General

India: contro caste e discriminazioni…

di Marina Forti, 14 giugno 2016.



Maggio inoltrato, New Delhi. 

Nel
campus della Jawaharlal Nehru University un gruppo di studenti ha
allestito un piccolo accampamento sotto il portico d’ingresso al
rettorato. Uno striscione annuncia uno “sciopero della fame indefinito”.
Jnu, come è comunemente chiamata, è tra le università più prestigiose
dell’India; occupa un grande campus nella zona sud della città,
collinoso e molto verde, anche se non basta ad attenuare il caldo
soffocante della precoce estate. Gli studenti, diciannove uomini e
donne, digiunano da 12 giorni quando li incontro; alcuni loro compagni
sono già stati ricoverati in ospedale, allo stremo. Arriveranno a 16
giorni di sciopero della fame, una delle proteste più lunghe nella
storia dell’università indiana. Chiedono la revoca dei provvedimenti
disciplinari inflitti dalle autorità accademiche ad alcuni di loro,
tutti dottorandi: sospensioni e perfino espulsioni fino a cinque anni,
divieto di entrare nel campus e pesanti multe pecuniarie. Per la gran
parte di quei ragazzi sarebbe la fine del percorso di studi. 

Le
punizioni alla fine sono state solo sospese: e non dalla Cancelleria
dell’università ma dall’Alta Corte di New Delhi, che ha accettato di
esaminare un ricorso degli studenti chiedendo loro di mettere fine al
digiuno.


Lo sciopero della fame nel campus di
New Delhi è solo l’ultimo episodio di un’ondata di proteste che ha
coinvolto le maggiori università dell’India nell’ultimo paio d’anni. 

Un
movimento che ha sollevato questioni di fondo: dalla libertà di
esprimere il dissenso, minacciata da un governo ultranazionalista, al
clima di intolleranza alimentato da una cultura politica che vuole
imporre all’India una improbabile identità unica di “nazione hindu” (è
l’ideologia chiamata hindutva),
fino al posto delle minoranze e dei “gruppi svantaggiati” nella società
indiana. 

Ad esempio il posto dei Dalit, i fuoricasta – quelli una volta
chiamati “intoccabili”, termine uscito dal discorso pubblico da quando
sono formalmente vietate discriminazioni castali, che però restano nei
fatti. Insomma, il movimento delle università ha posto una sfida
politica che va oltre i campus.


A Jnu la scintilla è stata l’arresto
di tre studenti. I fatti risalgono al 9 febbraio, dopo un dibattito
organizzato nel campus sul caso di Afzal Guru, attivista del Kashmir
condannato a morte per la sua indiretta partecipazione a un sanguinoso
attacco al parlamento indiano nel dicembre 2001. L’esecuzione di Guru,
avvenuta il 9 febbraio 2006, ha sollevato molte polemiche in India;
giuristi, attivisti per i diritti umani, giornalisti e scrittori hanno
sostenuto che non aveva avuto un processo giusto e che una condanna
affrettata non chiariva le reali responsabilità dell’attentato, e
tantomeno aiutava ad affrontare la crisi in Kashmir. 

Dunque non era la
prima volta che il caso di Afzal Guru veniva discusso pubblicamente:
quella sera però gli attivisti di un’associazione studentesca legata
all’estrema destra hindu hanno protestato presso l’ufficio del
Vice-Cancelliere, massima autorità dell’ateneo. Dicevano che là si
inneggiava alla distruzione dell’India. Il Vice-Cancelliere ha subito
chiamato la polizia per mettere fine a tali “attività anti-nazionali”:
così sono finiti in galera Kanhaiya Kumar, presidente eletto dell’Unione
degli Studenti di Jnu, e altri due membri del direttivo, Umar Khalid e
Anirban Bhattachariya.



«È stato un incidente costruito, una provocazione», dice Riya (nome fittizio, ndr),
studentessa che partecipa al digiuno. Intorno sono sparsi zainetti,
contenitori d’acqua, libri, qualche laptop. Le indagini della
magistratura hanno appurato che un filmato trasmesso a ripetizione dalle
tv nazionali, fonte delle accuse, era un montaggio. Mostrava
l’assemblea studentesca e un gruppetto che urla “guerra finché l’India
sarà distrutta”, o “lunga vita al Pakistan”, ma è risultata una scena
aggiunta: chi, quando e dove abbia urlato quegli slogan non è stato
chiarito. C’è chi parla di infiltrati. In ogni caso, i tre studenti sono
stati imputati di “sedizione”.


La protesta è scoppiata allora. «Per
tre giorni abbiamo tenuto sit in, abbiamo fatto catene umane e una
marcia interna al campus con oltre cinquemila persone», ricorda Riya:
«La legge anti-sedizione va abolita. È un rimasuglio dell’era coloniale,
serve a colpire il dissenso» (già, era una legge emanata dai britannici
per reprimere l’allora movimento anticoloniale).



Gli arresti hanno fatto scalpore ben
oltre il campus. Alcune figure del governo hanno sparato a zero:
terroristi, elementi antinazionali. Le tv hanno amplificato le accuse.
Durante l’udienza che ha confermato l’arresto, nell’aula del tribunale,
avvocati e agenti di guardia sono stati visti picchiare gli imputati.
Kumar e i suoi compagni sono stati scarcerati un mese dopo, su cauzione,
perché non c’erano prove a loro carico: il magistrato però ha ribadito
che non si può invocare la “libertà d’espressione” per quegli slogan,
che sono una minaccia all’integrità della nazione, anzi “una infezione”
che “va amputata”. Parole inquietanti.



Tornato al campus, Kanhaiya Kumar ha
parlato a migliaia di studenti che lo attendevano. «Non cerco libertà
“dall’India” ma “nell’India”», ha detto tra applausi e urla di “azadi”, libertà. «Vogliamo azadi
dal capitalismo, dal brahmanesimo, dal castismo, questa è la libertà
che vogliamo». Quel discorso ha avuto grande eco in tutta la nazione.
Molti vedono in Kumar una stella nascente della politica.


Le agitazioni sono continuate tutta
la primavera, insieme alle richieste di punizioni esemplari per gli
“anti patriottici”. Tra marzo e aprile, nel piazzale davanti al
rettorato si è svolta una serie di lezioni aperte in cui illustri
giuristi, storici, economisti, artisti hanno discusso “i molti
significati di libertà” (filmate, sono sul sito web nato a sostegno del
movimento di Jnu). «È in gioco la libertà di opinione», commenta Jayati
Ghosh, nota economista, che come molti altri professori di Jnu ha
solidarizzato con gli studenti. 

Fa notare che la Jawaharlal Nehru
University ha una consolidata reputazione di università aperta al
dibattito. All’inizio di quest’anno però si è insediato un nuovo
Vice-Cancelliere (è una nomina governativa): un uomo noto non per le
credenziali accademiche ma perché vicino alla Rss, organizzazione
politico-culturale all’origine dell’idea di “India hindu” (fondata nel
1925, la Rss ha una struttura paramilitare e una forte coesione interna;
dai suoi ranghi escono tutti i dirigenti di spicco del partito
nazionalista al governo, incluso il premier Modi). Un paio di settimane
dopo l’arrivo del nuovo Vice-Cancelliere, ecco la provocazione che ha
portato in galera gli studenti. «L’intenzione del governo è chiara,
distruggere l’università come luogo di libera espressione e circolazione
del sapere», sostiene Ghosh.



«Attaccano Jnu perché fa resistenza all’ideologia della hindutva
promossa dal governo», osserva Himanshu, uno dei ragazzi accampati
davanti al rettorato. «Ma il nostro movimento non riguarda solo
l’università. Libertà di espressione, giustizia, caste, riguardano
tutti». E poi, il movimento è nato molto prima degli arresti: «È
cominciato a quando Rohit Vemula si è tolto la vita».


Il suicidio di Rohit Vemula, studente
all’università di Hyderabad, nell’India meridionale, lascia sgomenti. È
successo in gennaio, e ha suscitato rabbia in tutta l’India,
mobilitando studenti, attivisti sociali, partiti della sinistra,
intellettuali. Vemula era un dottorando, preparava una tesi di PhD in
scienze naturali. Era anche un dalit. Aveva militato in gruppi della
sinistra, poi era entrato nella Ambedkar Students Association,
organizzazione studentesca che da voce alle istanze dei dalit, gli
adivasi (o “tribali”, i nativi del subcontinente indiano), e di altre
minoranze e “gruppi svantaggiati”.



Il richiamo a Ambedkar fornisce i
riferimenti politici. Bhimrao Ramji Ambedkar, giurista e filosofo, ha
presieduto l’Assemblea Costituente che tra il 1947 e il 1949 ha scritto
la Costituzione indiana. Era un dalit, e si è battuto contro il sistema
delle caste per un’idea inclusiva di cittadinanza. Il sistema di azioni
positive a favore di dalit e adivasi è nato allora. Ma la critica di
Ambedkar era più radicale: sosteneva che la ferrea gerarchia sociale
della casta, in cui un fuoricasta sarà sempre in fondo alla scala del
disprezzo, è connaturata all’idea stessa di “India hindu”; in questo
aveva polemizzato con altri “padri costituenti” e con lo stesso Gandhi
(nei primi mesi di quest’anno, nel cinquantenario della morte, Ambedkar è
stato oggetto di celebrazioni ufficiali perfino stucchevoli, che per lo
più sorvolano sulla radicalità delle sue idee).



Lo scorso settembre il rettorato
dell’Università di Hyderabad ha preso un provvedimento disciplinare
contro cinque studenti, attivisti e dirigenti dell’Associazione
ambedkariana: espulsi dal pensionato e dagli spazi comuni del campus.
Tra loro Rohit Vemula, a cui è stata anche revocata la borsa di studio.
Perché? Qualche tempo prima l’associazione aveva organizzato la visione
di un film documentario, Muzaffarnagar is still standing,
sul pogrom contro la minoranza musulmana avvenuto nella primavera 2014
in una cittadina dell’Uttar Pradesh, India settentrionale: case
bruciate, decine di morti, famiglie musulmane costrette alla fuga. Il
documentario (come già diverse indagini, indipendenti e ufficiali)
ricostruisce come quella violenza sia stata istigata dalle forze della
destra hindu, durante la campagna a elettorale che ha portato alla
vittoria il Partito nazionale indiano (Bjp) dell’attuale primo ministro
Narendra Modi. La proiezione è stata attaccata da studenti della Abvp,
l’associazione legata alla destra hindu (la stessa che ha denunciato gli
studenti di New Delhi: la scrittrice Arundhati Roy, in un recente
saggio, la definisce «occhi e orecchie della Rss, e suo agente
provocatore»). Giorni dopo, un giovane ha denunciato di essere stato
fisicamente aggredito da Vemula e i suoi compagni; sulle accuse sono
stati sollevati molti dubbi, ma l’autorità accademica le ha prese per
buone.



L’umiliazione di quel provvedimento
disciplinare è evidente: Vemula e compagni sono stati banditi dagli
spazi pubblici, proprio come “intoccabili”. Per protesta si sono
accampati al limitare dello spazio proibito, sotto un riparo di teli e
cartoni polemicamente battezzato velivada,
come lo spazio tradizionalmente riservato agli intoccabili all’esterno
dei villaggi: il “ghetto dalit”. Per mesi il gruppetto si è arrangiato,
dormendo a volte nelle stanze di amici, mangiando gli avanzi della
mensa. La protesta degli studenti espulsi non sembra aver mobilitato
altre associazioni studentesche né le forze politiche della sinistra, al
di là di attestati di solidarietà. Cosa spinga una persona a togliersi
la vita è imponderabile, ma gli amici di Vemula hanno parlato di una
sensazione di isolamento ormai schiacciante.



Rohit Vemula era figlio di una madre
sola e poverissima, e aveva avuto una vita pesante. Era uno studente
brillante, ma senza la borsa di studio difficilmente sarebbe potuto
arrivare al PhD. Anche i suoi compagni sono la prima generazione
istruita nelle rispettive famiglie. È un dato: in tutta l’India
l’università pubblica, il sistema delle borse di studio, e vent’anni di
politica delle pari opportunità hanno trasformato la composizione delle
università: negli anni ’80 erano più élitarie, oggi i “gruppi
svantaggiati” non sono più sparute minoranze (a Jnu, a New Delhi, sono
sono quasi metà degli iscritti). Certo: ammettere ai corsi è una cosa,
eliminare il disprezzo è altro (un reportage del magazine Caravan sulla
storia di Vemula ricostruisce le umiliazioni subite da studenti e
insegnanti dalit a Hyderabad). Ora però una nuova generazione di
studenti, assertivi e curiosi, non si limita a rasentare i muri:
rivendica rispetto, e anche il diritto a esprimere opinioni.



Le parole lasciate da Rohit Vemula
sono ormai famose. «Il valore di un uomo è stato ridotto alla sua
immediata identità e alle sue possibilità. A un voto. Un numero. Una
cosa. Mai un uomo è stato trattato come una mente, una cosa gloriosa
fatta di polvere di stelle». Riprodotte su striscioni e manifesti,
ripetute in assemblee, urlate in cortei di protesta, queste parole hanno
fatto il giro dell’India.



Sono queste parole che vedo scritte
sotto il ritratto stilizzato di un giovane sorridente, affisso dagli
studenti sulla facciata del rettorato della Jawaharlal Nehru University
di New Delhi. Accanto c’è il volto di Ambedkar con un’altra citazione:
«Se il dominio hindu si realizzerà, sarà la più grande calamità per
questo paese, una minaccia a libertà, eguaglianza e fraternità». Poi
ancora il ritratto di Baghat Singh, leggendario leader del movimento
operaio. Più su l’immagine di Soni Sori, insegnante e attivista sociale
adivasi in una remota regione dell’India centrale. Sono le figure prese a
riferimento da questi studenti, che combinano le rivendicazioni
anticasta, la critica alla politica identitaria e sciovinista della
destra hindu, e la critica delle diseguaglianze sociali propria della
sinistra.



«Il contesto è un governo di destra
che sta cercando di mettere sotto controllo l’istruzione superiore»,
dice David Pradhan, candidato a un PhD in antropologia culturale, uno
dei partecipanti allo sciopero della fame a Jnu. Cita orrori recenti,
come l’uomo linciato da una folla perché sospettato di mangiare carne di
bue, o intellettuali e artisti attaccati e a volte uccisi perché
accusati di offendere l’ideologia che va per la maggiore: le minoranze
ora vivono in uno stato di insicurezza. «È in gioco l’India come stato
laico», continua lo studente, «un paese stratificato per classi e gruppi
sociali, con grande diversità, dove chi ha l’intelligenza di superare
gli esami abbia l’opportunità di studiare anche a Jnu, una delle
università migliori, luogo di alto standard di insegnamento e di libertà
di espressione».



Il governo attacca l’autonomia delle
università e taglia i fondi per la ricerca, insiste lo studente. «Il
governo ci accusa di essere sediziosi e antinazionali se diciamo che gli
abusi delle forze di sicurezza sono violazioni dei diritti umani: e
questo promette male per l’India», dice David. «Non vogliamo che questo
diventi uno stato teocratico hindù, né uno stato governato dalle
imprese, dove anche l’istruzione è privatizzata». I suoi compagni
annuiscono. E però, conclude Davis, «credo che il governo non avesse
previsto la risposta di studenti e insegnanti di tutto il paese».




(*) Ripreso, con la foto, da Reset-Dialogues on Civilizations. 

E sempre di Marina Forti sull’India potete leggere «La magia di
Calcutta va salvata dalla speculazione edilizia»: è sul sito della
rivista «Internazionale». Altri articoli di Marina Forti sono sul suo bel blog: www.terraterraonline.org/blog/ ovvero «Terra Terra – cronache da un pianeta in bilico». 

FONTE: La bottega del Barbieri