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Movimenti sociali e artistici in Tunisia: la resistenza continua

di Debora Del Pistoia, 23
Maggio 2016.

A gennaio i riflettori
si sono riaccesi sulle proteste scoppiate in Tunisia. Lontani dalla
Capitale e dai centri del potere politico, i giovani proseguono in
un’azione dirompente di ridefinizione degli spazi pubblici e delle
frontiere interne. 




 
1 Parte.


A gennaio di quest’anno
i riflettori si sono riaccesi sulle manifestazioni e le proteste
scoppiate in varie regioni della Tunisia a partire dalle vicende
di Kasserine
, città del centro ovest della Tunisia.


In quel caso, la miccia
che ha fatto esplodere la tensione è stata la protesta disperata di
Ridha Yahyaoui, giovane laureato disoccupato che, appresa la propria
esclusione da una lista d’attesa per un posto nel settore pubblico,
aveva deciso di arrampicarsi su di un traliccio di fronte alla sede
del Governatorato, rimanendo folgorato.



La tragica morte
del ragazzo e le proteste che ne sono seguite hanno rotto il
disincanto su una democrazia ancora troppo giovane per dirsi stabile
e hanno fatto irruzione sulla scena mediatica internazionale in
maniera imponente, visibilizzando quanto già da tempo si stava
denunciando internamente in termini di frustrazione delle aspettative
rivoluzionarie e di restaurazione autoritaria. 



A scosse intermittenti
infatti, il terremoto sociale che scuote la Tunisia è ormai attivo
da anni, dimostrando che i processi sociali profondi restano vivi e
procedono in parallelo e slegati da una transizione politica ed
istituzionale che avanza con difficoltà ma seguendo la sua
road
map
.


Lontanissime dal
teatro politico della capitale, dal tappeto rosso del premio Nobel,
nell’assenza e nell’indifferenza dei media
mainstream,
giovani e meno giovani continuano le azioni di protesta in svariate
zone del paese, in un’azione dirompente di ridefinizione degli
spazi pubblici e delle frontiere interne.



Da sud est al nord ovest,
una linea rossa di continuità nella marginalizzazione che rivendica
uno spazio di visibilità. 

La rioccupazione degli spazi da parte dei
corpi in rivolta si estende verso latitudini e prospettive diverse
accumunate dalla stessa voglia di contare, di dare una svolta
all’insostenibilità dell’esistenza, di vedere ascoltate le
rivendicazioni contro i muri delle elite che si affannano per
silenziarle in una smania di controllo e sicurezza. Alcuni
flash
ci descrivono meglio questa realtà in sommovimento.  



Kasserine,
gennaio 2016. 


Una lunga occupazione
della sede del governatorato rivendica il diritto al lavoro e alla
trasparenza, l’avvio di processi seri per i casi di corruzione
nell’amministrazione locale, l’applicazione di misure di
discriminazione positiva per le regioni interne.



Dalle periferie
marginalizzate, svariati gruppi di persone decidono di raggiungere
Tunisi, in molti casi dopo faticose marce a piedi, per puntare
direttamente al fulcro del potere decisionale, dopo l’assenza di
risposte dall’amministrazione locale ancora non eletta e
rappresentativa.


Una delegazione di
Kasserine, eterogenea e composta da giovani e meno giovani, da donne
uomini e bambini, di diversa estrazione sociale, raggiunge Tunisi.



Da tre mesi un sit-in
autogestito
sta occupando lo spazio di fronte al ministero
dell’Impiego e della Formazione Professionale. Inascoltato e in una
situazione di intollerabile attesa, Il presidio saprà anche
costruire nuove forme di protesta e di rivendicazione: esempio ne è
l’organizzazione di un’inedita “festa del disoccupato” il 30
aprile scorso, che unirà manifestanti a gruppi di artisti di strada
per richiedere visibilità delle rivendicazioni sociali e il diritto
di usare gli spazi pubblici.



Allo stesso modo
un gruppo di persone provenienti da Gafsa, regione altrettanto
insorgente e ugualmente dimenticata, decidono di sovvertire
simbolicamente gli spazi fisici, prendendo direzioni opposte.


I primi, verso nord, il
centro del potere. Dal sit-in di Gafsa e con rivendicazioni simili al
gruppo di Kasserine, un continuum di protesta che li porta in otto
giorni di marcia
a spingersi nella capitale, direzione piazza
della Kasbah, il luogo dove si materializza il
decision
making process

del paese.



Una marcia di 450
chilometri che ricorda quelle dei manifestanti nei giorni della
rivoluzione, che verrà poi bloccata dalla polizia alle porte della
periferia di Tunisi di Tunisi. I manifestanti cercano comunque di
mantenere attivo il sit-in nonostante la violenza armata dei ripetuti
tentativi di sgombero della polizia che li accerchia e li blocca in
un parco alle porte della capitale.


Altri decidono invece di
prendere la direzione contraria. 

Da Gafsa partono due gruppi di
persone che avviano una marcia simbolica verso il territorio
limitrofo algerino dopo il fallimento delle negoziazioni con le
autorità locali tunisine, con l’obiettivo di superare la frontiera
e abbandonare la cittadinanza tunisina. Faticano a definirsi
cittadini perché l’unico legame che rivendicano con il proprio
Stato è la carta d’identità.



Kerkennah, aprile
2016.

 

Siamo nel minuscolo
arcipelago situato a pochi chilometri dalla capitale economica Sfax,
a suo tempo culla del sindacalismo tunisino. Sulla falsariga di un
movimento di contestazione che prende avvio nel 2011, nuovamente da
qualche mese 267 persone manifestano contro il governo.



Al
centro delle proteste
, la disoccupazione e il mancato rispetto
degli impegni presi dal governo nel 2015 per la promozione di
meccanismi di impiego sostenibili e stabili rispetto all’unica
opportunità lavorativa nella zona: l’industria di estrazione di
gas Petrofac.


Una smisurata presenza
poliziesca e militare occupa l’isola reprimendo violentemente il
movimento, trasformando nuovamente la crisi sociale in crisi
securitaria e sminuendo le richieste della popolazione. 


Il clima turbolento non è
inusuale in Tunisia, se si pensa che nel 2015 il Paese ha vissuto
4.288 movimenti sociali che trovano per la maggior parte in queste
regioni interne il proprio epicentro.



Le immagini che
arrivano da Kasserine, Sidi Bouzid, Gafsa, Kerkennah ce lo confermano
e ridisegnano il processo rivoluzionario come un
continuum
storico che si riproduce e si rinnova a partire dalla rivolta del
bacino minerario di Gafsa nel 2008, mescolando rivendicazioni
politiche, sociali ed economiche.



Sovranità
regionale e questioni sociali e ambientali.



 
Se è vero che la regione
di Kasserine è l’unica ad aver presentato il proprio caso
di fronte all’organo incaricato del processo di giustizia
transitoria, l’
Istanza
Dignità e Verità
,
come regione “vittima di marginalizzazione ed esclusione
organizzata e sistematica”, la situazione in cui versa tutta la
fascia delle regioni interne è tuttora quantomai preoccupante,
nonostante l’illusione del cambiamento formale.



Per questo i
sommovimenti scoppiano nei punti nevralgici del paese dove la
questione sociale si identifica con quella regionale.


Se l’ingiustizia
elitista è presente anche nelle regioni costiere, in primis
concentrata sull’asse modello dell’industria del turismo e in
dinamiche di corruzione endemica, è la maggior parte del paese
assente dalle cartoline turistiche a versare in un’alienazione che
vede la questione delle distribuzione delle risorse come chiave e che
affonda le sue radici già nel periodo coloniale.



Le ricchezze naturali di
cui il paese è ricco (cerealicole, minerarie, petrolifere, idriche)
sono state da sempre gestite in maniera diseguale piegando le regioni
interne in una desertificazione territoriale e sociale.


Sin dall’epoca
coloniale e durante i sei decenni d’indipendenza, l’80% del
territorio è stato utilizzato come bacino di materie prime e di
forza lavoro a basso costo per sviluppare il “centro” economico e
politico del Paese concentrato nelle regioni costiere del nord e
dell’est.



Come
sottolinea Habib Hayeb
, geografo tunisino, una svolta verso un
modello di sviluppo sostenibile e una giustizia sociale, ambientale e
regionale, che riconosca dignità e sovranità a queste regioni è la
chiave per colmare una ferita aperta nel paese costruita su un
rapporto di subordinazione e oppressione centro-periferia.


Una riflessione ancora
oggi importante, se si pensa che gran parte della conseguenze sono
frutto delle politiche neo-liberali adottate negli anni ’80 a
favore di un agricoltura industrializzata fatta di monocolture
orientate all’esportazione, a discapito dell’agricoltura
tradizionale dei piccoli e medi contadini e proprietari terrieri,
traducendosi in particolare nell’accaparramento delle risorse
agricole da parte dei grandi investitori e nella dispossessione della
terra per i prodottori locali.



Un processo che
vede come questione cruciale, ribadita in queste ultime proteste,
proprio quella dell’accesso alla terra.


Se parlando della
Rivoluzione del dicembre 2010-gennaio 2011 è raro leggere
riferimenti diretti alla questione fondiaria e dell’accesso alla
terra, una lettura geografica incita invece ad interrogarsi
sull’importanza dei luoghi e delle specificità nelle dinamiche
sociali sorte a partire da Sidi Bouzid nel dicembre 2010.


La questione fondiaria in
ambito rurale figura tra le ragioni di giustizia e ingiustizia
spaziali e potrebbe essere considerata come sottostante ai movimenti
di contestazione al regime in Tunisia, come sottolinea Mathilde
Fautras
.



Un’ingiustizia
che fatica a colmarsi e che la rivoluzione non ha rimesso in
discussione.
Questo scenario rischia di aggravarsi con l’approvazione
frettolosa di un nuovo accordo
di libero scambio tra la Tunisia e l’Unione Europea
, il
cosiddetto ALECA, suscettibile di riprodurre una serie di grottesche
ripercussioni economiche e sociali in una situazione di forte
precarietà e di faticosa ricerca di un modello di sviluppo economico
che rispetti le specificità del contesto.



Nonostante i termini
dell’accordo siano ancora segretati a Bruxelles, l’accordo parte
con una negoziazione poco equilibrata che potrebbe portare alla
distruzione dell’economia nazionale e in particolare delle piccole
produzioni agricole su cui si regge il paese.



Crisi dei
movimenti organizzati e nuove forme di partecipazione. 

I movimenti che si sono
riattivati nel mese di gennaio rispondono perfettamente alla
situazione socio-economica estremamente dura in cui versa il paese,
in cui anche la dinamica della società civile organizzata risente di
un forte dualismo regionale.


Da un lato le
grandi organizzazioni strutturate e concentrate nella capitale
Tunisi, spesso promosse da militanti di lunga data, sovente scollate
dai processi che nascono dal basso. Dall’altro, un universo di
piccole organizzazioni della società civile emerse con la
rivoluzione del 2011 nelle regioni interne e ben radicate sul
territorio e alle rivendicazioni della base, ma spesso marginalizzate
nei processi di concertazione politica
.


In questo quadro
complesso si delinea una grave crisi di delegittimazione dei
movimenti organizzati, siano essi sindacati o organizzazioni della
società civile, considerati non rappresentativi e incapaci di
prendere posizione e portare avanti le rivendicazioni costruendo un
discorso che possa proporre alternative a un modello dominante
fallimentare a livello economico e politico.


Tutti i nuclei di rivolta
si contraddistinguono oggi per una chiara volontà di rivendicare
l’indipendenza e una dinamica di autogestione, che cerca di
riportare sul scala locale le sfide democratiche della rappresentanza
e eleggibilità. 

(CONTINUA…)



SECONDA PARTE




* Nella foto di
copertina, la festa dei disoccupati, 30 aprile 2016. La foto è
di Hamadi Zribi di Tunisia in Red, che ringraziamo per la gentile
concessione.

 

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Questo articolo è stato originariamente pubblicato su
27esimaora.corriere.it