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Oceani malati, la più grande sfida nascosta dell’uomo

9 Ottobre 2016

Gas serra. Surriscaldamento. Scioglimento del metano sui fondali. Zone morte. Specie a rischio e isole di rifiuti. Gli studi che fotografano la ‘febbre’ delle acque.

Scordatevi di navigare in acque sicure, perché nei prossimi anni dagli oceani del mondo non ci si potrà certo aspettare calma piatta.
A dare l’allarme è un rapporto stilato a settembre del 2016 dall’organizzazione non governativa Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn) che si occupa di tutela ambientale a livello globale, proprio sulla situazione delle acque del nostro pianeta.

GAS SERRA NEGLI OCEANI. Nello studio dal titolo Explaining ocean warming: causes, scale, effects and consequences curato da 80 scienziati di una dozzina di Paesi, è emerso che il 93% del calore provocato dall’effetto serra a partire dal 1955 è finito negli oceani, provocando un preoccupante aumento della temperatura dell’acqua marina che ha gravi conseguenze sia per l’uomo sia per gli ecosistemi e la fauna acquatica.
Ma al mare, dicono gli esperti, la «febbre» sta salendo da almeno 30 anni e i prossimi 10 non preannunciano alcuna tregua, nonostante i governi non sembrino ancora del tutto consapevoli di questo surriscaldamento.

COME 140 MILIARDI DI PHON. Eppure i numeri sono importanti: per rendere l’idea, l’oceanografo della National oceanic and atmospheric administration Gregory Johnson ha spiegato al New York Times che è come se tra il 1971 e il 2010 i mari avessero assorbito l’energia di 140 miliardi di asciugacapelli da 1.500 watt rimasti accesi per 39 anni.
Il risultato è che, immagazzinando calore, gli oceani si sono estesi e gli scienziati hanno provato che almeno un terzo dell’innalzamento del livello del mare degli ultimi 10 anni è dovuto proprio a questa espansione termica.
SALVATI DA UN +36°. In altre parole, l’oceano ha assorbito molta più energia prodotta dai gas serra di quella rilasciata nell’atmosfera, riparando di fatto i continenti da un rapidissimo cambiamento climatico che altrimenti nello scorso secolo sarebbe stato di 36 °c invece che di uno.

Il caldo dell’acqua causa fenomeni distruttivi come tempeste e cicloni

(© Getty Images) Le anguille giapponesi sono a rischio di estinzione a causa dell’innalzamento della temperatura dell’Oceano.

Finora infatti i mari hanno rilasciato parte dell’anidride carbonica accumulata solo quando la superficie era troppo calda per non evaporare (come successo gli ultimi due anni definiti di «caldo record»), ma visto il progressivo surriscaldarsi delle profondità marine non sappiamo fino a quando questa valvola di sicurezza funzionerà.
Già ora i mari sempre più «tropicali» soprattutto nell’emisfero australe stanno contribuendo allo scioglimento dei ghiacci dell’Antartide che a loro volta causano l’innalzamento del livello delle acque globale; il caldo dell’acqua è complice poi dell’aumento di fenomeni atmosferici distruttivi come tempeste e cicloni.

PLANCTON A RISCHIO. Si teme per la salute di plancton alla base della catena alimentare, per coralli a rischio sbiancamento e per pesci e uccelli marini, la cui fuga dall’equatore provoca il restringimento delle zone di pesca compromettendo il sostentamento di miliardi di persone.
Nel Sud-Est asiatico, per esempio, la pesca è destinata a diminuire un terzo entro il 2050, proprio quando la popolazione mondiale toccherà quota 9 miliardi; mentre le mutate condizione di flora e fauna marina potranno causare intossicazioni alimentari.

SE SI SCIOGLIE IL METANO… Insomma, l’Iucn racconta una storia che, se non ci fosse alcun intervento, entro la fine del secolo si trasformerebbe in un’apocalisse: gli oceani, più caldi di 4 gradi, scioglieranno il metano congelato sui fondali, liberando un gas a effetto serra potentissimo.

L’anidride carbonica modifica il Ph dei mari in acido
(© Getty Images) Alcuni attivisti e volontari rimuovono i rifiuti dall’acqua a Manila nelle Filippine.

Inger Andersen, direttore generale dell’Iucn, ha definito il problema degli oceani «la più grande sfida nascosta della nostra generazione».
La cartella clinica completa del mare del pianeta, che non è stata presa in considerazione in toto dalla ricerca citata, rivela infatti un malato grave.
L’anidride carbonica risucchiata in tempo record dagli oceani sta cambiando la composizione molecolare dell’acqua marina, che – arricchita da ioni di idrogeno – modifica il suo Ph in acido col risultato che la vita per alghe, crostacei e coralli è sempre più dura.

DEOSSIGENAZIONE IN ATTO. Ma non solo per loro: già oggi nel Pacifico esistono oltre 400 «zone morte», cioè prive di forme di vita e questo numero potrebbe aumentare entro il 2030 anche a causa della deossigenazione delle acque, dovuta all’aumento della temperatura degli oceani.
Pure l’attività dell’uomo sull’acqua ha causato effetti devastanti negli oceani: secondo i dati ufficiali ogni anno vengono raccolti 77 milioni di tonnellate di pescato, ma all’inizio del 2016 i ricercatori dell’University of British Columbia hanno aggiornato la stima a 109 milioni di tonnellate, aggiungendo alla statistica elaborata dalla Fao le pratiche sommerse provenienti da pesca di sussistenza o illegale.

TONNO ROSSO QUASI ESTINTO. Senza parlare di quella a strascico che distrugge interi habitat sul fondo del mare e che è vietata, la sola pesca eccessiva sta portando all’estinzione d’intere specie animali come il tonno rosso e il pesce specchio atlantico. Ma a rischio sono anche i predatori del mare: ogni anno sono uccisi decine di milioni di squali soprattutto per le loro pinne, che vengono mozzate ai pescecani e vendute come ingrediente indispensabile per piatti tradizionali asiatici.

Entro il 2050 nuoteranno più materiali plastici che pesci

I rifiuti di plastica rappresentano un grave pericolo per gli animali che popolano l’oceano.

Entro la metà del secolo, annuncia un altro recentissimo studio firmato dal World economic forum, in termini di peso nel mare potrebbero nuotare più materiali plastici di pesci.
Della plastica consumata a terra infatti circa la metà viene dispersa nell’ambiente e in particolare nell’oceano, dove ogni anno sono riversati 8 milioni di tonnellate di rifiuti, più o meno l’equivalente dello scarico di un camion pieno al minuto.
SOFFOCATE 30 MILA FOCHE L’ANNO. Particolarmente pericolosi sono i sacchetti che ogni anno soffocano 30 mila foche e mettono a rischio intrappolamento almeno 49 specie di mammiferi marini.
Il pattume nel mare – che si è raggruppato in isole di spazzatura, tra cui la più grande chiamata Great Pacific Garbage Patch galleggia nel Pacifico – diventa un pericolo anche per le nostre tavole dove arrivano sempre più spesso pesci contaminati da materiali tossici.
SCARICHI NON AUTORIZZATI. Le sostanze chimiche inquinanti (tra cui fertilizzanti, mercurio e petrolio) provengono per l’80% da attività terrestri, sia attraverso scarichi non autorizzati sia grazie alla funzione di trasporto di fiumi e corsi d’acqua.

Nel mirino lo sfruttamento non pianificato degli ultimi 50 anni
(© Getty Images) Alcuni volontari aiutano a ripulire l’acqua e la spiaggia sull’isola caraibiga La Tortuga.

La situazione non è delle migliori, insomma, ma Paola Del Negro, direttrice della sezione oceanografia dell’Istituto nazionale di oceanografia e geofisica sperimentale di Trieste (Ogs), precisa a Lettera43.it: «L’attenzione politica esiste. La convenzione di Rio de Janeiro del 1992 indica nella conservazione della biodiversità il principale obiettivo strategico per il benessere umano. Tale posizione ha portato 10 anni dopo alle determinazioni sulla sostenibilità di Rio+10 a Johannesburg, del Gruppo di lavoro intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc) e delle Nazioni unite (Sdg14), fino alla conferenza di Parigi del dicembre 2015 e all’Enciclica papale Laudato Si’. Tuttavia negli ultimi 50 anni uno sfruttamento non pianificato ha ridotto in modo sensibile alcune risorse con un’economia del mare non coerente con le politiche mondiali orientate a non compromettere il capitale naturale».
CAMBIARE LO STILE DI VITA. L’esperta continua: «Oggi tutti concordano nell’individuazione del problema e degli obiettivi di conservazione del capitale naturale, ma la strategia per raggiungere questi traguardi è ancora in discussione».
Insomma per cambiare le cose «si deve ancora far tanto. Bisogna mutare lo stile di vita a monte, senza demonizzazioni. Serve un’inversione di tendenza verso pratiche di sostenibilità. Ogni iniziativa, di singoli o gruppi, che contribuisce a cambiare mentalità è degna di riconoscenza: conciliare sviluppo economico e salvaguardia del capitale naturale è la sfida più importante».