale a turno unico con premio di maggioranza per le coalizioni. Mentre la Lega Nord non sembra, finora, avere formulato proposte organiche, Forza Italia si è espressa a favore di un proporzionale ‘rinforzato’, con soglia di sbarramento al 5% e premio di maggioranza ridotto. Nell’insieme, ci troviamo di fronte a posizioni divergenti e difficilmente compatibili: in senso più ampio, un terreno comune di intesa richiederebbe di ripensare il senso dei meccanismi elettorali operanti a partire dal bipolarismo degli anni Novanta.
Riguardo allo spettro di una crisi bancaria di entità europea, smentita dal Commissario Ue per gli Affari Economici Pierre Moscovici, il nuovo governo troverà ad attenderlo il decreto di salvataggio destinato a Monte dei Paschi, opportunamente ‘fermato’ dal Quirinale, che ha ritenuto il provvedimento materia di lavoro del nuovo esecutivo. Oltre al rinforzo al capitale della banca senese (5 miliardi), per la quale non sono previste misure di supporto pubblico, ma una ricapitalizzazione attenta ai piccoli obbligazionisti, la nuova agenda dovrà anche affrontare la riforma delle banche popolari. Con l’ordinanza di sospensione della legge del 2015 da parte del Consiglio di Stato, che coinvolge parte della circolare attuativa di Bankitalia del dicembre 2013, la questione è stata rinviata alla Consulta per il rilievo di incostituzionalità relativo alla sospensione o al rinvio del diritto di recesso per soci dissenzienti che non abbiano approvato la trasformazione in Spa. Infatti la legge in questione obbliga le dieci maggiori banche popolari a mutare la propria natura in società di capitale, non più cooperative – fondate sul principio ‘una testa, un voto’ – , allo scopo di sottrarle all’influenza deleteria dei gruppi di pressione, sindacati compresi (pensiamo al doppio dissesto delle non quotate Veneto Banca e Popolare di Vicenza. Un ulteriore ambito di intervento necessario sarebbe quello delle partecipate pubbliche, di proprietà degli enti locali, che potrebbero beneficiare di un processo di privatizzazione ‘temperato’, capace di rilanciarne l’attività e la gestione (aumento del fatturato e dei dipendenti, efficienza e trasparenza amministrativa). La disciplina è contenuta nella «Legge Madia» n. 124/2015, dichiarata incostituzionale in merito alla mancanza di un reale consenso, negato alle Regioni, sui decreti legislativi di attuazione.
Un ‘salvataggio’ particolare spetta, poi, ad Alitalia. Sulla compagnia aleggia l’opzione, comunque tutta in salita, tra un ritorno dello Stato (tra i soci, le ferrovie dello Stato, mentre Cassa Depositi e Prestiti declina per lo stato dell’azienda) o il passaggio a Lufthansa e all’alleanza Star Alliance. Un rischio reale è costituito da cospicui tagli agli stipendi e da possibili ‘fermi’ alle carriere dei piloti. Il cantiere aperto dal governo sul tema non garantisce, al momento un futuro lavorativo a circa 300 impiegati che, secondo i calcoli, andranno in cassa integrazione, oltre alle cessioni di personale di terra ad altre società, previste per oltre un migliaio di dipendenti.