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Il “fattore culturale” nella legislazione penale. Un approfondimento sul sistema penale italiano: le mutilazioni genitali

6 Agosto 2016


Un’indagine a
livello internazionale sulla rilevanza penale del “fattore culturale” in sede
penale mette in luce le molteplici contraddizioni in tale branca del diritto
che esistono tra i diversi ordinamenti giuridici. In taluni casi il diritto
penale tende a colpire l’aggressione ai beni giuridici mediante la “spada”
delle pena, andando a proteggere i valori della cultura maggioritaria; mentre,
in altri casi diventa “scudo” capace di salvaguardare o legittimare i
comportamenti espressivi di uno specifico universo culturale.
La dottrina
distingue molteplici “atteggiamenti” tra i vari Stati, che possono ricondursi,
a due filoni di politica legislativa: la cosiddetta politica “del
riconoscimento”, detta anche “multiculturale”, che tende a valorizzare e appunto,
a riconoscere l’identità delle minoranze, e la cosiddetta politica
“assimilazionista” che  è volta alla
piena integrazione dei soggetti culturalmente diversi verso lo stile di vita e
le tradizioni dei soggetti appartenenti alla cultura maggioritaria.
Tra questi due
orientamenti esistono naturalmente una molteplicità di gradazioni: si passa da
legislazioni di completa tolleranza, a regimi di indifferenza, fino ad
atteggiamenti di intolleranza.
Nel modello
legislativo di tolleranza, ricordiamo ad esempio gli ordinamenti giuridici dei
Paesi Anglosassoni, del Canada o del Perù, la cui legislazione si presenta, per
certi aspetti, talmente ampia da prevedere leggi penali e processuali
“parallele” per le minoranze rispetto a quelle disposte per la maggioranza dei
cittadini ; ancora si considerino le disposizioni giuridiche che dispongono la
non applicazione di talune norme penali agli individui che hanno una
particolare origine culturale, come i pellerossa, gli indios o gli aborigeni, o
infine, si prendano in esame i norme che riconoscono la non colpevolezza o
prevedano un’attenuazione di pena quando l’agente commette un reato spinto o
influenzato dall’origine culturale. 
Vi è poi il regime
dell’indifferenza, categoria poco significativa, che è caratterizzata dall’
assenza totali di norme concepite appositamente per i delitti culturali e i
loro autori. Fino a poco tempo fa per esempio in molti Paesi dell’UE non era
presente una legislazione dedicata ai reati influenzati dall’origine del
soggetto agente, forse perché l’esistenza di gruppi minoritari o etnici non era
molto diffusa.
Infine,
l’atteggiamento di intolleranza si caratterizza per il fatto di non dare
rilevanza a livello penale, al “fattore culturale” e ai possibili conflitti tra
gruppi maggioritari e minoritari. Un esempio può essere la legge turca che,
come illustrato precedentemente, ha scelto di attuare una politica legislativa
intollerante verso gli omicidi a movente culturale, non vi è un margine di
riconoscimento o una sorta di apprezzamento, anzi la disciplina disposta è
chiaramente severa e rigida.
Per quanto concerne
la legislazione penale italiana, essa sembra far parte di questa categoria, in
particolare la dottrina parla di modello “assimilazionista discriminatorio” .
Sino ad oggi, non vi è traccia nell’ordinamento penale italiano di norme che
favoriscono o vadano ad attenuare le conseguenze penali applicabili ai reati
culturalmente orientati. Sembra che la legislazione penale sia “refrattaria a
giustificare, ovvero anche solo a valutare con una certa indulgenza, la
commissione di fatti penalmente rilevanti nel caso in cui essi siano frutto di
un c.d. “conflitto normativo”.
La ragione
prevalente che sembrerebbe motivare questo atteggiamento di chiusura rispetto a
tali illeciti ha carattere storico, in quanto fino a pochi decenni fa l’Italia
non presentava minoranze etniche molto diverse dalla cultura maggioritaria,
l’immigrazione non era un fenomeno così significativo come lo è ai giorni
nostri; perciò il Paese non avrebbe ancora avuto il tempo di elaborare
soluzioni ottimali per “risolvere” le questioni multiculturali.
Ma il fatto che non
siano presenti delle norme pensate appositamente per regolare il “fattore
culturale” non significa che il sistema penale sia indifferente, anzi ci sono
chiare note che indirizzano in una direzione contraria, basti pensare
all’introduzione a al regime sanzionatorio dedicato alle mutilazioni genitali
femminili.
Con l’espressione
“mutilazioni genitali” si intende quell’insieme di “pratiche di modificazione o
comunque di aggressione degli organi genitali femminili, attraverso le quali si
attua una sorta di controllo sulla sessualità e sul corpo della donna.”  Tali pratiche sono diffuse soprattutto tra i
gruppi etnici di numerosi Paesi Extraeuropei, soprattutto appartenenti
all’Africa, e in parte all’Asia, ma a causa dei flussi migratori, anche i Paesi
occidentali hanno conosciuto in modo diretto il fenomeno in esame.
Le mutilazioni
genitali femminili assumono caratteristiche diverse in relazione
all’appartenenza geografica e alle tradizioni dei soggetti coinvolti. La
diversità può inerire alla tipologia, alla modalità di intervento, alle
motivazioni, al numero e all’età delle donne che subiscono queste pratiche. Per
definire al meglio il fenomeno nella sua molteplicità di sfaccettature,
l’Organizzazione Mondiale della Sanità-WHO , nel 1995, ha definito in modo
specifico il significato di mutilazioni genitali femminili, ritenendole
“pratiche che comportano la rimozione parziale o totale degli organi genitali
femminili esterni o altri danni agli organi genitali femminili, compiute per
motivazioni culturali o altre motivazioni non terapeutiche”. Il WHO ha poi
indicato i diversi gradi di mutilazione, dalla escissione di alcune parti dei
genitali si passa alla completa eliminazione o cucitura i restringimento del
canale vaginale, la c.d. infibulazione. Le motivazioni che sorreggono queste
attività possono concernere differenti profili: l’identità culturale, al
convinzione religiosa, la purificazione esaltazione delle sessualità, l’onore
familiare, le credenze relative alla salute, igiene ed estetica femminile,
preservazione della verginità e rafforzamento della fedeltà matrimoniale,
l’aumento del piacere sessuale del marito, l’incremento della fertilità o delle
chance di matrimonio.  Considerate le
forti convinzioni culturali che originano tali pratiche, è unanime l’opinione
che le mutilazioni genitali siano in questi contesti reati culturalmente
orientati.
Negli ordinamenti
giuridici dei Paesi occidentali la prassi culturale delle mutilazioni genitali
femminili va però a scontrarsi con diritti fondamentali che offendono
l’integrità fisica, la dignità della donna, perciò gli Stati occidentali hanno
scelto di punire penalmente tali pratiche, in alcuni casi con leggi ad hoc, in
altri mediante leggi esistenti, come quelle che regolano le lesioni personali.
In Italia nel 2006
il legislatore ha emanato una legge  che
ha introdotto il reato di mutilazioni genitali femminili, all’art 583bis comma
1 cp , e le lesioni genitali, ex art 583bis comma 2 cp .
Il primo reato, come
evince dalla norma, punisce specifiche pratiche di mutilazione degli organi
genitali, quali la clitoridectomia, l’escissione e l’infibulazione e qualsiasi
altra pratica che cagioni effetti dello stesso tipo, mentre il secondo condanna
chi, in assenza di esigenze terapeutiche, provoca, al fine di menomare le
funzioni sessuali, lesioni agli organi genitali femminili diverse da quelle
indicate al primo comma, da cui derivi una malattia nel corpo o nella mente.
Ciò che colpisce
delle due norme è l’aspro trattamento sanzionatorio che rispetto a quelle che
regolano le lesioni dolose, lievi, gravi o gravissime, disciplinate agli
articoli 582 e 583cp,le quali prevedono una cornice edittale minore: dai tre
mesi ai tre anni la prima, e dai tre anni ai sette la seconda. La pena invece
scelta per questi delitti culturalmente orientali è di molto maggiore: l’art
583bis co. 1 dispone la reclusione dai quattro ai dodici anni, mentre l’art
583bis co.2 dai tre ai sette.
Si presume quindi
che la severità della pena adottata per i reati di mutilazione degli organi
genitali femminili e di lesioni di questi derivi dal “fattore culturale”
connesso insanabilmente ad esse. Il legislatore ha valutato la base culturale
che sostiene tali pratiche come se fosse un “disvalore aggiunto”  rispetto alle lesioni personali comuni. La
motivazione culturale porta con sé una maggiore gravità, mentre il fatto
compiuto, che consiste nel lesionare l’integrità psicofisica di un soggetto, ha
lo stesso peso e la stessa drammaticità che caratterizza la fattispecie di
lesioni personali.
Il legislatore, con
l’entrata in vigore delle legge n. 7 del 2006 ha mostrato la sua volontà a non
rimanere indifferente e non porsi in una posizione di tolleranza, anzi dimostra
chiaramente, un atteggiamento di intolleranza verso i valori di altri gruppi
minoritari e a convinzioni culturali appartenenti a culture diverse da quella
italiana.