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Il teatro serbo. Conversazione con Dijana Milošević (Dah Theatre)

di Francesco Brusa, 26 Maggio 2016.



Belgrado,
1992
. Il conflitto è cominciato da circa un anno e nel paese si
respira un clima sempre più autoritario sotto il regime di Slobodan
Milošević. In una delle piazze principali della capitale appaiono
improvvisamente quattro angeli vestiti di nero che iniziano a
declamare un poema di Bertolt Brecht di fronte a una folla di
passanti attoniti, alcuni dei quali anche guardie armate. Così, con
la performance
Questa
confusione babilonica
,
ha inizio la ultraventennale carriera del Dah Theatre che continua
fino a oggi. Dijana Milošević e compagni hanno da allora cercato di
esplorare tutte le “ferite aperte” della società serba con un
approccio che è figlio diretto dell’Odin di Barba, di cui sono stati
allievi. Hanno guadagnato sempre più popolarità e consensi anche
all’estero, ma la loro sede rimane una stanza ricavata all’interno di
una scuola elementare da cui rischiano costantemente di essere
sfrattati. Sempre in qualche misura osteggiati dal sistema ufficiale
ed esclusi dai finanziamenti statali, ci raccontano il loro teatro
impegnato e politicamente “contro”.

 


Il
vostro approccio al teatro è sempre stato un approccio “impegnato”,
fortemente legato al contesto sociale in cui operate. Durante i
vostri 25 anni di carriera, come si evoluto tale approccio anche in
relazione ai cambiamenti storici avvenuti in Serbia?

Credo
che il nostro modo di approcciarci al teatro sia stato determinato
dalle circostanze in cui è nata la compagnia, come una sorta di
“destino” al quale non avremmo potuto sfuggire: la fondazione del
nostro gruppo è avvenuta proprio negli stessi giorni in cui è
scoppiata la guerra civile nel 1991. Al momento del primo attacco, ci
trovavamo in Croazia e ci stavamo recando su una piccola isola con
l’intenzione di fermarci per tutta l’estate e costruirci un
repertorio. Abbiamo saputo dell’aggressione perché le persone del
posto ci hanno informato, additandoci come “invasori” in quanto
serbi e, una volta, addirittura lanciandoci addosso delle pietre
mentre attraversavamo un campo. I primi passi del Dah Theatre sono
dunque profondamente intrecciati con le vicende politiche della
Ex-Jugoslavia e mi è sembrato immediatamente chiaro che in un
contesto del genere il nostro teatro non avrebbe potuto avere a che
fare con l’amore o i sentimenti. Dovevamo parlare di ciò che stava
accadendo. Ho sentito di avere la responsabilità nonché la
possibilità di dire pubblicamente qualcosa riguardo alla follia e
alla distruzione che ci circondava. Tale sentimento è ciò che ha
mosso le prime azioni del Dah Theatre e abbiamo avuto la fortuna di
ottenere un riscontro immediato da parte del pubblico che assisteva
alle nostre performance. 

Abbiamo percepito che il nostro lavoro era
in qualche modo necessario. Si tratta di un punto fondamentale: mi
capita di osservare giovani o vecchi artisti che stanno perdendo il
senso di quello che fanno e credo che questo succeda perché non
sentono che qualcuno ha bisogno della loro attività. Al contrario,
per noi è stato chiaro fin dal primo momento che per le persone
attorno a noi fosse urgente ascoltare ciò che dicevamo, vedere ciò
che facevamo, fosse urgente comunicare con noi. Ecco cosa significa
per me avere un approccio “socialmente impegnato” al teatro:
cercare costantemente di mantenere una relazione critica col mondo in
cui viviamo. Questo è quello che non è cambiato nel tempo, è
l’essenza del nostro lavoro.
Quello che invece è mutato, sebbene
solo parzialmente, è la composizione della compagnia. Il mio sogno
era poter contare sempre sullo stesso nucleo di persone ma ciò era
semplicemente impossibile dal punto di vista economico: il teatro
(così come tante altre professioni socialmente rilevanti) è sempre
più svalutato nel contesto serbo. Alcuni dei membri fondatori sono
rimasti, altri più giovani si sono inseriti nel corso degli anni e
altri ancora magari collaborano solo occasionalmente.


The
shivering of the rose

(Una Škandro)


Come
conciliate le istanze sociali del vostro teatro con la ricerca
estetica? Sono elementi che devono restare in equilibrio o ne esiste
uno preponderante da cui parte la costruzione della
performance?

Penso
che ciò che viene per primo è la scelta di consacrare la propria
vita al teatro. Per quanto mi riguarda il teatro non è la mia
professione, non è qualcosa che faccio ma rappresenta il modo in cui
vivo e il modo attraverso cui esperisco la realtà. Fin dall’inizio
del Dah Theatre io e gli altri membri condividevamo il bisogno di
mettere in pratica un tipo di teatro che potesse essere allo stesso
tempo un modo di vivere insieme, cui dedicarsi in maniera totale.
In
tale dimensione risiede forse anche la contraddizione profonda alla
base dell’attività teatrale: si consacra la propria esistenza a
qualcosa di completamente transitorio, che è presente solo nel
momento in cui accade. L’arte è sempre “già passata”, questo è
qualcosa che credo sia importante tenere a mente quando si vuole fare
teatro. Pertanto, almeno relativamente al mio approccio, l’estetica
deriva direttamente dall’etica e le due non si oppongono ma si
evolvono insieme: la componente formale di una performance
costituisce in realtà la risposta alla domanda morale di partenza:
“perché decidiamo di fare qualcosa”? Cercare di essere un
artista significa lavorare con e attraverso la complessità, operare
in una dimensione fondata sulla contraddizione dove ogni elemento è
connesso: il bello e il brutto, il tragico e il comico… A un
livello successivo entrano in gioco ovviamente i gusti individuali e
le poetiche di ciascun autore, che vengono influenzati dal contesto e
dalle circostanze in cui ci si muove. Nel nostro caso, come ho detto,
ci siamo quasi sempre confrontati con temi sociali e politici e il
più delle volte lo abbiamo fatto utilizzando la ‘bellezza’ (magari
anche altisonante e poetica come in The
shivering of the rose
):
siamo talmente circondati da un grado così alto di “brutture”
che spesso il gesto più spontaneo per un artista è quello di
provare a opporsi frontalmente a esse. 


In/Visible
city


La maggior parte
delle vostre performance si svolge all’aperto, in luoghi pubblici e
spazi non convenzionali. Questo cosa comporta per l’attore? Deve
restare permeabile agli stimoli “esterni”? C’è un allenamento
specifico per tale tipo di recitazione?


Certamente
direi che recitare in luoghi non convenzionali e in situazioni
potenzialmente “a rischio” rappresenta un ottimo esercizio per
gli attori. Oramai abbiamo accumulato una vasta esperienza con questo
tipo di esibizioni: è successo recentemente che durante la
performance
In/Visible
city

(che si svolge su una normale linea di autobus urbani) due persone
salissero e incominciassero a rivolgersi in maniera molto aggressiva
contro gli attori, urlando e agitandosi. Nessuno degli attori si è
fermato o ha risposto ma tutti hanno continuato a recitare come
prima, restando concentrati su ciò che stavano eseguendo. I due
avventori sono scesi alla fermata successiva senza turbare lo
spettacolo in maniera sostanziale. Ecco, fin dalla nostra prima
esibizione del 1992 abbiamo imparato che l’abilità e il talento di
un performer rappresentano per lui uno “scudo” potentissimo, che
in un certo senso lo isola e lo protegge da tutto ciò che sta
attorno. Dunque, una regola fondamentale è quella di restare nella
maniera assoluta dentro la propria dimensione attoriale, nel momento
in cui esci da essa e ti metti sullo stesso piano del pubblico per
rispondere, sei perso.
È chiaro però che questo è solo un
aspetto dell’esibirsi in contesti non teatrali. Di solito, l’attore
dovrebbe mantenere un piede dentro e uno fuori dal suo ruolo
propriamente detto: occorre essere coscienti di ciò che avviene
attorno a sé ed essere sempre pronti a modificare la propria parte
nel caso risulti spontaneo e naturale farlo. L’importante è appunto
rimanere in una dimensione teatrale e “altra” rispetto al
contesto in cui si opera. É solo presentandosi come qualcosa di
estraneo e, in un certo senso, “magico” che è possibile fare
veramente breccia nella comunità.

 

Siete
attivi da 25 anni e siete molto conosciuti al di fuori della Serbia
ma non ricevete alcun finanziamento statale e la vostra sede è a
rischio. Come valutate la situazione teatrale del vostro paese?

 
Dal
punto di vista artistico, la scena serba è molto variegata,
soprattutto nel campo delle arti visuali: sono attivi artisti con
formazioni e percorsi differenti e la rete delle esperienze
“alternative” è piuttosto forte. Aggiungerei che ci troviamo in
un periodo di transizione: le compagnie statali che hanno ricevuto
ingenti fondi statali per decenni si trovano ora a dover rivedere la
loro gestione, perché la situazione economica sta cambiando il
sistema teatrale. I teatri statali si stanno mantenendo grazie a dei
sussidi ma continuano a ridurre sempre di più i propri organici: il
vecchio sistema sta finendo.
Tuttavia, sono portata a pensare che
il discorso ricorrente per cui non ci sarebbero soldi per la cultura
sia parzialmente falso. Paradossalmente, il governo non investe nel
teatro non tanto perché lo tiene in scarsa considerazione quanto
perché ne capisce perfettamente l’importanza e conosce i potenziali
effetti dirompenti che può avere a livello sociale. Il teatro non
viene svalutato, semplicemente è troppo importante per ricevere
attenzione da parte dell’economia.






FONTE: Altre Velocità