General

Movimenti sociali e artistici in Tunisia: la resistenza continua (Seconda parte)

di Debora Del Pistoia, 23
Maggio 2016

PRIMA PARTE





L’assenza di
una forza organizzata in grado di recuperare e dare sostegno politico
e organizzativo alle proteste sociali rappresenta oggi, però, uno
dei punti principali di debolezza.




Le tensioni sociali
esplosive e disorganizzate e il riemergere dei movimenti sociali non
costituiscono di per loro una vittoria politica, ma testimoniano che
le ragioni della rivolta persistono immutate e che non riescono a
canalizzarsi in movimenti politici più organici capaci di definire
proposte sociali ed economiche alternative.


Le proteste persistono,
ma con un metabolismo basale che ha le sembianze di una sottile e
caparbia sopravvivenza, ma non le energie per costruire
un’alternativa.



L’unico attore
politico con una base sociale e regionale abbastanza forte da poter
essere in grado di recuperare la proteste sarebbe potuto essere
l’Unione Generale Tunisina dei Lavoratori (UGTT), parte del
Quartetto riconosciuto dal Nobel, storico sindacato dei lavoratori.


La stessa da sempre è
caratterizzata da una capacità di riunire rivendicazioni sociali e
politiche, un elemento inedito in altri paesi arabi che hanno vissuto
le rivoluzioni, compreso l’Egitto.


Come sottolinea la
ricercatrice Hela Yousfi, l’UGTT è stata considerata soprattutto
dagli analisti occidentali come emanazione della sinistra
progressista e come organizzazione partigiana, quando invece il
sindacato da sempre riunisce istanze diverse che è riuscito a tenere
insieme in un fragile equilibrio interessi diversi, dalla sinistra
democratica agli islamisti, per arrivare ad emanazioni del vecchio
regime.



Se questa è
sicuramente stata una forza del movimento sindacale tunisino che ha
permesso allo stesso anche di assumere un ruolo fondamentale nella
fase del dialogo nazionale, la stessa specificità ha impedito invece
all’UGTT di diventare una vera forza politica di rappresentanza,
essendo appunto emanazione di visioni politiche molto diversificate.


La sua stessa
implicazione nella dinamica del dialogo nazionale ha fatto perdere la
legittimità rivoluzionaria al movimento sindacale, considerando che
il risultato di questo processo ha portato certo ad evitare derive
violente di guerra civile, ma dall’altro ad annientare il processo
rivoluzionario, costruendo un’alleanza tra il vecchio regime –
rappresentato dall’UTICA, altro attore del dialogo nazionale e dal
partito al governo Nidaa Tounes poi – e gli islamisti conservatori.



Se il compromesso
significa un’alleanza funzionale tra due anime controrivoluzionarie
– rappresentanti del vecchio regime e islamisti conservatori che oggi
governano insieme – in un’armonia di visioni neo-liberali a livello
economico e repressive in termini di diritti, allora il compromesso è
esattamente l’antidoto alle rivendicazioni rivoluzionarie sociali
ed economiche.



Questo quadro di
compromesso rappresenta l’
output
del dialogo nazionale premiato col Nobel e nasconde una serie di
iniziative che colpiscono al cuore il processo di giustizia
transitoria, come per esempio la proposta di legge di riconciliazione
nazionale, che prevede l’amnistia di vari reati economici e di
corruzione commessi prima della rivoluzione e che viene promossa oggi
come una priorità bipartisan, nonostante la mobilitazione che è
riuscita in prima istanza a bloccarne la discussione in Parlamento. 



Alternative
ed esplosioni identitarie.


La voglia di costruire
alternative in Tunisia è però ancora forte e si sviluppa in modi
diversi, in un’esplosione di realtà e progettualità minori in
dimensioni ma non per importanza.


Più lontane dai
riflettori sono le storie cha raccontano delle diverse forme di
resistenza che gli spazi di libertà della rivoluzione hanno premesso
di far emergere.


Da quella delle 65
operaie della fabbrica
tessile Mamotex
, a Echebba
(Governatorato di Mahdia), che dopo una lunga esperienza di
sfruttamento lavorativo in subappalto stanno con le unghie cercando
di costruire un’alternativa di autogestione sostenibile e di
recupero della produzione.


A quella dell’oasi
Jemna
(Governatorato di Kebili), dove l’Associazione di
Protezione dell’Oasi ha ripreso il controllo dei palmeti per
avviare un’esperienza di recupero e autogestione delle terre da
parte della comunità locale, dove l’interesse collettivo prevale
su quello individuale.



Un’esperienza di
gestione partecipata del territorio che mette fine a una lunga storia
di ingiustizie e che sta ridando lavoro a numerosi contadini e
contadine della zona e reinvestendo i profitti della vendita dei
datteri in opere pubbliche nella cittadina di Jemna, dalla
ristrutturazione di scuole, all’acquisti di ambulanze, dalla
costruzione di un centro sportivo, a quella di un mercato coperto per
i produttori locali. 



Ma il paese è
anche testimone di un’esplosione di mobilitazione giovanile che si
declina in forme nuove, artistiche e creative, in nuovi spazi
promossi da collettivi giovanili che a tutte le latitudini
rivendicano libertà e diritti, il riconoscimento del loro esistere
con linguaggi nuovi.



Nuove produzioni
teatrali, cinematografiche, un tripudio di festival animano gli spazi
pubblici e se ne appropriano. Espressioni giovanili di arte e di
azione che rimettono in discussione le dinamiche sociali
tradizionali, che creano un dibattito sui diritti individuali, che
svelano le questioni tabou come quello delle le libertà sessuali e
di scelta personale.



Nel cuore del mese di
maggio Tunisi ospita la seconda edizione del Festival
Choufthounna di Arti Femministe
che investe la capitale con
artiste di vari paesi e dibattiti sui diritti e le espressioni
creative di donne con un approccio pluridisciplinare.



Emergono con
forza anche le identità, in un’esplosione di diversità tale che
spesso queste identità in fermento si scontrano con un’accettazione
sociale difficile in una società ancora prevalentemente
tradizionale.


Impossibile non citare un
fiorente
movimento LGBTQI
che rivendica i diritti delle minoranze sessuali
e che sta imponendo proprio negli ultimi mesi un dibattito pubblico
forte, contrastato da una resistenza sociale che si declina spesso in
gravi espressioni omofobe, come la campagna lanciata da alcuni
gestori di locali per vietare l’ingresso agli omosessuali nei bar o
nei taxi.



Le nuove libertà
si scontrano anche con le pratiche repressive legate ad articoli
vetusti del Codice Penale tunisino che criminalizzano l’omosessualità
(l’articolo 230 del Cp) e con vecchie abitudini dello stato di
polizia che aumentano la crescente frustrazione della gioventù in
fermento.



Sull’onda delle due
dittature precedenti, anche il nuovo stato post – rivoluzionario
utilizza la repressione come mezzo per annullare le differenze ma che
oggi ormai sono emerse e sono state favorite dall’apertura
democratica.


Simbolico il caso del
gruppo di giovani musicisti “
El
fan slah

(“l’arte è un’arma”) che milita per suonare la musica
liberamente nelle strade di Tunisi a cui la polizia intima, dopo un
arresto di qualche ora, di firmare un impegno a non utilizzare più
lo spazio pubblico per esprimersi.



Risposte
autoritarie e tentativi di restaurazione.


Le risposte delle
autorità sin dalle prime manifestazioni di gennaio si rivelano
surreali e demagogiche e ricordano brutalmente pratiche paternaliste
del passato, configurando una crisi dello stato di salute della
fragile democrazia tunisina.



Invece di
rispondere alle esplosioni di collera prendendo in considerazione il
malessere sociale il potere gioca invece sul trattamento palliativo
esclusivamente legato alla sicurezza, che non fa altro che aumentare
il disagio rassicurando le richieste di stabilità senza affrontare
la ridefinizione delle politiche di sviluppo. 

Le autorità giocano la
carta del terrorismo, presagendone l’infiltrazione tra i
manifestanti per neutralizzare il movimento.



In ultimo, ma non meno
grave, il segnale del governo è quello di non poter contenere i
movimenti sociali attraverso il coprifuoco e lo stato di emergenza,
l’ennesimo di questi ultimi cinque anni che che pesa sul già
fragile tessuto economico e produttivo del paese.



E’ importante
ricordare che tra il 2011 e il 2015 in Tunisia lo stato di emergenza
è stato decretato ben 24 volte e per un totale di 1274 giorni
(ovvero il 72% degli ultimi cinque anni, come ricorda il sito
indipendente di Nawaat
). 
Ne consegue la strumentalizzazione
della minaccia terroristica per giustificare leggi anti-democratiche
e un’
escalation
di arresti e operazioni di polizia che sembrano più che altro
finalizzate a mettere a tacere voci scomode, a minacciare le libertà
individuali riconquistate con forza dopo la rivoluzione ma oggi
considerate pericolose per la sicurezza e l’ordine pubblico.



Non solo il rivendicare
il lavoro e i diritti diventa un crimine, ma il tentativo di
delegittimazione dei movimenti sociali da parte delle autorità è
capace di attivare lo spauracchio del terrorismo per accusare gli
stessi manifestanti provenienti dalle regioni interne come affiliati
a gruppi terroristi.


Il paradosso sussiste nel
fatto che proprio in quelle regioni la popolazione stia denunciando
da tempo l’abbandono dello Stato in determinati territori in cui si
è radicato il terrorismo, pensiamo alla richiesta di protezione
inascoltata degli abitanti di Seliana, caso documentato dal sito
indipendente Inkyfada



In questo quadro
è un sistema basato sul tentativi di restaurazione del vecchio
regime a farla da padrone.


Se la road
map
della
transizione ha compiuto il suo corso in Tunisia, portando
all’approvazione della nuova Costituzione, richiesta a gran voce
dalla piazza della Casbah nel 2011, ad una consultazione elettorale
democratica nell’autunno del 2014, le riforme strutturali e di
applicazione del nuovo quadro legislativo tardano invece ad arrivare.


Il rapporto di Al
Bawsala
, organizzazione dinamica e impegnata nella promozione
della buona governance e della trasparenza, offre un quadro
preoccupante dell’applicazione della nuova Costituzione, simbolico
di quanto ancora sia embrionale il processo di costruzione di uno
Stato di diritto in cui cittadine e cittadini possano realmente
definirsi tali.



E nel cui vacuum
trovano ancora spazio arresti arbitrari, torture e violazioni dei
diritti in nome della lotta al terrorismo.


Proprio nell’ottica di
preservare l’”eccezione tunisina” e le sue specificità, che
portano anche su una vivacità culturale trasversale alle varie
classi sociali e regionali, è importante sostenere le iniziative
economiche, politiche e sociali di sperimentazioni democratica dal
basso che rappresentano la più potente arma contro lo sviluppo del
terrorismo e della marginalizzazione.




* Nella foto di
copertina, la festa dei disoccupati, 30 aprile 2016. La foto è
di Hamadi Zribi diTunisia in Red, che ringraziamo per la gentile
concessione.


** Questo articolo è
stato originariamente pubblicato su 27esimaora.corriere.it