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Cosa ne pensa la giurisprudenza? Cultural defense e prassi europea

7 Agosto 2016


Come l’atteggiamento
del legislatore non appare univoco, anche gli orientamenti della giurisprudenza
penale tendono verso posizioni differenti, che sembrano anche più nette ed
evidenti di quelle legislative.
Le principali
posizioni dei giudici penali riguardo ai reati multiculturali possono
ugualmente suddividersi in tre categorie: orientamento tollerante, indifferente
ed intollerante.
È difficile, o quasi
scorretto, in questa analisi, suddividere i numerosi orientamenti
giurisprudenziali in base alla Nazione di appartenenza del giudice, poiché
anche all’interno di ogni Paese sono diffuse molteplici posizioni.  Occorre considerare inoltre, i fattori
storici e politici di ogni Nazione che hanno inevitabilmente determinato e
condizionato i differenti orientamenti giurisprudenziali.
In via di
approssimazione, prendendo in considerazione i Paesi anglosassoni, cioè  Inghilterra, Stati Uniti, Canada, Sud Africa
e Australia, e quelli europei, si nota una notevole diversità: la posizione
maggioritaria nei primi è improntata sulla tolleranza, infatti è ormai
consolidata la prassi della c.d. cultural defense, detta anche cultural
defence, ossia “l’applicazione di apposite cause di esclusione della punibilità
ovvero di apposite circostanze attenuanti, applicabili solo agli autori di
reati culturali” ; mentre nei Paesi europei si rilevano più orientamenti che
tendono talvolta alla tolleranza, talvolta, all’opposto, all’intolleranza.
Le molteplici
tendenze dei Paesi europei e il fatto che la giurisprudenza europea sia rimasta
nell’ombra negli ultimi decenni, al contrario di quella anglosassone, deriva
sostanzialmente dall’assenza, negli ordinamenti giuridici, di norme pensate
appositamente per disciplinare il fenomeno dei reati culturalmente motivati,
sia in modo generale, che in relazione a singole figure di reato. Le uniche
disposizioni esistenti in numerosi ordinamenti giuridici europei, riguardano la
materia delle mutilazioni genitali femminili.
Di conseguenza il
giudice che si appresta a decidere un caso concreto in mancanza di norme
regolatrici, si troverà in difficoltà e dovrà talvolta affidarsi
all’applicazione di circostanze aggravanti e talvolta a quelle attenuanti, a
seconda dell’idoneità della circostanza a modellarsi sul reato commesso.
a)                                                                                                                               La
cultural defense
Esaminando in prima
battuta la “giurisprudenza della tolleranza”, occorre approfondire il panorama
anglosassone e la cultural defense. In particolare con quest’ultima espressione
si indica quella “causa di esclusione o di diminuzione della responsabilità
penale, invocabile da un soggetto appartenente ad una minoranza etnica con
cultura, costumi e usi diversi, o addirittura in contrasto con quelli della
cultura del sistema ospitante. Per fare valere la defense. L’agente deve
dimostrare che il comportamento illecito è stato realizzato nel ragionevole
convincimento di agire in buona fede, basata sulla sua eredità o tradizione
culturale”.
Lo sviluppo di
questo orientamento deriva dalla presenza di minoranze nazionali e di
immigrati, che si sono integrati alle popolazioni originarie nel corso dei
secoli e che sono state riconosciute ufficialmente.  In particolare, in Inghilterra, i primi
processi nei quali si è fatto ricorso alla cultural defense con effetto attenuante
o scriminate dei reati risalgono agli anni sessanta, mentre quelli avvenuti
negli Stati Uniti agli anni ottanta, in entrambi gli Stati però, negli ultimi
due decenni, si è passati da una sporadica applicazione della cultural defense
ad un riconoscimento generalizzato e al formarsi di una vera e propria dottrina
in materia.
Durante i processi
tale figura giuridica non opera però autonomamente, ma solo all’interno di
altri istituti più generali, quali l’errore, la legittima difesa, la volontà
della condotta, il vizio di mente, lo stato emotivo, la provocazione. Il ruolo
della cultural defense è caratterizzare questi ultimi istituti e connotarli di
un aspetto particolare legato alla cultura, che ne contraddistingue la
motivazione, facendo risultare quest’ultima culturalmente orientata.
Dunque la condotta
del soggetto attivo viene giudicata anche in base alla condizione culturale,
tale giudizio comporta, in alcuni casi, l’assenza o la minore intensità
dell’elemento soggettivo del reato, che conseguentemente conducono alla non
applicazione o all’attenuazione delle sanzioni previste per quel reato
compiuto.  
L’accertamento della
cultural defense passa attraverso due fasi di verifica, uno concerne
l’esistenza di un reato multiculturale, e il secondo riguarda la prova della
ragionevolezza dell’adesione alla cultura. Al fine di giungere ad un’analisi
completa dei due momenti, la giurisprudenza ha elaborato uno schema lineare,
fatto di verifiche successive, disposte l’una dopo l’altra in modo
logico-temporale. Le parti che compongono questo schema sono tre: indagine sui
motivi, riscontro oggettivo e confronto tra cultura del gruppo e paese
ospitante.
La prima è volta a
stabilire se la causa psichica che ha determinato il reato ha origine dai
valori culturali del soggetto attivo. Sono qui valutati tutti gli aspetti della
personalità del reo, non del gruppo a cui quest’ultimo potrebbe appartenere.
Non serve che il reo dichiari principi o simboli culturali, è sufficiente che
questi valori emergano dal suo comportamento.
Superato questo
momento, si passa alla seconda parte dello schema giurisprudenziale, nella
quale si dimostra che la motivazione culturale personale dell’agente è
espressione del bagaglio culturale di appartenenza. Occorre accertare che la
condotta tenuta dal soggetto agente sia valutata allo stesso modo anche dal
gruppo etnico o dalla minoranza di cui fa parte. È un passo importantissimo, al
quale spesso prendono parte anche esperti qualificati che hanno il compito di
valutare l’ambiente culturale del gruppo in questione.
Infine, da ultimo,
si opera il confronto tra la cultura del gruppo minoritario e quello del Paese,
quindi minoranza contro maggioranza, cosi da individuare le differenze tra i
sistemi e i differenti trattamenti giuridici.
Procedendo
all’accertamento di questi tre momenti di analisi, il giudice è in grado di
verificare se realmente l’agente ha commesso un delitto spinto dalla tradizione
culturale e del gruppo minoritario di appartenenza, e successivamente, emanare
un verdetto che giustifica o che tende a tollerare la commissione del reato.
b)                                                                                                                               La
prassi giurisprudenziale europea
“Maurizio Pusceddu è
un giovane italiano immigrato in Germania. 
Nato a Cagliari nel 1978, nel 2005 vive a Stadthagen, nel Land della
Bassa Sassonia, dove si guadagna da vivere facendo il cameriere, si costruisce
una cerchia di amici e trova una fidanzata, anch’essa immigrata, di origine
lituana. “Convintosi, ad un certo punto, che la fidanzata gli sia infedele,
Pusceddu la sottopone ripetutamente per tre settimane a stupri, violenze
fisiche e psicologiche, sevizie ed umiliazioni di singolare crudeltà, tenendola
segregata nel proprio appartamento”. Pusceddu viene arrestato e processato, e
il 25 gennaio 2006 il Landgericht di Bückeburg lo condanna a 6 anni di
reclusione per “privazione della libertà in concorso formale con il reato di
violenza carnale in 2 casi, di lesione personale pericolosa in 5 casi e di
lesione personale in 2 casi”. Ora, se si considera che Pusceddu avrebbe potuto
essere condannato, secondo il codice penale tedesco, alla reclusione da due a
quindici anni, la pena comminatagli può facilmente apparire piuttosto mite in
relazione ad una condotta criminale la cui straordinaria efferatezza è rilevata
nella stessa sentenza di condanna. Di tale efferatezza il Tribunale di
Bückeburg tiene conto come aggravante ai fini della commisurazione della pena;
tuttavia, al contempo, concede a Pusceddu delle attenuanti, tali da limitare
infine la condanna a sei anni di carcere. In particolare, il Tribunale ritiene
che si debba tener conto delle “impronte culturali ed etniche” dell’imputato,
in quanto di origine sarda.
In buona sostanza,
il ragionamento del Tribunale di Bückeburg può essere riassunto così: Pusceddu
ha agito in preda ad un eccesso di gelosia, e, poiché “il quadro del ruolo
dell’uomo e della donna presente nella sua patria”, la Sardegna, può aver
contribuito sia alla formazione di una personalità incline alla gelosia, sia
alla incapacità di controllare gli eccessi che la gelosia può provocare, la
responsabilità penale di Pusceddu deve essere valutata con minor severità.
“L’assunzione implicita è che la cultura sarda sia marcatamente patriarcale e
un po’ primitiva, una cultura nella quale la condizione della donna è di forte
sottomissione”, e nella quale l’“autorità” maschile si può esercitare anche
attraverso la forza.” 
“Immigrato in Italia
dal Pakistan con la famiglia, Mohammed Saleem vive a Sarezzo, un comune in
provincia di Brescia. Nella quotidianità della tranquilla famiglia pakistana
sembra esserci una nota stonata: è la figlia Hina, ventenne ribelle, che non
obbedisce ai genitori e secondo questi ultimi, non rispetta le tradizioni
famigliari e la cultura del suo popolo.
L’11 agosto 2006,
con la complicità dei suoi due generi, Kahlid e Zahid Mamhood, Mohammed Saleem
uccide Hina con ventotto coltellate al volto e al collo. Tutti e tre, poi, con
l’aiuto di Muhammad Tariq, zio della vittima, seppelliscono il cadavere nel
giardino di casa di Saleem.
Il fidanzato di
Hina, insospettito, allerta le forze dell’ordine, le quali trovano il corpo senza
vita della giovane donna già l’indomani.
“Al processo, che si
svolge con rito abbreviato, le posizioni dell’accusa e della difesa si
contrappongono nettamente, non tanto in merito ai fatti, quanto in relazione al
movente”.
Il Pubblico
Ministero accusa Saleem di aver premeditato l’omicidio, di aver attirato in
casa Hina con un pretesto, e di averla uccisa per riscattare l’onore della
famiglia che la figlia avrebbe infangato con il suo stile di vita disonorevole
e incurante delle tradizioni. I motivi che hanno spinto Saleem a delinquere
sono definiti dall’accusa abietti e futili, e vengono indicati come
un’aggravante.
Tra premeditazione e
motivi abietti e futili, l’accusa chiede per l’imputato la condanna al massimo
della pena.
Mohammed Saleem
sostiene invece di aver agito d’impeto, per essere stato provocato dagli
insulti e dalle minacce della figlia.
“Nessuna
premeditazione e nessun movente culturale, quindi, sostiene la difesa, che anzi
chiede al giudice di concedere l’attenuante della provocazione”.
Con sentenza
pronunciata in udienza il 13 novembre 2007, il Tribunale di Brescia riconosce
Mohammed Saleem colpevole di omicidio e di soppressione di cadavere e lo
condanna a 30 anni di reclusione. “Il Tribunale condanna, cioè, Saleem al
massimo della pena che poteva essere comminata in sede di giudizio abbreviato
per i reati oggetto di imputazione, ritenendo che la sua responsabilità penale
sia aggravata, tra l’altro, dalla premeditazione e da motivi abietti e futili”.
La Corte d’Appello di Brescia conferma nel 2008 la sentenza del Tribunale di
primo grado ed infine nel 2010, la Corte di cassazione respinge il ricorso
degli imputati, e di conseguenza, il giudizio della Corte di secondo grado
rimane immutato”. 
Le sentenze
analizzate rappresentano due modelli di prassi giurisprudenziale opposti: l’uno
legato ad un atteggiamento di tolleranza, l’altro tendente verso una politica
tendente all’intolleranza.
Nel primo caso ciò
che rileva e che porta ad un’attenuazione della pena sono i valori culturali e
etnici dell’imputato: secondo l’orientamento del giudice tedesco essi
costituiscono la chiave per comprendere il movente del reato. Il verdetto del
giudice è incentrato sulla cultura dell’imputato; si ritiene, quindi, che tali
valori culturali siano diventati principi fondamentali nella vita del Pusceddu,
tanto che egli non sia stato in grado di vedere il limite tra il “proprio
essere” e la propria cultura, e, la libertà e la vita della vittima.
Questa sentenza
rappresenta un esempio della prassi giurisprudenziale europea vicina a quella
anglosassone della cultural defense.
Come anticipato,
invece nel secondo caso in analisi, esiste un altro atteggiamento ben diverso
rispetto al primo: la sentenza italiana condanna aspramente gli imputati, la
severità del verdetto non sembra solo derivare dall’efferatezza dei delitti
commessi, ma anche dal movente culturale, che, sostenuto dall’accusa, assume
importanza e viene considerato una circostanza aggravante.
Il caso di Hina ha
fatto molto scalpore nella stampa italiana 
e ha avuto una ampia risonanza, sia per i fatti accaduti e sia per il
verdetto del Tribunale di Brescia, che ha trovato una conferma anche durante il
procedimento penale di secondo grado, il quale ha dato supporto
all’atteggiamento di repressione del movente culturale adottato nella prima
sentenza.
La giurisprudenza penale
in questo caso, come in altri, ha preso in considerazione, in sede di
commisurazione della pena, il “fattore culturale” con riferimento
all’aggravante dei “motivi futili e abietti”, di cui all’art 61 n 1 c.p. .
In particolare, per
comprendere cosa si intenda con l’espressione “futilità”, si prenda in esame la
costante giurisprudenza della Corte di legittimità: “la circostanza aggravante
dei motivi futili sussiste quando la determinazione criminosa sia stata causata
da uno stimolo esterno così lieve, banale e sproporzionato rispetto alla
gravità del reato, da apparire, secondo il comune modo di sentire,
assolutamente insufficiente a provocare l’azione criminosa, tanto da potersi
considerare, più che una causa determinante dell’evento, un mero pretesto per
lo sfogo di un impulso criminale”.
Mentre un motivo si
considera “abietto” quando “appare turpe, ignobile, totalmente spregevole, tale
da suscitare una diffusa ripugnanza”
Nella sentenza in
esame, il giudice, sia di primo che di secondo grado, constatando le ragioni
che hanno spinto gli imputati a commettere il delitto di omicidio, ha ritenuto
sussistente la circostanza aggravante ex art 61 n 1 c.p.
Le motivazioni che
hanno spinto il padre ad uccidere la ragazza, si individuano nel modo di vivere
della giovane, nello scontro, secondo la famiglia, tra il comportamento
abituale di Hina e la cultura del popolo pakistano, nel fatto che il padre si
accusasse di aver fallito il suo compito di educare la figlia, e
conseguentemente, nel senso di vergogna della comunità di appartenenza.
Analizzando le
motivazioni alla base del delitto, il giudice ha considerato le norme culturali
della comunità di cui la famiglia pakistana è parte, e interpretando nella
ricostruzione della fattispecie, gli elementi extra-giuridici, segnatamente
culturali , egli è arrivato alla conclusione, in primis, che il delitto di
omicidio sia supportato da un motivo futile perché e del tutto sproporzionato
rispetto all’entità del reato: esiste un netto squilibrio tra il motivo e il
fatto per la coscienza civile: “alla stessa comunità pakistana il fatto è
apparso privo di qualsiasi proporzione, ed i motivi biasimevoli ed
assolutamente insufficienti a portare l’azione così come concretamente
realizzata”. 
Successivamente poi,
il giudice ha elaborato valutazione sull’abiettezza dei motivi ad agire. Rileva
soprattutto il verdetto della Corte di Cassazione. Nella sentenza, la Corte ha
riconosciuto che “il motivo è abietto le volte in cui la motivazione
dell’agente ripugni al comune sentire della collettività” e, nel caso in esame,
è evidente un marcato senso di riprovazione della società verso i delitti
commessi. La Corte ha anche sottolineato e aggiunto che i giudici di merito
nell’accertare la sussistenza dei motivi abietti, devono approfondire la
valutazione del “rapporto di repulsione” e far rilevare “le ragioni soggettive
dell’agire in termini di riferimenti culturali, nazionali, religiosi dell’atto
criminoso”. In questo modo la circostanza aggravante va a modellarsi sulle
motivazioni che stanno alla base di un reato culturalmente orientato.
Il verdetto della
sentenza relativa al caso di Hina Saleem si pone in contrasto, a mio avviso,
con un’altra vicenda, soprattutto per ciò che concerne la valutazione della
circostanza aggravante dei futili motivi: si fa riferimento ad un fatto di
tentato omicidio accaduto a Milano nel novembre del 2011 .
Il corso degli
eventi è stato ricostruito dai giudici di merito nel modo seguente.
“Dal novembre del
2010 erano divenuti tesi i rapporti della parte lesa con il padre, avendo lo
stesso rinvenuto una foto della figlia che la ritraeva in atteggiamenti intimi
con il suo ragazzo, O.A., il quale viveva ad Arezzo e veniva a trovare la sua
ragazza a Milano. L’imputato, anche poiché la figlia aveva trovato un sostegno
nella madre, si era estraniato dalla vita familiare e nel mese di agosto si era
allontanato dalla sua abitazione per passare un periodo di vacanza da solo. La
figlia E. aveva continuato a frequentare il suo ragazzo e il 3 settembre 2011,
il giorno prima del fatto, questi era venuta a trovarla a casa mentre lei era
da sola. La sera, inaspettatamente l’imputato era tornato a casa; la figlia,
che gli aveva aperto la porta avvolta in un asciugamano poiché era appena
uscita dalla doccia, aveva fatto nascondere il suo ragazzo nel balcone, ma il
padre l’aveva scoperto e si era limitato a metterlo alla porta. Quella sera
aveva avuto una discussione con la figlia e la stessa aveva ammesso di non
essere più vergine; poi, quando la moglie era tornata a casa, l’imputato se
l’era presa anche con lei perché aveva tollerato la relazione della figlia con
il suddetto ragazzo. La mattina successiva, dopo che verso le 7,15-7,30 la
moglie era uscita di casa per recarsi al lavoro, l’imputato era entrato nella
camera della figlia, la quale era ancora a letto ma sveglia, e le aveva messo
in testa un sacchetto di plastica stringendo i manici all’altezza del collo per
soffocarla, dicendo frasi come ‘‘sei il disonore… non dovevi fare questo’’;
la ragazza era riuscita però a lacerare il sacchetto ed a divincolarsi; il
padre aveva allora cercato di strangolarla cingendole un braccio intorno alla
gola; la figlia, mordendogli il braccio, era riuscita a liberarsi e scappare;
l’imputato l’aveva raggiunta e l’aveva riportata in camera, facendola sedere
sul letto; i due avevano discusso e il padre, piangendo, le aveva chiesto
perché si era comportata in quel modo, in violazione dei precetti della
religione musulmana; la ragazza l’aveva pregato di punirla ma non di ucciderla;
il padre le aveva risposto che ‘‘le botte’’ non servivano, che doveva pagare
per quello che aveva fatto e che non gli importava di finire in galera. Mentre
il padre era andato in bagno, la ragazza era scappata in pigiama e si era
rifugiata a casa della zia.”
Il caso in esame
riguarda il rapporto problematico tra un padre e una figlia e la volontà di
quest’ultima di condurre una vita diversa da quella che il padre vuole imporle,
più rigorosa e vicina alle credenze culturali d’origine.
La connessione tra
il fatto accaduto di tentato omicidio e la cultura del soggetto agente è molto
rilevante ai fine della comprensione del caso e del trattamento sanzionatorio.
In particolare per ciò che riguarda quest’ultimo, il verdetto di entrambe le
sentenze di merito ha disposto la reclusione di anni 7 per tentato omicidio,
aggravato dalla premeditazione e dalla futilità dei motivi.
La difesa
dell’imputato ricorre in Cassazione e tra gli altri motivi di ricorso, deduce
la violazione di legge perché la sentenza d’appello aveva ritenuta integrata
l’aggravante dei futili motivi.
La Corte di
Cassazione, valutando gli eventi, adotta una soluzione interessante in materia
di reati culturalmente orientati, che si pone in modo differente rispetto al
caso di omicidi di Hina, analizzato pocanzi.
Innanzitutto, la
Corte ribadisce che la futilità dei motivi ricorre “quando la determinazione
criminosa sia stata causata da uno stimolo esterno così lieve, banale e
sproporzionato rispetto alla gravità del reato, da apparire […] assolutamente
insufficiente a provocare l’azione criminosa, tanto da potersi considerare, più
che una causa determinante dell’evento, un mero pretesto per lo sfogo di un
impulso criminale”, e successivamente, spiega che ,nel caso in esame, non è
ravvisabile l’esistenza di uno stimolo esterno irrilevante, l’imputato ha agito
perché si è sentito disonorato dalla figlia, la quale aveva rapporti sessuali
senza essere sposata e in più, aveva tali rapporti con un giovane di fede non
mussulmana.
La Corte rileva
quindi l’importanza per l’uomo dei motivi per cui ha commesso il delitto, ossia
ragioni fondate sull’onore familiare e sulla fede religiosa.
Nella sentenza,
assume valore il carattere soggettivo della circostanza aggravante: esso è
indice univoco di un istituto criminale più spiccato e della più grave
pericolosità del soggetto. Nel fatto in esame l’uomo ha agito per motivi
strettamente legati alla sua cultura e a causa della condotta della figlia.
Perciò la Corte
conclude che “per quanto i motivi che hanno mosso l’imputato non siano assolutamente
condivisibili nella moderna società occidentale, gli stessi non possono essere
definiti futili, non potendo essere definita né lieve né banale la spinta che
ha mosso l’imputato ad agire”.
Di conseguenza la
Corte accoglie il ricorso per questo motivo e annulla e rinvia a giudizio la
sentenza della Corte d’appello.
La sentenza si
allinea così all’orientamento ormai assunto dalla giurisprudenza di legittimità
in casi simili, il quale afferma la necessità che l’accertamento sul motivo che
ha spinto il soggetto ad agire sia il più possibile ancorato al caso concreto
ed alle peculiarità del singolo agente.
“Tale posizione
tende a conferire rilievo alla cultura del soggetto agente e costituisce
un’evoluzione rispetto all’interpretazione precedente, che invece utilizzava al
fine della valutazione dell’aggravante in questione parametri generici ed
assolutamente astratti quali ad esempio la “generalità dei
consociati” o la “coscienza collettiva”, che non si prestavano
ad attribuire rilievo alle singole peculiarità degli autori di reato”.
I casi concreti
analizzati mostrano, assieme ai molteplici atteggiamenti dei legislatori,
l’inesistenza di un orientamento univoco, non solo a livello nazionale, ma
anche internazionale, dimostrando dunque, la peculiarità che caratterizza i
reati culturalmente orientati e la difficoltà di prendere una posizione
giuridica definitiva.