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Guerre in Siria, Iraq e Palestina: ecco perché la religione non c’entra

di fanpage, 05 Maggio, 2016.

Dalla Siria all’Iraq,
dall’Afghanistan alla Palestina, passando per il Libano e i tumulti
sull’altra sponda del Mediterraneo: il discorso confessionale ha
oscurato le cause socio-economiche dei movimenti di protesta fornendo
ai regimi autoritari il pretesto per presentarsi come garanti
dell’unità nazionale.



Dall’inizio
dei movimenti di contestazione nel mondo arabo, che hanno rovesciato
regimi pluridecennali in apparenza incrollabili e rimesso in
discussione gli equilibri di potere nella regione, nei principali
media e nei circoli degli esperti di politica estera si è affermata
la tendenza a spiegare le cause delle proteste attraverso le lenti
del confessionalismo, per cui i fattori che determinano la vita
politica nel mondo arabo-musulmano sarebbero le tradizioni religiose
nella loro irriducibile differenza. 

Il discorso confessionale
ha
oscurato le cause socio-economiche dei movimenti di protesta,
mascherando le

ambizioni
regionali delle potenze straniere e fornendo ai regimi autoritari il
pretesto per presentarsi come garanti dell’unità nazionale.

Questa griglia di lettura della realtà
ha radici profonde che vanno oltre il mondo arabo, ed è stata
alimentata da una teoria molto influente delle relazioni
internazionali inaugurata dal politologo americano Samuel Huntington,
che ha avanzato la tesi dello “scontro di civiltà”, spiegando
come alla base dei conflitti post-Guerra Fredda ci siano in primo
luogo le differenze culturali e religiose tra i vari popoli. Questa
visione semplicistica e fondamentalista degli eventi storici, per cui
i gruppi sociali vengono definiti in base alle appartenenze etniche,
religiose o comunitarie, non solo ignora la molteplicità dei fattori
alla base dei conflitti contemporanei, ma anche l’uso politico che
abili “manipolatori del confessionalismo” fanno di queste
differenze per difendere i propri interessi.
 


La grande narrazione
confessionale



Dopo gli attentati dell’11 settembre
2001, la guerra globale al “terrorismo islamico” – inaugurata
dagli Stati Uniti con l’invasione dell’Afghanistan
e dell’Iraq – è diventata la copertura usata dalle classi
dirigenti di vari regimi per eliminare gruppi insorgenti, movimenti
separatisti o di liberazione. All’indomani degli attentati,
l’allora primo ministro israeliano Ariel Sharon paragonò il leader
di al-Qaeda Osama Bin Laden al presidente palestinese Yasser Arafat,
presentando l’invasione militare della Cisgiordania durante la
Seconda Intifada come necessaria per “smantellare le infrastrutture
del terrorismo”. 

Lo stesso discorso viene ora riproposto, questa
volta nei confronti del partito politico palestinese Hamas, prima di
ogni operazione militare nella Striscia
di Gaza

Il nuovo clima politico post-11 settembre permise anche
al presidente russo Vladimir Putin di ridefinire la seconda guerra
cecena come guerra contro il terrorismo, giustificando agli occhi
della comunità internazionale la brutale repressione della
guerriglia cecena.



Recentemente, il primo ministro
Benyamin Netanyahu non ha esitato a strumentalizzare l’ondata di
razzismo e islamofobia seguita agli attentati di Parigi, equiparando
il “terrorismo dell’ISIS” al “terrorismo palestinese” nel
tentativo di convincere i dirigenti e l’opinione pubblica europea
che la lotta di liberazione palestinese è mossa dallo stesso odio
anti-ebraico e anti-occidentale che viene generalmente attribuito al
salafismo jihadista.
 


I manipolatori delle identità
confessionali



Lungi dall’essere entità omogenee
con caratteristiche immutabili, le identità confessionali ed etniche
sono costruzioni sociali, vale a dire il prodotto storico di
conflitti tra vari gruppi sociali che hanno utilizzato le diversità
tra le varie componenti sociali nella lotta per il controllo di
risorse materiali. Le appartenenze confessionali nei conflitti sono
state strumentalizzate politicamente in primis dai manipolatori delle
identità, come le classi dirigenti o i gruppi in competizione per la
costruzione del consenso o per il controllo delle risorse. 

Questi
principali attori manipolatori sono a loro volta il prodotto di una
complessa relazione con la costruzione della loro stessa identità e
garanzia di potere politico. 

Pertanto, il discorso confessionale è
pienamente impiegato nei rapporti di potere ed è spesso elaborato
come razionalizzazione d’interessi politici e strutture di
dominio.
 


La strategia coloniale del
divide et impera



Il confessionalismo è servito a
legittimare la spartizione coloniale europea del Medio Oriente in
seguito alla prima guerra mondiale. Presentare i conflitti nel mondo
arabo-musulmano come il risultato dell’eterna lotta tra sunniti e
sciiti, dispensa l’occidente dalle sue responsabilità storiche di
protettore o rivale di questo o quel gruppo religioso o etnico. 

Difatti, la Francia e la Gran Bretagna hanno cinicamente sfruttato
queste diversità per assicurarsi il controllo geopolitico delle
risorse energetiche e la sicurezza domestica nella regione,
ridisegnando arbitrariamente i confini, creando entità statali
artificiali e ostacolando l’emergere di movimenti e partiti
multiconfessionali e transnazionali (come quello comunista e
panarabista baathista, o nasserista) che ponevano al centro delle
loro rivendicazioni l’emancipazione politica ed economica piuttosto
che le appartenenze comunitarie, religiose o etniche.



In altri casi, le potenze straniere
hanno affidato alle “minoranze confessionali” le leve di un
potere parziale rendendolo solo complementare agli interessi esteri. 

Ad esempio, in seguito alle lotte che i drusi del Monte Libano sotto
l’egida britannica conducevano nel XIX secolo contro la componente
cristiano-maronita – supportata dalla Francia – il
confessionalismo fu istituzionalizzato nel sistema politico (1920)
con la creazione dello stato libanese su base elitaria
cristiano-maronita, contribuendo a innescare tensioni che hanno dato
origine a decenni di guerra civile. 

In Palestina, la Gran Bretagna
s’impegnò con la Dichiarazione di Balfour (1917) a sostenere il
progetto sionista di creare uno Stato ebraico, favorendo
l’immigrazione di coloni ebrei europei. 

In Siria, le truppe
coloniali francesi arruolarono le minoranze, tra cui gli alawiti, per
sedare la rivolta nazionalista araba. La setta alawita venne poi
dichiarata ramo della corrente sciita negli anni Settanta a seguito
di un avvicinamento politico tra il presidente siriano alawita Hafez
al-Asad e l’Imam sciita Musa as-Sadr. 

A seguito dell’attuale
conflitto siriano e l’escalation della violenza attuale, è
significativo che un’élite di esponenti intellettuali della
comunità alawita abbia dichiarato un distanziamento dal regime di
Asad e quindi la propria indipendenza confessional-clericale dalla
corrente sciita dell’Iran e del Hezbollah libanese, strenui
difensori del regime siriano.
 


Il confessionalismo e
l’autoritarismo delle élite arabe



L’utilizzo delle identità religiose
o etniche a fini politici costituisce tuttora un capitolo importante
nella strategia del divide et impera messa in atto da diversi attori
politici, così come lo era al tempo della dominazione coloniale
europea.


L’intervento USA in Iraq nel 2003,
finalizzato all’instaurazione di un governo sciita per rispecchiare
l’appartenenza confessionale di gran parte della popolazione, come
anche la lotta per l’egemonia regionale tra Iran e Arabia Saudita,
hanno rafforzato la retorica delle identità comunitarie, fomentando
in particolare lo scontro binario tra sunniti e sciiti. 

I movimenti
di contestazione popolare nel mondo arabo, incentrati su
rivendicazioni di democratizzazione dei sistemi politici e di
giustizia sociale, sono stati anch’essi deragliati sui binari del
confessionalismo – se non dall’interferenza straniera – da
regimi autoritari, élite al potere, o quei gruppi che vogliono
ritagliarsi una fetta di legittimità, ergendosi a difensori di
questa o quella comunità.



L’uso politico della religione ha
inoltre permesso ai regimi autoritari di contrastare la creazione di
fronti unitari, agitando lo spettro di una sanguinosa guerra civile e
infondendo dunque un ampio desiderio di stabilità da raggiungere a
qualsiasi costo. 

In Siria, la trasformazione della rivolta popolare
in guerra civile a sfondo confessionale ha permesso al regime di
Bashar al-Asad di giustificare la repressione militare dei
manifestanti, descritti come terroristi tout court, così come alle
potenze regionali come Iran da un lato, e vari Paesi del Golfo arabo
dall’altro, di intervenire nel conflitto. 

A loro volta, le milizie
sciite o sunnite si sono spesso presentate come difensori ufficiali
delle rispettive comunità religiose. Formazioni jihadiste come il
Fronte an-Nusra e lo “Stato Islamico” hanno proclamato di voler
riscattare la comunità sunnita oppressa dal “regime eretico
alawita” e dai suoi alleati sciiti.



Intimorite dinanzi alla prospettiva di
un sollevamento popolare, anche le monarchie del Golfo hanno
riproposto la tesi della lotta religiosa tra sunniti e sciiti per
impedire il diffondersi di movimenti di contestazione interni. 

L’Arabia Saudita, ad esempio, ha potuto giustificare l’intervento
militare in Bahrein presentando il movimento di protesta locale come
una rivolta sciita orchestrata dall’Iran. 

Il governo del Bahrein, a
sua volta, ha strumentalizzato le proprie politiche migratorie
accogliendo solo rifugiati siriani sunniti – seppur in numero
esiguo – pur di contrastare i sollevamenti popolari interni a
maggioranza sciita. 

Il paradigma confessionale è stato utilizzato
anche per liquidare le forze del cambiamento rivoluzionario e quindi
restaurare quelle del vecchio regime. Il colpo di stato del generale
Abdel Fattah as-Sisi nel luglio 2013 è stato presentato come
necessario per impedire l’islamizzazione forzata dell’Egitto ad
opera dei Fratelli Musulmani e i loro tentativi di provocare una
guerra civile.
 


Dal discorso confessionale ai
flussi migratori in Europa



All’interno di confini più
simbolici che territoriali, le diverse componenti sociali han sentito
il bisogno di definirsi come diverse l’una dall’altra e di
reclamare diritti o adempiere ai doveri civili definendosi in termini
identitari, piuttosto che come parte costituente di uno stato sociale
che garantisce diritti e servizi di prima necessità.


Ma in che modo il discorso
confessionale dello scontro di civiltà tocca le sponde europee? 

In
nome della sicurezza contro la minaccia globale del terrorismo
islamico, una serie di legislazioni anti-terrorismo limitano le
libertà civili e i diritti fondamentali della persona. 

Anche negli
stati che si definiscono democratici, lo “stato di diritto”
lascia progressivamente il posto allo “stato d’emergenza”. Il
discorso confessionale serve anche per giustificare la gestione
militare e securitaria dei fenomeni migratori. 

Nella propaganda
islamofobica e xenofoba, ormai non più appannaggio esclusivo
dell’estrema destra, le categorie dei migranti e dei richiedenti
asilo vengono sempre più associate al pericolo dell’invasione
islamica, che metterebbe in discussione la purezza dei valori
cristiani e occidentali, e alla minaccia del terrorismo jihadista. 

L’equazione clandestino-musulmano-terrorista diventa sempre più
accettabile agli occhi dell’opinione pubblica europea.


L’uso di identità confessionali ed
etniche per spiegare eventi storici, politici, e addirittura
psicologici, è di per sé un atto fondamentalista. In questo senso,
le violenze di oggi su scala globale e la convinzione che i flussi
migratori siano un qualcosa da accogliere o rifiutare, fanno parte di
una lotta all’affermazione di valori e principi propri che si
vogliono sancire come universali.



Mentre il profugo o il migrante sono
concepiti come elementi in eterna lotta, gli aiuti umanitari sono
standardizzati, spesso tradendo la diversità dei bisogni dei
beneficiari. 

La sofferenza dell’Altro, come la sua minacciosa
violenza, sono rese omogenee e indivisibili. Quando episodi di
violenza spezzano la normalità su cui son disegnate le nostre vite
quotidiane, e quando tali episodi sono relazionabili a fenomeni
transnazionali generati o facilitati da migrazioni o rivendicazioni
di stampo confessionale – prevalentemente islamico – i
clandestini che sbarcano, denigrati esclusivamente secondo la loro
matrice identitaria confessionale, vengono meccanicamente associati
al fallimento delle politiche europee e alle reti islamiche
estremiste transnazionali.



In altre parole, la paura delle
società occidentali di tradursi in spazi a rischio imprevedibile –
cosa che finora ha prevalentemente turbato le vite umane nel “Sud
globale” – è arginata tramite avanzate tecnologie di sicurezza e
sorveglianza, nonché prontamente consolata da mezzi informativi e di
assistenza sociale che tendono a mantenere i confini identitari del
“diverso”: l’assimilazione o il riconoscimento
dell’eterogeneità di quest’ultimo diluirebbero troppo la sua
presenza all’interno delle società di arrivo.



Il “diverso”, da una parte, è in
lotta col proprio simile nel Sud globale, in quanto parte di un
mosaico identitario che va “sanato” da principi e diritti
universali, propugnati dal nostro lato del Mediterraneo. Il “diverso”
diventa invece uniformabile ai suoi simili quando il Sud globale si
sposta verso il Nord globale, ponendo quest’ultimo al cospetto di
nuove rivendicazioni. Mentre ci proponiamo di curare e arginare
l’emergenza negli stati mediorientali attraverso agenzie umanitarie
in loco, l’insicurezza imprevedibile alla quale siamo di fronte ora
– la stessa che pone sullo stesso piano gli immaginari “Nord” e
“Sud” – finisce per rafforzare questi totalitarismi identitari:
i veri mali del nostro tempo.