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Paola Rivetti: libertà d’espressione accademica e BDS

di Milena Rampoldi, ProMosaik. Un’intervista molto ampia ed interessante su vari temi, tra cui il movimento BDS, l’engagement accademico per la giustizia e la libertà d’espressione accademica, soprattutto quando si tratta del diritto alla critica contro lo Stato sionista di Israele. 
Paola Rivetti lavora come ricercatrice e insegna alla Dublin City University a Dublino, Irlanda. Tra i
suoi interessi di ricerca, vi sono lo studio delle dinamiche di governo e
disciplinamento del dissenso in Medio Oriente e l’analisi della trasformazione
dello stato. Paola e’ coinvolta in un progetto europeo che studia il cambiamento
culturale e valoriale tra i giovani in cinque paesi mediorientali e ha ricevuto
una borsa dell’Irish Research Council per studiare le mobilitazioni e i cicli
di protesta in Iran a partire dagli ani Novanta. E’ attualmente segretaria
nazionale della Societa’ per gli studi mediorientali italiana. Ha pubblicato su
numerose riviste italiane e internazionali e ha curato ‘Continuity and change
before and after the Arab uprisings. Morocco, Tunisia and Egypt’ (Routledge,
2015) con Rosita Di Peri. 



Milena Rampoldi: Che cosa
significa per Lei libertà d’espressione accademica?
Paola Rivetti: La libertà
accademica è un diritto che prevede il poter discutere, insegnare e ricercare
qualsiasi tema, col solo limite che questo non sia razzista. Essa è da
contestualizzare nell’ambito più ampio della libertà di espressione, diritto
civile e politico garantito, in teoria, alle costituzioni liberali che vigono
nella maggioranza dei paesi del mondo. Spesso associamo il diritto alla libertà
accademica e l’esercizio di essa alle università ‘occidentali’ dove, si
presuppone, esso venga esercitato e rispettato.
In realtà,
questa libertà è limitata quando si tratta di temi controversi come ad esempio
la campagna BDS e quella per il boicottaggio delle università israeliane.
Sembra infatti che, in questo caso, il diritto alla libertà accademica sia un
principio non valevole. Esistono moltissimi esempi di tale limitazione, che si
è applicata in maniera diversa a seconda dei campus e delle singole vicende. In
Italia, sembra essersi consolidata la pratica di non permettere che eventi
critici di Israele o a favore del boicottaggio si tengano nei campus attraverso
la negazione di aule e spazi dove i dibattiti possano aver luogo.[1]
Negli Stati Uniti, la censura ha assunto altre forme. All’Università della California,
per esempio, è in corso una battaglia per contrastare una circolare approvata
dalle autorità accademiche che di fatto impedisce ogni dibattito sul
boicottaggio perché equipara l’anti-sionismo e l’opposizione all’espansionismo
israeliano in Palestina all’anti-semitismo, ovvero a una forma di razzismo.[2]
Famoso è poi il caso di Steven Salaita, il quale è stato licenziato per aver
criticato Netanyahu su Twitter durante l’attacco israeliano a Gaza nel 2014.[3]
Salaita ha, poi, subito discriminazioni anche all’Università americana di
Beirut, dove avrebbe dovuto accedere a una posizione a tempo indeterminato.
Diverse sono le voci che accusano le autorità della UAB di aver usato la scusa
di irregolarità procedurali per non assumere Salaita, in seguito a pressioni
politiche.[4]
E’ fondamentale
notare come questi attacchi alla libertà accademica e di parola si ‘travestano’,
paradossalmente, da garanti di libertà e diritti attraverso, ad esempio,
l’equiparazione tra anti-semitismo (una forma di razzismo condannata dagli
stessi sostenitori delle campagne di boicottaggio[5])
e anti-sionismo, oppure attraverso argomentazioni quali l’equiparazione di
Israele ad altri paesi ove i diritti umani sono violati. La domanda ‘perché
allora non boicottare l’Iran?’, ad esempio, è familiare a qualsiasi accademico
o accademica che sostenga il boicottaggio. Mentre il governo dell’Iran infrange
quotidianamente i diritti umani e la libertà accademica dei propri cittadini,
non si può paragonare il livello di investimento e la quantità di fondi che le
università israeliane ricevono dai governi europei, dall’Unione Europea (non
dimentichiamoci che Israele può partecipare a tutti i programmi di
finanziamento alla ricerca europei e che è, in questo caso, considerato alla
stregua di un paese europeo) e dal governo statunitense. Inoltre, come
documentato da Enrico Bartolomei[6]
e da Yotam Feldman nel documentario ‘The Lab’[7],
il livello di complicità esistente tra l’università e l’industria della guerra
è estremamente alto nel caso israeliano. Anche la campagna Stop Technion ha esposto
questa complicità, rendendola visibile e attraendo un grande sostegno da parte
della comunità accademica italiana.[8]
Sostenere il boicottaggio, quindi, non significa essere indifferenti alle
violazioni dei diritti umani che avvengono in altre parti del mondo, bensì
intervenire in una situazione che vede le università israeliane essere
finanziate e contribuire all’industria della guerra a dei livelli che le
università iraniane non raggiungerebbero nemmeno in decenni.
Come ha scritto
Ruba Salih,[9] è fondamentale ampliare la
nostra prospettiva critica per riuscire a vedere le limitazioni che le
argomentazioni contro il boicottaggio presentano e per riuscire a cogliere e
combattere il ‘whitewashing’ di contro-argomenti liberali usati con lo scopo di
difendere il progetto coloniale israeliano, come mostrato da Nicola Perugini e
Neve Gordon.[10]

MR: Per quale
motivo dobbiamo opporci alla censura sullo Stato di Israele?
PR: Innanzitutto,
credo sia una questione di giustizia. La colonizzazione della Palestina è una
operazione incessante che va avanti da decenni con la complicità della comunità
internazionale che è incapace di intervenire efficacemente. Io credo che
abbiamo non solo il diritto ma il dovere di criticare le politiche di un
governo che sostiene l’eliminazione e il confinamento di una intera popolazione
attraverso tecniche militari e civili di controllo estremamente efficaci.[11]
Denunciare quello che la legge internazionale già denuncia è doveroso e denunciare
le aporie e le inconsistenze della legge è altrettanto necessario.
Una riflessione
riguarda anche la natura del dibattito in Italia, dove le notizie spesso
espungono il contesto più ampio del conflitto e, soprattutto, dell’occupazione,
presentando in questo modo la ‘violenza’ come completamente avulsa
dall’ambiente che la genera e come se si trattasse del risultato di una guerra
tra due stati con due eserciti. Sappiamo invece che l’Autorità Palestinese ha a
malapena il controllo sul territorio palestinese e che l’esercito palestinese è
impotente di fronte alle forze di difesa israeliane. L’ANP, infatti, assomiglia
di più a un ente di gestione dell’occupazione per procura che a un governo
nazionale che fa’ gli interessi del popolo che rappresenta. Non si tratta
quindi di due ‘parti uguali’ in un conflitto. A ben vedere, non si tratta
nemmeno di un conflitto ‘classico’ tra istituzioni governative, perché Israele
non fa la guerra all’ANP bensì alla popolazione palestinese. Tutti questi
elementi sono spesso omessi dal dibattito pubblico, che si trova quindi a
discutere e a riflettere su una realtà che, di fatto, non esiste.

MR: Che
potenzialità ha secondo Lei un movimento come quello del BDS?
PR: Il movimento BDS
è un movimento che, dal basso, si è costituito attorno alla richiesta di
gruppi, movimenti sociali, intellettuali palestinesi e israeliani di
boicottare, sanzionare e disinvestire in Israele, con lo scopo di fa pressione
direttamente su imprese, individui e istituzioni che traggono beneficio
dall’occupazione.[12]
L’obiettivo è anche quello di riportare l’attenzione sulla Palestina, contando
che il conflitto, da metà degli anni Novanta in poi e soprattutto dopo l’Undici
Settembre, è stato sempre meno al centro della politica regionale e
internazionale e dell’attenzione dei media.
Personalmente
credo che le potenzialità del movimento siano grandi. Lo dimostra l’attenzione
che, in Israele e altrove, la campagna BDS ha attirato. Ad esempio, alla
conferenza anti-BDS organizzata dal giornale ‘Yediot Ahronoth’ e svoltasi a Gerusalemme
lo scorso marzo, il Ministro Yisrael Katz ha proposto che gli attivisti pro-BDS
fossero individuati e ‘colpiti’ personalmente.[13]
Questa minaccia, vergognosa, dimostra come il BDS sia diventato una
preoccupazione seria per il governo israeliano, lasciando presupporre che esso
stia avendo un successo decisamente superiore alle aspettative.
Il BDS è
innanzitutto un movimento di testimonianza che riporta al centro del dibattito
pubblico la questione palestinese dopo anni di quasi-invisibilità. E’ un
movimento anti-razzista e pacifico, che intende far riflettere su una questione
morale che ruota attorno alla complicità con lo stato di Israele e sul ruolo
che ogni individuo può avere nel denunciare e rendere visibile tale complicità.
In un momento in cui il discorso pubblico attorno a questioni mediorientali è
ossessionato dalla questione dell’islam e della violenza, posta quasi sempre in
chiave orientalista, il BDS offre la possibilità di introdurre un discorso
completamente diverso, che parla di diritti, giustizia e razzismo. Considero a
questo proposito fondamentale il ruolo di associazioni professionali e
accademiche che sono in primo piano nel diffondere tale dibattito, come l’American
Anthropological Association, la Middle East Studies Association, la BRItish Society
for Middle Eastern Studies, l’International Critical Geography Group, la
Società Italiana di Studi Mediorientali e altre associazioni che si sono
impegnate nel discutere e riflettere sull’opportunità di sostenere il
boicottaggio accademico.[14]
Anche se il numero di associazioni che sostengono il boicottaggio è di molto
minore a quello delle associazioni impegnate in tale dibattito, è fondamentale
che si testimoni come non solo sia possibile discutere della questione ma anche
come questo anche sia importante eticamente e professionalmente. Infine, la
campagna BDS ha creato reti di solidarietà internazionale. Nel caso delle censure
al dibattito su BDS avvenute in Italia, ad esempio, diverse associazioni
accademiche si sono mobilitate per fare pressioni sulla autorità accademiche e
governative italiane condannando gli episodi di censura. L’americana Middle
East Studies Association, la britannica British Committee for Universities of
Palestine, l’irlandese Academics for Palestine hanno espresso solidarietà e
hanno inviato lettere di protesta a rettori e alla Ministra Giannini, chiedendo
che la libertà accademica e di espressione venisse rispettata.[15]

MR: ProMosaik
crede nelle università come luoghi in cui coltivare e sviluppare un pensiero
socio-politico per impegnarsi nella società? Che ne pensa di questo?
PR: Io non mi illudo
sul ruolo di ‘guida’ delle università: sono consapevole del fatto che questa
mia affermazione risulti strana, ma se ci pensiamo bene le università sono
istituzioni soggette a dinamiche di governo e di disciplinamento e che quindi
riflettono quella che è la natura del potere in un determinato luogo e momento
storico. Le università non solo vengono disciplinate dal potere (il Rettore
che, ad esempio, impedisce il dibattito sul BDS) ma disciplinano, anche (ovvero
insegnano, ad esempio, che censurare un dibattito sul BDS è normale e legittimo,
contribuendo così a creare cittadini e cittadine ‘disciplinati’). Come ha
scritto Amory Starr, co-autrice del bellissimo ‘Shutting down the street’, non
bisogna illudersi che le università siano un luogo di libero dibattito o di
promozione di pensiero critico: infatti, le università producono cittadini e
cittadine che devono funzionare in una determinata società e che quindi devono
essere disciplinati per poter seguire le regole e realizzare quell’ideale di
‘successo e ordine’ per cui sono stati formati.
Tuttavia, come
diceva Foucault, ovunque vi è controllo vi è anche resistenza. Ne sono un
esempio elettrizzante le numerose realtà studentesche che hanno votato e
sostenuto il boicottaggio accademico in diverse parti del mondo e i numerosi
collettivi sorti nelle università italiane in seguito alle mobilitazioni legate
alla campagna Stop Technion.[16]
Se insomma è
vero che le università sono una ‘palestra’ per i cittadini, è tuttavia
necessario non accettare a-criticamente tutto quello che viene dall’università
perché le viene dato un ruolo socialmente prestigioso. Anche il sapere prodotto
dagli accademici deve essere criticamente valutato e contrastato, se necessario.
Giovanni Gentile era un accademico e il Manifesto della razza del 1938,
dopotutto, è stato steso da accademici. Essendo da poco passato il 25 aprile,
mi sembra giusto ricordare che la critica sociale, esattamente come la
resistenza, non è un sapere da tenere nei musei e da rispolverare una volta
l’anno in occasione delle ricorrenze. La critica sociale e le pratiche di
resistenza vanno esercitate quotidianamente, opponendoci alle vergognose
politiche migratorie dell’Unione Europea come all’occupazione israeliana.

MR: Come possono
docenti e professori universitari promuovere una cultura della pace e della
giustizia? Come cambiare un mondo accademico spesso troppo chiuso in se
stesso e aprirlo all’impegno socio-politico?

PR: L’università è
una organizzazione estremamente complessa, e le persone che vi lavorano sono
spesso sovracaricate di incarichi amministrativi e burocratici. Questo è anche
un effetto del cronico sotto-finanziamento delle università italiane.
Nonostante le difficoltà strutturali, le accademiche e gli accademici italiani
hanno e fanno molto per contribuire a una cultura di pace, solidarietà e
giustizia. La campagna Stop Technion ne è un esempio, come anche lo sono le
mobilitazioni che chiedono verità e giustizia per Giulio Regeni, mobilitazioni
che hanno coinvolto e coinvolgono centinaia di colleghi e colleghe. Quello che
io vedo come ostacolo a un dispiegamento dell’incredibile potenziale che esiste
nell’università italiana è la situazione lavorativa a cui la generazione di
‘giovani’ (che anagraficamente ha tra i 30 e i 40 anni) è costretta dalla
penuria di finanziamenti e dalle riforme che dalla Moratti in poi, hanno
modificato il mercato del lavoro accademico.[17]
Se ci pensiamo
infatti, molti sono gli accademici di una certa età (in stragrande maggioranza,
di sesso maschile) che contribuiscono al dibattito pubblico, che hanno posti di
visibilità in talk show televisivi o sulle pagine dei maggiori quotidiani;
spesso però si tratta di persone che hanno perso la capacità e il contatto con una
società in cambiamento e agitazione come quella italiana. Spesso, questa
generazione ha una posizione consolidata e prestigiosa, economicamente e socialmente
parlando. Come possono quindi carpire e restituire il disagio che si agita tra
le generazioni precarizzate dei ventenni, trentenni, quarantenni e persino
oltre? Lo stesso discorso può essere fatto per le analisi della politica
mediorientale che vediamo dominanti sui media mainstream italiani. Molto spesso
le analisi più accurate, sostenute da dati empirici e da ricerche serie, sono
firmate da giovani precari che difficilmente hanno accesso a quotidiani nazionali.
La conseguenza è di avere una informazione molto povera, poco complessa e che
si basa su assunti orientalisti se non persino razzisti. Un gruppo di studiosi
e studiose ha ad esempio criticato Maurizio Molinari, direttore de La Stampa,
per offrire una informazione banale e fuorviante, contribuendo quindi a creare
un dibattito pubblico molto povero di contenuti e malinformato.[18]

MR: Ci parli del
Suo impegno e dei Suoi libri.

PR: Mi sono occupata
di vari temi, che però si potrebbero tutti includere in un grande ‘contenitore’
che è il come gruppi politici e movimenti sociali vengono ‘de-radicalizzati’ e
‘ammansiti’. Mi ha sempre affascinato (e anche preoccupata) come sia
apparentemente così semplice per governi quali quello iraniano o marocchino
evitare un confronto aperto con la popolazione, ovvero una situazione
rivoluzionaria. Ovviamente esistono molte spiegazioni per questo che sono
specifiche ai contesti locali, ma la domanda che guida le mie ricerche è così
sintentizzabile. Sebbene io mi sia occupata maggiormente di Iran e di Medio
Oriente, ho anche ricercato le condizioni di lavoro e le conseguenze in termini
di de/mobilitazione tra i precari della ricerca, ovvero tra coloro i quali
lavorano nelle università senza una posizione a tempo indeterminato o senza
tutele contrattuali. Ho anche allargato il mio sguardo agli psicologi. Mi
interessa quindi capire quali strategie le autorità in senso lato mettono in
campo per co-optare, ammansire, reprimere il dissenso. Ho diversi progetti per
il futuro. Innanzitutto, chiudere il mio lavoro sull’Iran, che va avanti da
molti anni. In secondo luogo, avviare un nuovo progetto di ricerca sul governo
delle società in chiave comparativa tra ‘regimi democratici’ e
‘non-democratici’, per poter discutere del come, nonostante le etichette,
l’esercizio del potere sia altrettanto violento nelle ‘moderne democrazie’ e
nei ‘regimi dittatoriali’ e le politiche di dispossession
molto simili in questa era neoliberale.


[1] http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/04/04/boicottaggio-israele-studiosi-del-medio-oriente-contro-alcune-universita-italiane-violati-dibattito-e-liberta-accademica/2604619/
[2] http://www.nytimes.com/2016/03/27/us/university-of-california-adopts-statement-condemning-anti-semitism.html?_r=0
[3]
https://electronicintifada.net/content/how-zionisms-brutality-reaches-gazas-beaches-us-academia/14976
[4]
https://www.insidehighered.com/news/2016/04/14/reports-circulate-american-beirut-has-blocked-permanent-appointment
[5]
http://mondoweiss.net/2015/07/movement-interview-barghouti/
[6]
http://www.labottegadelbarbieri.org/enrico-bartolomei-gaza-e-lindustria-israeliana-della-violenza/
[7]
https://www.youtube.com/watch?v=1d4INiko0x8
[8] https://stoptechnionitalia.wordpress.com/
[9]
http://www.jadaliyya.com/pages/index/21666/academic-freedom-ethics-and-responsibility_the-sil
[10]
http://www.jadaliyya.com/pages/index/22040/new-texts-out-now_nicola-perugini-and-neve-gordon-
[11] Per un approfondimento, si veda: https://www.youtube.com/watch?v=7ncLnayWFgg
[12] https://bdsmovement.net/bdsintro, https://bdsmovement.net/call
[13]
http://972mag.com/in-israel-bds-is-winning/118198/
[17] Per un approfondimento, si veda la recente campagna #ricercaprearia che ha
coinvolto a livello nazionale i precari della ricerca in una ondata di
mobilitazioni a cavallo tra il 2015 e il 2016.
[18] http://storieinmovimento.org/2016/02/04/due-lettere-aperte/.
Sull’opera di dubbia qualità di Maurizio Molinari, si veda http://www.lavoroculturale.org/califfato-del-terrore/