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Elemosina e mendicanza: un’altra visione della questione dei talibé in Senegal

di Papa Oumar Ndiaye, Sociologia, università di Poitiers, laboratorio GRESCO (Gruppo di Ricerca Sociologica sulla Società Contemporanea). E-mail: oumarndiaye10@hotmail.com

Papa Oumar Ndiaye, « Aumône et mendicité : un autre regard sur la question des talibé au Sénégal », Cahiers de la recherche sur l’éducation et les savoirs, 14 | 2015, 295-310.

Traduzione italiana: Milena Rampoldi, ProMosaik.

Abstract
Il continuo insuccesso delle politiche governative senegalesi volte alla lotta contro l’accattonaggio compiuto da bambini talibé
porta a domandarsi perché, nonostante gli sforzi fatti dal governo in
concerto con la società civile e le agenzie internazionali, la
situazione non appaia in miglioramento. Questo lavoro tenta di dare
delle risposte avanzando delle ipotesi che forniscono le vere chiavi per
la comprensione di tale fenomeno. A partire da uno studio realizzato in
una zona periferica di Dakar, viene mostrato come l’accattonaggio dei talibé
compia in realtà una vera funzione sociale, permettendo ai donatori di
liberarsi dal dovere di elemosina, fatto non da poco dato che la vita
cittadina concede meno tempo per questo rito musulmano. Tale
osservazione apporta un importante tassello di conoscenza nell’attuale
dibattito riguardo la questione dei talibé, il quale rimane
orientato verso un approccio strettamente giuridico, volto alla
protezione dei bambini, e che limita la sua analisi ai soli soggetti
coinvolti – genitori, maestri coranici e bambini – senza tener conto
della popolazione e del contesto del “mercato” dell’elemosina.

 «È necessaria molta ingenuità o malafede per pensare che gli uomini
scelgano le loro credenze a prescindere dalla loro condizione.» (Claude
Lévi-Strauss, 1955: 169)
I talibé sono degli alunni volti all’apprendimento dell’arabo e del Corano sotto la tutela di un maestro, chiamato seriñ daara in lingua wolof, la più parlata in Senegal. Costui si fa carico della loro formazione ed educazione, all’interno di una daara[1]. Daara è un termine arabo che indica una casa o una scuola in cui ha luogo la formazione del talibé. Nella maggior parte dei casi, è la casa del seriñ daara, di sua proprietà oppure prestatagli. Bisogna precisare come queste daara
esistano nell’Africa Nera ben da prima della colonizzazione occidentale
e continuino a essere tuttora presenti in Senegal. Sono attualmente
diffuse in ogni zona del Paese, in particolare nella capitale[2].
Nella maggior parte dei casi, il seriñ daara non dispone delle risorse finanziarie sufficienti a soddisfare tutti i bisogni cosiddetti elementari dei talibé. In aggiunta, il loro numero spesso è superiore alla capacità d’accoglienza dei daara: possono arrivare ad esserci un centinaio di allievi, a volte anche di più. Si consideri pure che l’adesione a un daara
si faceva e tuttora si effettua senza alcun legale controllo da parte
dello Stato. Sono i genitori che, volontariamente, scelgono se inviare o
meno i propri figli a queste scuole.
I talibé consacrano una parte del loro tempo ad attività
diverse dall’apprendimento. Una delle più importanti rimane
l’accattonaggio. Oltre a possedere una funzione religiosa (insegnare
l’umiltà, cfr.), questo apporta delle entrate che permettono un autofinanziamento della daara (ENDA, 2005: 20). Questi talibé
costituiscono la stragrande maggioranza dei bambini che si dedicano
alla mendicanza nella regione di Dakar; il 90% secondo un rapporto
dell’Unicef (2007: 35-37) che stimava il loro totale in 7600 unità. In
generale, sono bambini molto giovani: la loro età media, all’epoca
dell’indagine, si situava intorno agli 11 anni; il più piccolo ne aveva
2, mentre circa la metà di loro era sotto i 10 anni.
Attualmente, in Senegal le daara sono sempre più oggetto di polemiche. La principale accusa è quella di non rispettare i diritti del bambino talibé.
Anche i metodi di insegnamento restano in effetti particolari,
basandosi spesso sulla violenza, fisica o quantomeno simbolica. Nelle
periferie di Dakar, per esempio, il talibé offre l’immagine di
quel giovane che vaga notte e giorno per le strade, vestito di stracci e
spesso anche a piedi nudi, con un barattolo di latta in mano come
recipiente per l’elemosina. Nella capitale fanno, per così dire, parte
dello scenario. Si possono trovare soprattutto nei luoghi più
frequentati, come piazze, mercati, fermate dell’autobus, incroci con
semaforo, ecc. Non si può proprio fare a meno di incontrarli, situazione
che ha favorito il crearsi di sentimenti ampiamente condivisi riguardo
alla loro condizione. Questi, nella maggior parte dei casi, si
riassumono in un senso di compassione nei confronti dei talibé, ma allo stesso tempo in una condanna, sia del seriñ daara che dei genitori di questi bambini, che sembrano negare loro i diritti fondamentali.
Si potrebbe parallelamente pensare che non esista la volontà politica
statale per far fronte a questo caso particolare. In realtà si potrà
vedere come, dopo la colonizzazione francese e finora, siano stati messi
in moto dei meccanismi di revisione e controllo, ossia di recupero
delle daara. Queste mosse politiche, tuttavia, hanno avuto poco o
nessun effetto. Conviene quindi domandarsi per quale motivo, nonostante
gli sforzi compiuti dal governo e sostenuti dalla società civile e
dalle agenzie internazionali, la situazione non sembra migliorare. Le
politiche statali erano adeguate? Qual è il ruolo, magari anche
implicito, della popolazione senegalese nel mantenimento di tale
situazione di accattonaggio?
Si risponderà a queste domande in due tappe: prima di tutto, si presenterà il contesto della mendicità dei talibé a Dakar. Questa parte tratta dei processi di insediamento delle daara
in Senegal, spesso fonte di conflitto con il potere politico. La
seconda parte tenterà di mostrare come le popolazioni locali siano
implicate nel mantenimento dello status quo e, in ultima analisi, un
commento relativo al fallimento delle politiche governative.
L’insieme dei colloqui e delle osservazioni etnografiche ha avuto
luogo nella periferia di Dakar, precisamente nel distretto di Mbao
(comune di Pikine, Regione di Dakar). Questo quartiere è storicamente un
tradizionale villaggio di pescatori di etnia lebou. Secondo stime
ufficiali del 2005, vi abitano 35000 persone, in 20 km². Si è utilizzato
come terreno di indagine il quartiere di Keur Mbaye Fall. Questa è una
delle zone del distretto a maggiore crescita demografica. Ho visitato
per la prima volta questa località nel 2008. Al tempo c’era solamente
una daara, mentre oggi ne esistono sei ufficiali. Le osservazioni
sono state condotte per la strada, dove i giovani mendicano, o anche
all’interno delle stesse daara. Le persone intervistate sono tutte in relazione diretta con le due principali daara della zona. Si tratta di vari talibé, di due seriñ daara e dei maggu daara che li assistono. Sono avvenuti degli incontri anche con dei vecchi talibé
diventati poi commercianti nel grande mercato di Keur Mbaye Fall, tutti
di età compresa fra i 20 e i 30 anni. In seguito, altre personalità: il
primo imam della grande moschea, due sociologi che lavorano al servizio
di prima infanzia della “Case de Tout-Petits” in Senegal e qualche
abitante locale.
La daara, una scuola particolare in Senegal
In Senegal convivono due concezioni molto differenti riguardo allo
sviluppo umano e al ruolo della scuola. L’istituzione scolastica, vale a
dire la scuola diretta tramite organi statali, fra le forme di
educazione è la più recente. Nell’Africa Occidentale ha fatto la propria
apparizione solamente con il colonialismo[3].
L’autore F. Flis Zonabend (1968) ha mostrato come all’epoca in Senegal
la scuola fosse diventata il principale fattore di una differenziazione
sociale fra due fette di popolazione. Al contrario, da ben prima della
colonizzazione, erano le daara a ricoprire il ruolo sociale
proprio della scuola. Il loro avvento è legato all’arrivo dei musulmani
in Senegal attraverso le migrazioni di quei popoli arabi che, fra il 640
e il 1840, furono la sola potenza straniera presente in Africa
(Monteil, 1986:57). Da allora cominciarono a costituirsi le prime daara.
Queste vengono definite come «una struttura in cui l’educazione
islamica viene trasmessa fra le generazioni, grazie agli sforzi
congiunti di un maestro, degli alunni e dei genitori» (Mbacké, 1994: 7).
Tuttavia, malgrado questi «sforzi congiunti», le condizioni di
apprendimento di questi giovani talibé non sono per nulla di
quiete. A Keur Mbaye Fall, per esempio, si svegliano sempre molto
presto, prima della preghiera del mattino[4],
per seguire delle prime lezioni che terminano quindi con la preghiera.
Ciò che qui viene chiamato “lezione” corrisponde alla recitazione a
memoria di parti del Corano, la cui finalità è la memorizzazione. Subito
dopo escono in gruppo per andare a mendicare la loro colazione, fino a
circa le nove del mattino, quando ritornano alla daara per le lezioni seguenti. Le ore dedicate a procacciarsi il proprio pasto sono per i talibé i soli momenti di rilassamento. È quanto mi disse un seriñ daara in una delle nostre discussioni, ossia che «in realtà per un talibé niente
risulta più difficile che [vedersi] impedire di mendicare, poiché è il
suo momento di libertà». Quest’ultima frase è sintomatica delle loro
difficili condizioni di apprendimento, se pensiamo al fatto che questo
«momento di libertà» consiste nel dover tendere la mano, sopportare
l’indifferenza e vedere il disprezzo dei donatori.
In tali scuole coraniche, il maestro non dispone delle attrezzature
che siamo abituati a vedere nelle scuole cosiddette moderne. Ogni
allievo ha un aloubé, vale a dire un supporto di legno di circa
50 cm, di forma rettangolare oppure ovale, sul quale il maestro scrive
dei versetti coranici. Questo sistema di insegnamento religioso
caratteristico in Senegal corrisponde a ciò che Abdoulaye Bara Diop ha
denominato «islam wolof» (1981: 213), fortemente influenzato dalla
tradizione. Questo viene realizzato tramite dei modelli pedagogici
diversi, alcuni dei quali risultano fortemente criticati poiché si
basano su delle violenze simboliche e fisiche.
Tale insegnamento possiede una dimensione religiosa essenziale,
secondo l’analisi di Jean-Émile Charlier (2002): attraverso anni di
ascetismo, il bambino acquisisce la conoscenza religiosa che lo aiuterà a
condurre una vita giusta e retta, la quale gli varrà una ricompensa
eterna. In questo caso, la prova iniziale è condizione indispensabile
per accedere a degli stati desiderabili di grandezza. Convinte da tali
argomenti, allo stesso tempo religiosi e pragmatici, ci sono famiglie
che preferiscono le daara all’insegnamento ufficiale, pur
conoscendo la condizione in cui si andranno a trovare i bambini. Così,
«gli obiettivi della scuola coranica restano inalterabili: non prepara a
un mestiere o a un ruolo, ma solamente a essere un credente, un uomo
perfetto, tramite tutte le tecniche di inculcamento che riguardano il
dominio del corpo e dello spirito» (Gandolfi, 2003: 267). Nel contesto
senegalese, quindi, queste scuole non portano per forza a conseguire un
diploma o altri titoli scolastici, ma piuttosto ad altri meriti
socialmente definiti, come l’interiorizzazione di certi codici di
condotta in una società che dà ancora importanza a valori umani come la
cortesia, la perseveranza, la pazienza o la solidarietà: la capacità di
vivere in comunità.
Possiamo anche notare che esistono altre interpretazioni di questa
mendicità, che la vedono come nient’altro che un mezzo di sfruttamento
dei bambini, un accattonaggio forzato accompagnato da altre forme di
maltrattamento. Così, un rapporto di Human Rights Watch (2010: 2)
dichiara che «almeno 50000 bambini frequentanti i collegi coranici (daara)
in Senegal sopportano condizioni che si avvicinano alla schiavitù. I
loro professori (marabout), che svolgono la funzione di tutori de facto,
li sottopongono a delle forme spesso estreme di maltrattamento,
negligenza e sfruttamento». Tuttavia, d’altra parte, paradossalmente
queste scuole mantengono una particolarità che fa loro meritare una
certa adesione da parte della popolazione: infatti, c’è che «oggigiorno
l’insegnamento coranico resta la sola opportunità di formazione e di
alfabetizzazione per molti individui» (Gandolfi, ibid.: 271). Questo
perché, come indica l’autore citato in precedenza, tale educazione non
risulta proibitiva in quanto a condizioni di accesso o selettività, il
che costituisce un importante vantaggio rispetto all’insegnamento
ufficiale.
La daara, un contrasto alla scuola ufficiale?
Con il dominio coloniale francese, in Senegal si impose un altro
concetto di scuola: la scuola statale, dove lo Stato detiene il
monopolio dei programmi e dell’orientamento dell’insegnamento. Questa
forma di scuola ha però dovuto convivere con l’antico sistema educativo,
in cui lo Stato non aveva voce in capitolo in merito alle modalità di
funzionamento, né riguardo ai contenuti o al loro orientamento. Tale
coesistenza sta all’origine degli storici contrasti tra questi due
sistemi educativi: attraverso politiche governative, la scuola di Stato
ha sempre tentato di soppiantare quella forma più antica di
scolarizzazione costituita dalle daara. «Queste scuole non
ufficiali, “informali” o “parallele”, si sono sviluppate sotto forme e
livelli molto variegati, che vanno dalle semplici scuole coraniche fino
alle ben più sofisticate “scuole franco-arabe”. Considerandoli
concorrenti del sistema ufficiale, durante i primi trent’anni
d’indipendenza i governi hanno cercato di confinare, controllare o alle
volte anche ignorare questi istituti educativi alternativi» (Villalón
& Bodian, 2012: 1).
Questa ancor attuale convivenza tra sistemi scolastici, nel corso
della loro storia comune si è tradotta in una serie di conflitti e
crisi. Il rapporto di Human Rights Watch (2010) torna agli albori di
tali contrasti. I primi si possono riscontrare con l’instaurazione della
potenza coloniale nel Paese, per poi continuare durante tutto il
periodo dell’occupazione. Malgrado i tentativi di recupero, controllo o
soppressione delle daara condotti dall’amministrazione francese,
il loro modello tradizionale è rimasto invariato. Alla fine del XIX
secolo, l’amministrazione aveva tentato di limitarne il numero e di
liberarsi dei marabout ostili alla dominazione. Per poter operare, si
rese necessaria un’autorizzazione e venne imposto che i talibé
imparassero anche il francese. In seguito, all’inizio del XX secolo,
l’atteggiamento cambiò. La nuova strategia consisteva, prima di tutto,
nel proporre alle daara delle specie di sovvenzioni affinché
impartissero lezioni di francese. Poi, ha portato alla creazione di
madrase dirette dalle autorità coloniali, al fine di formare dei
marabout “ufficiali”. Tuttavia, tale tentativo si rivelò un fallimento e
nel 1945 l’amministrazione francese vi rinunciò, promulgando un
«decreto (che) sanciva che le scuole coraniche non dovevano più essere
considerate delle istituzioni educative e che in nessun caso potevano
quindi ricevere dei sussidi» (Human Rights Watch, 2010: 23-24). Questa
rivalità tra i due sistemi si è mantenuta anche con l’indipendenza,
sotto diverse forme. A seconda della situazione, si è intensificata,
malgrado i meccanismi di conciliazione spesso adottati.
A partire dal 1970, ad esempio, come ci riporta Sophie D’Aoust
(2012), sono state elogiate in particolare due fra le maggiori politiche
di lotta alla mendicità dei talibé. Prima di tutto, la creazione
di madrase, istituzioni musulmane private, finanziate da alcuni Paesi
arabi e dotate di materiale didattico moderno. «In generale, queste
scuole sono state fondate da insegnanti riformisti insoddisfatti
dell’educazione offerta dalle scuole coraniche, le quali distorcono i
testi sacri» (D’Aoust, 2012: 50). In seguito, ci fu la creazione dei
fondi di aiuto all’infanzia svantaggiata e alle opere non convenzionali.
«Ciò permise la concessione di un aiuto stimato in 92174000 di franchi
CFA (€ 140500 circa) a 1386 scuole coraniche fra il 1983 e il 1988.
Durante gli anni ’90, il governo senegalese collaborò con l’Unicef al
lancio di un progetto di riabilitazione dei diritti dei talibé,
il cui obiettivo generale era quello di contribuire alla lotta contro la
mendicanza, migliorando allo stesso tempo le loro condizioni di vita e
di educazione. Questo progetto puntava a raggiungere 30000 talibé
durante la sua prima fase (1992-1996) e 50000 durante la seconda
(1997-2001). I maestri coranici individuati ricevevano cibo e
medicamenti, insieme a una formazione in tema di salute e malnutrizione.
Nel 1997 il progetto non venne tuttavia rinnovato, proprio mentre il
fenomeno in questione godeva di un’attenzione crescente. Secondo Perry,
si trattò di una decisione strategica dell’Unicef, che aveva inteso la
reticenza del governo a intervenire, a causa dell’opposizione di
influenti marabout» (ibid. : 71).
Più di recente, il 24 agosto del 2010, durante un consiglio dei
ministri, il Primo ministro Souleymane Ndéné Ndiaye annunciò la
decisione del governo di Abdoulaye Wade di lottare efficacemente contro
la mendicità nelle strade di Dakar. All’epoca, i tribunali senegalesi
avevano decretato l’arresto di alcuni seriñ daara che avevano lasciato mendicare i loro talibé.
La volontà politica del governo aveva generato numerose manifestazioni
da parte dei musulmani senegalesi. Bisogna ricordare come il 90% della
popolazione del Senegal sia di fede musulmana. Tutti questi clamori
hanno quindi condotto al precipitoso abbandono di tale politica. Così,
l’8 ottobre (vale a dire meno di due mesi dopo la dichiarazione del
ministro), un altro comunicato del consiglio dei ministri dichiarava che
il presidente Wade si trovava in disaccordo con il proprio governo,
affermando che «l’elemosina è una pratica raccomandata dalla religione».
Tale dichiarazione non ha avuto luogo se non in seguito alle varie
manifestazioni popolari contro la nuova politica. È quindi lecito
domandarsi se le reazioni popolari non siano la prima ragione per
l’abbandono del progetto: se è vero che l’elemosina viene raccomandata,
perché tentare inizialmente di fermarla? Per di più quando anche quattro
anni prima, nel suo discorso alla nazione del 31 dicembre 2006, lo
stesso presidente aveva dichiarato:
«Mi hanno tutti supportato nella mia convinzione che la triste sorte riservata ai talibé
– vestiti di stracci, a piedi nudi, erranti senza sosta alla ricerca di
un rancio aleatorio ed esposti alle peggiori forme di sfruttamento e
delinquenza – sia una pratica non conforme né ai nostri valori
tradizionali né agli autentici “insegnamenti” religiosi. È qualcosa di
legalmente condannabile e moralmente inaccettabile.»[5]
Un altro fattore è l’incendio che ha colpito una daara nel cuore di Dakar, la sera del 3 marzo 2013[6]. A seguito di questo incendio, si è riacceso un dibattito nazionale a proposito della questione del bambino talibé.
Ai vertici dello Stato, sono state prese delle decisioni “istantanee”
proprio sul luogo del fatto. Come d’abitudine, queste si riassumevano
semplicemente nel fermare e imprigionare, anche con una multa, tutti i
marabout i cui talibé sarebbero stati trovati in strada. Il
presidente Macky Sall, durante la propria visita al luogo dell’incendio,
dichiarava: «Verranno soprattutto adottate delle misure molto forti
volte a porre fine allo sfruttamento dei bambini con il pretesto che
sono dei talibé». Ma la domanda da porsi era piuttosto se il
presidente Macky Sall e il suo governo sarebbero andati fino in fondo,
dopo il fallimento della precedente amministrazione. Di certo, sono
avvenuti degli arresti e, di nuovo, le reazioni si sono moltiplicate in
tutto il Senegal. A Touba e Diourbel, i maestri coranici dichiaravano
«che nessuna daara verrà chiusa. Lo Stato agisce secondo una logica di regolamento di conti […]. Il talibé è un piccolo mendicante e lo Stato è il grande mendicante. Lo Stato possiede un antico desiderio di liquidare le daara e l’incendio di Medina si offre a lui come un’occasione insperata[7]».
Nuovamente, in seguito a tali manifestazioni, il governo ha fatto
marcia indietro, questa volta senza spiegarne le ragioni. Gli arresti
sono cessati e la mendicità continua. Ciò che è certo è che, ancora ai
giorni nostri, la mendicanza dei talibé è più che mai presente in ogni strada di Dakar. Le daara,
malgrado la loro apparente «posizione di debolezza», hanno resistito
ancora alla volontà dei poteri politici di ottenerne il controllo.
La mendicità appariva come una questione maggiore nella maggior parte
delle dispute che hanno visto opporsi i governanti e i difensori delle daara.
Che in tali conflitti venga intesa in termini di «opportunità», secondo
una «logica di regolamento di conti» o in termini di «sfruttamento» o
di danno all’integrità fisica, morale e sociale del bambino, si
presentano comunque dei problemi riguardanti le misure d’applicazione e
delle responsabilità che dovrebbero derivare dall’esercizio delle
politiche anti-mendicità. Tale volontà istituzionale non sembra
giungere, a priori, a modificare in maniera duratura la critica ma persistente situazione di questi giovani.
Il mio proposito è quello di apportare uno sguardo critico a queste
differenti concezioni politiche o scientifiche secondo cui basterebbero
proposte di esperti o azioni politiche per sistemare il problema. Questa
revisione storica dei diversi programmi e dei loro costanti fallimenti
nel contenimento della mendicità nelle daara, mostra bene come sia necessario, da una parte, ritornare sul senso emico di tale pratica, non solamente per le daara
ma in particolare per il donatore; d’altra parte, bisognerebbe
verificare se una delle ragioni per cui queste politiche non riescono a
prendere il sopravvento sullo stato di mendicanza dei talibé non sia poiché sottostimano il coinvolgimento della popolazione senegalese. Come afferma Durkheim (1912: 3):
«Infatti, è un postulato essenziale della sociologia che
un’istituzione umana non possa fondarsi sull’errore e sulla menzogna: in
tal caso non avrebbe potuto durare. Se essa non fosse stata fondata
nella natura delle cose, avrebbe incontrato delle resistenze che non
avrebbe potuto vincere […]. Senza dubbio, quando non si considera che la
lettera delle formule, queste credenze e queste pratiche religiose
sembrano talvolta sconcertanti e si può essere tentati di attribuirle a
una sorta di totale aberrazione. Ma, sotto il simbolo, bisogna saper
cogliere la realtà che esso rappresenta e che gli dà il suo significato
autentico. I riti più barbari o più bizzarri, i miti più strani
traducono qualche bisogno umano, qualche aspetto della vita individuale o
sociale».
Un approccio alla mendicità tramite gli “abbonati” dei talibé
Con “abbonati” ci si riferisce a tutte quelle persone che sistematicamente, quotidianamente, fanno l’elemosina ai talibé. Formano una categoria che ho scoperto e descritto attraverso le mie osservazioni sul campo. Costoro ai talibé
non danno solamente del denaro, ma anche e soprattutto del cibo, degli
oggetti e del pollame. Non possiamo valutare il loro numero in termini
statistici, poiché costituiscono una popolazione non quantificabile,
dato che si caratterizzano a seconda della situazione. In altri termini,
noi non facciamo altro che definirli in rapporto al momento e alla
natura dell’elemosina che danno. Tenteremo di osservare questa categoria
di persone, analizzando tutto ciò che concerne le loro donazioni e
l’elemosina in generale.
È stato prima di tutto davanti alla via principale del quartiere di
Keur Mbaye Fall, dove passano quasi tutti gli abitanti di questa
località per raggiungere il loro luogo di lavoro, che ho riscontrato
come, ogni mattina, una madre di famiglia attendesse i talibé per dare loro dell’elemosina. Non del denaro, ma riso e zucchero. Conoscevo alcuni di questi talibé,
coi quali avevo l’abitudine di parlare. Li vedevo ogni giorno con un
recipiente per le offerte riempito di riso, di zucchero e a volte con in
mano delle candele, oppure delle bibite cola. Ho così deciso di
seguirli con discrezione durante la mattinata, da quando escono dalla
loro daara per andare a mendicare, in modo da capire da dove
venissero tutti quei prodotti. Dopo vari giorni, mi sono reso conto che
quella madre di famiglia non era la sola “abbonata” a questo servizio
dei talibé. Infatti, usciti dalla daara, questi si fermano
sistematicamente di fronte alle stesse abitazioni, alle stesse ore. Se
succede che un “abbonato” è in ritardo, i talibé (la maggior parte delle volte si dividono in coppie) si arrestano davanti alla sua porta di casa e pronunciano il loro «laa rabi laara[8]» per risolvere il problema. Succede ugualmente che il talibé
venga interpellato da altri “abbonati” lungo il proprio tragitto.
Costoro sono più difficili da riconoscere, dato che non hanno alcun
contatto duraturo. La loro interazione con il talibé avviene in
pochi istanti, giusto il tempo di dargli un sacchetto pieno di zucchero,
di pane, di candele, eccetera, per poi continuare il proprio cammino.
Quindi, anche se si incontrassero di nuovo il giorno seguente, non
riuscirebbero a riconoscersi. Così, di casa in casa, di persona in
persona, i talibé ricevono pressoché sempre le stesse cose, in
particolare riso e zucchero. Ma in tutte queste situazioni, egli offre
anche i propri servizi sotto forma di preghiere: «Che i vostri auguri
vengano esauditi, che Dio vi conti fra i pellegrini alla Mecca, che le
vostre paure vengano dissipate, ecc.» Tali scene si svolgevano quasi
tutti i giorni. Rimaneva da sapere cosa tutto ciò significasse per i
donatori.
Perché riso e zucchero, piuttosto che denaro? In realtà, il riso, lo
zucchero, ma anche latte, bibite cola, candele, ecc. racchiudono dei
significati simbolici. Questo non si può cogliere se non attraverso
l’analisi della scelta del numero o del colore degli oggetti, i quali
trasmettono tutta la loro efficacia simbolica al dono[9].
In quanto senegalesi – dopo un sogno (mal augurante o meno), quando
vogliamo conseguire qualcosa (un titolo, un esame, un impiego), in
situazioni di paura, ecc. – ci viene spesso richiesto di fare tale
genere di offerte. Sono ritenute già di per sé efficaci. Nonostante
nessuno tra coloro praticanti questa forma di dono possa spiegare
razionalmente la fonte di tale efficacia, ciò impedisce assolutamente
che rimanga una credenza fortemente diffusa. È una forma di qualità
astratta, un’efficacia simbolica che si suppone risieda in certi
oggetti, legata al loro numero (pari o dispari) e al loro colore. Cosa
che rimanda in larga misura al mana di Marcel Mauss (1922-23).
Qui, la sola particolarità rimane il colore o il numero degli oggetti.
«Non si dona solamente perché la religione prescrive l’elemosina, ma
perché è la sola maniera di evitare un male, e più questo appare
temibile, più il gesto è motivato » (Mbacké, 1994: 48).
Così, una puntuale osservazione della pratica dell’elemosina dei talibé
ci ha permesso di costatare come, nella maggior parte dei casi, abbiamo
a che fare con una “carità colorata”. I colori principali sono il rosso
(le bibite cola) e il bianco (candele, zucchero, riso, carni bianche).
In tale situazione, l’elemosina resta la «sola maniera di evitare un
male» che questi “abbonati” hanno a disposizione e funziona come una
“valvola di sicurezza” sociale di fronte alle incertezze della vita
quotidiana. Questo dono potrebbe in tal modo preservare da pene,
incidenti, sfortuna, ecc. Ciò spiega come ogni mattina, prima di
dedicarsi alle loro occupazioni, queste persone facciano tale donazione
simbolica, per loro sinonimo di protezione. I donatori rendono
certamente un servizio ai talibé, ma, in maniera reciproca, i talibé permettono loro di fare questo dono necessario. In realtà, i donatori ricorrono quotidianamente al talibé per poter fare la loro elemosina; esistono altri mendicanti a Dakar, ma il servizio dei talibé appare molto più agevole.
Infatti, malgrado ciò che si potrebbe pensare, i talibé
offrono diversi vantaggi a questa categoria di persone che chiamiamo gli
“abbonati”. Prima di tutto, la realizzazione di un atto sacro (Ndiaye,
2008), in questa circostanza l’elemosina. Se non ci fossero i talibé, costoro farebbero comunque dell’elemosina. Per loro è un atto che qui si qualificherà come necessario,
per non dire obbligatorio. Assai illustrativo è l’esempio fornitoci da
Aminata Sow Fall (2004), riguardante un funzionario che intendeva
promuovere il turismo ripulendo la città dall’elemosina: alla fine
costui, dato che aspirava a ottenere incarichi più elevati, doveva fare
l’elemosina a un mendicante. Non trovando nessuno al quale effettuare la
donazione, finisce per perdere l’impiego desiderato. Questo esempio,
per quanto possa apparire “romanzesco”, rivela il ruolo dell’elemosina
come parte integrante della società senegalese. Così, qui non si tratta
di mendicanza come l’ultimo grado della miseria, ma di una forma di
solidarietà collettiva nella quale la società accetta di farsi carico di
coloro che, in cambio, pregheranno per lei (come i monaci in Asia, che
“mendicano” il loro pasto quotidiano, secondo la stessa logica di
reciprocità). Tale dono, d’altronde, diviene molto più sostanzioso
all’avvicinarsi degli esami di allievi o studenti, periodo durante il
quale la ricompensa attesa pare caratterizzata da una maggiore
immediatezza. Così, l’apporto primario del talibé potrebbe
corrispondere a una sorta di soddisfazione di un dovere (magari
implicito), poiché risulta necessario fare dell’elemosina. In questa
prospettiva, tutti ne escono bene: il talibé riceve la sua carità e la persona “abbonata” adempie al proprio dovere, anche qualora fosse implicito.
Il vantaggio secondario è rappresentato dal fatto che il talibé
offre agli “abbonati” la possibilità di realizzare tale atto a
domicilio, oppure lungo il proprio tragitto abituale. Si presenta così
come un facilitatore in questo processo tra la società e il sacro atto
del dono. Fatto che in larga parte contribuisce al carattere non
misurabile di taluni di questi “abbonati”. Visto che è il talibé che si sposta verso di loro, l’interazione avviene in una certa sobrietà e, soprattutto, a seconda del percorso del talibé.
Conclusione
Al termine di questo studio, possiamo dedurre un aspetto che ci pare importante: la mendicanza dei talibé, per quanto possa apparire controversa, non riguarda esclusivamente questi ultimi e i seriñ daara.
Oltre a tali attori visibili, ve ne sono implicati molti altri, ma
difficili da notare. La mendicità infatti è parte integrante della
società senegalese. Ciò si può constatare in larga misura attraverso i
momenti di scambio tra i talibé e la popolazione. Non prendendo
in considerazione tale dimensione sociologica, si rischia di tralasciare
un fattore essenziale, il che naturalmente va a «generare una
situazione tale che la sistematica incomprensione riduce una
tradizionale forma d’agire a una farsa sociale» (Geertz, 1998: 6). Che
si parteggi o meno per la causa delle daara tradizionali, alcuni
aspetti di questa mendicità (come la sua persistenza o i suoi veri
eccessi) restano privi di spiegazione. Risulta dunque necessario
considerare la stretta relazione esistente tra la pratica della
mendicità in Senegal, la natura delle donazioni da parte della
popolazione e le rappresentazioni collettive nella vita sociale. Lo
Stato o gli organismi internazionali, nel voler condannare e poi
sopprimere in modo sistematico tale pratica, si imbattono sempre in dei
blocchi. Il problema pare essere dunque maggiormente complesso di quanto
sembrasse.
In questo preciso caso, mi pare che la distinzione weberiana (Weber, 1919[10])
fra un’etica di responsabilità e un’etica dei principi non venga
sufficientemente presa in considerazione in queste politiche contro la
mendicanza. «Quest’ultima giustifica i mezzi per il fine dell’azione.
Quell’altra, al contrario, si sforza di anticipare le conseguenze
prevedibili di tale azione» (Fassin, 2005: 99). A cominciare da qui, «la
posta in gioco della miseria» (Vuarin, 1990) non sarà considerata nella
stessa maniera a seconda che si adotti il punto di vista delle daara e dei seriñ daara, quello dei capi religiosi e degli “abbonati”, oppure il punto di vista dello Stato e degli organismi internazionali.
Per i due primi gruppi di attori appena citati, l’etica di
convinzione sembra guidarne le reazioni. Come ha rimarcato Vuarin
(1990), il sistema di protezione sociale senegalese risulta formato da
quattro poli: lo Stato (previdenza sociale, politica sociale), il
mercato (assicurazioni, tontine), la “società civile” (sistemi
mutualistici popolari, solidarietà famigliare) e per finire la religione
(carità). Quest’ultimo elemento risulta onnipresente nei vari ambiti
della vita dei senegalesi, con il 94% di musulmani legati a delle
confraternite (Mouride, Tidiane, Layenne, Qadiriyya) (Niang, 2013).
Un’altra osservazione, non meno importante, è che i fedeli aderenti a
questi movimenti sono anch’essi chiamati talibé e vengono opposti ai bambini talibé.
È una cosa parzialmente accettata, dato che in realtà, in certi casi,
dei fedeli adulti, come i Baye Fall (un sottogruppo dei Mouride),
mendicano in modo analogo a quello dei bambini talibé: vale a
dire che si dedicano alla mendicanza per il proprio marabout/capo
religioso, il cui obiettivo è quello di inculcare loro le nobili virtù
(la decenza, la cortesia…) del buon musulmano.
Diviene pressoché inutile aspettarsi che la semplice condanna
permetta di agire su tale fenomeno. Prima di tutto perché queste
credenze hanno avuto tutto il tempo di instaurarsi nel quotidiano dei
senegalesi. Sarà dunque necessario del tempo per sperare di cambiarle:
al momento è più di un secolo che vengono condotte azioni prive di
grandi risultati. In secondo luogo perché, su tale materia,
numericamente, le popolazioni coinvolte sono in maggioranza opposte al
fatto che lo Stato si dedichi all’etica di responsabilità.
Ciononostante, quest’altro argomento risulta piuttosto secondario:
infatti, l’ultimo rapporto di Human Rights Watch, (HRW) (2014) ha
identificato, fra i vari ostacoli alle politiche anti-mendicità del
Senegal, quella che viene definita «una mancanza di volontà ai più alti
livelli». Quest’assenza di volontà viene rivelata dal fatto che, quando
si parla dei talibé, i politici fanno sistematicamente marcia
indietro di fronte alle rivendicazioni dei marabout o della popolazione.
Da qui la pertinenza di un’osservazione di Niang (2013), riguardo al
fatto che in Senegal, di fatto, esiste un accordo tacito tra il potere
dei marabout e quello statale, al fine di mantenere tale ordine sociale.
Questo consenso, risalente all’epoca coloniale, è stato consolidato nel
1962 (data della prima elezione presidenziale), quando Senghor vinse la
sua battaglia contro il rivale Mamadou Dia grazie al sostegno dei
marabout (Niang, 2013: 52).
Quello stesso rapporto di HRW (2014) ha proposto una lista di
potenziali alleati per far fronte alla mendicità, che si riassumono in
due categorie: quella dei dirigenti religiosi e i numerosi insegnanti
del Corano. Risulta tuttavia abbastanza sorprendente constatare come
tale rapporto ignori completamente il ruolo di quella fetta di
popolazione che, facendo quotidianamente dell’elemosina, contribuisce al
mantenimento di tale pratica. D’altronde è un’impostazione che non è
nuova e non fa che riprendere strategie già sperimentate, occultando le
realtà socio-religiose; è una delle constatazioni già fatte da Sophie
d’Aoust. Nonostante ciò, la posta in gioca resta quella di comprendere
come tale dimensione potrebbe essere tenuta in considerazione
all’interno delle politiche di protezione minorile. In quale misura
potrebbe essere concepito un sistema che permetterebbe agli abitanti di
Dakar di soddisfare il loro bisogno di elemosina, allo stesso tempo
assicurando ai bambini delle condizioni di apprendimento decenti?

Bibliografia
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Zonabend (F.-F.), 1968, Lyciens de Dakar. Essais de sociologie de l’éducation, Paris, Maspero.

Note



[1]
In generale, si distinguono tre tipi di daara: 1) le daara moderne, che
richiedono un contributo finanziario alle famiglie e ricevono sia aiuto
pubblico che donazioni private; 2) le daara tradizionali, nelle quali
un gran numero di bambini, escludendo i momenti in cui si insegna loro
il Corano, vengono “lasciati a sé stessi”: mendicano, si procacciano il
cibo, tentano di racimolare qualche soldo che poi il loro marabout
quotidianamente reclama. Sono proprio queste le daara nostro
oggetto di interesse. Moderne o tradizionali, le daara portano via il
bambino dalla propria famiglia, che non vede tranne che in rare
occasioni; 3) diverso è il caso delle scuole coraniche di quartiere,
nelle quali il bambino passa qualche ora al giorno per poi rientrare in
famiglia la sera; queste scuole sono mirate all’insegnamento del Corano a
quei bambini in congedo scolastico o che sono troppo giovani per
frequentare la scuola pubblica.
[2] Il rapporto finale di Emergence Consulting (2010) mostra che, delle 558 daara
sulle quali si è basato lo studio, il 25% è stato creato dopo l’anno
2000, il 21% negli anni Novanta, il 18% negli anni Ottanta e il 37%
prima di tale decada. Si denota quindi un regolare aumento annuale nel
numero di nuove daara. Nella regione di Dakar, più del 34% è sorto nella prima decada del nuovo millennio, mentre il 26% negli anni Novanta.
[3]
Inizialmente, nel 1817, la scuola pubblica senegalese era anche
un’istituzione cattolica, poiché era stata affidata ai religiosi.
[4]
Nell’islam, tale rito si effettua al sorgere del sole. In Senegal
quindi, a seconda della stagione, ha luogo fra le 5 e le 7 del mattino.
[5]
Repubblica del Senegal, governo senegalese, Discorso alla nazione
pronunciato dal capo dello Stato per il nuovo anno, 31 dicembre 2006.
Disponibile online: <http://www.gouv.sn/spip.php?article655> (citato da D’Aoust, 2012).
[6]
«Ieri mattina, lunedì 4 marzo, numerosi senegalesi hanno assistito a
uno scenario da incubo all’altezza della via 6, X9, in pieno quartiere
della Medina. Un incendio di rara violenza ha devastato ogni cosa
trovasse sul suo passaggio. Il bilancio è di 9 morti e una persona
gravemente ustionata. Tutti bambini di età compresa fra i 5 e i 12 anni.
Sono stati trovati carbonizzati fra le macerie. Sette (7) talibé di una daara
di fortuna, un ragazzino e una ragazzina di una casa vicina hanno perso
la vita in questa sinistra notte fra domenica e lunedì 4 marzo 2013. Un
incendio che non ha risparmiato nulla, seminando desolazione e
tristezza, finendo per affliggere svariate famiglie.» (Cfr.: <http://www.sudonline.sn/9-morts-et-un-brule-grave-dans-un-incendie-a-la-medina_a_12719.html>, consultato il 10/03/2013)
[7]  <www.Seneweb.com>, consultato sabato 9 maggio 2013.
[8] Espressione che deriva dall’arabo e che viene utilizzata da ogni talibé per richiedere l’elemosina. La seguente è una definizione fornitaci da un seriñ daara: «A Dio, noi apparteniamo». La vera espressione sarebbe “Yaa raballana”, formula che permetterebbe di chiedere l’elemosina depersonalizzando il rapporto attraverso l’introduzione del divino.
[9] Qui si utilizza la parola dono nel senso datole da Marcel Mauss. Nel suo Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche (1923-1924),
l’autore ritorna sulla triplice obbligazione del dono: obbligo di dare,
di ricevere e di ricambiare, la quale contribuisce a una permanente
rigenerazione del legame sociale. Tuttavia, in questo preciso caso, ciò
che Mauss ha denominato potlach non avviene nel segno della
rivalità, ma piuttosto secondo la situazione particolare di ogni
individuo in rapporto alle finalità ricercate attraverso la donazione.