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Lo status della democrazia in Eritrea

di Haji Jaber,
lamacchinasognante,
18 Aprile 2016

“L’Eritrea non ha bisogno
della democrazia importata dall’Occidente
, ma è capace di
creare un suo modello di democrazia”. Questa era la risposta che
aveva sempre ribattuto il presidente Isaias Afewerki, per ben due
decenni, alla domanda sulla democrazia in Eritrea. Ultimamente però
Afewerki ha dato una risposta diretta e ben diversa, che i suoi
avversari politici hanno considerato la più sincera per la
descrizione del suo governo sin dal 1991. Afewerki ha dichiarato, in
un’intervista alla televisione di Stato, che “chi aspetta o si
illude che ci sarà la democrazia in questo paese, sta vivendo
sicuramente in un altro pianeta”
.


Ma gli eritrei hanno veramente bisogno
di sentire ciò dal presidente che sta a capo dell’unico partito
nel paese, e che – per ironia della sorte – si chiama “Fronte
Popolare della Democrazia e della Giustizia”
, per capire che i
loro sogni d’indipendenza dopo la guerra con l’Etiopia, sono
entrati in un tunnel oscuro? La questione era già chiara per gli
eritrei, per questo non è emersa nessuna novità nell’ultima
dichiarazione di Afewerki.


La vera domanda però è: perché
Afewerki ha dichiarato in modo netto la sua visione politica nel
dirigere il paese, dopo aver cercato sempre di celarla sotto le
spoglie di discorsi non lontani dall’idea di democrazia?



I sogni dell’indipendenza

Dal primo giorno in cui il “Fronte
Popolare della Democrazia e della Giustizia” aveva avuto il
controllo sull’Eritrea – cacciando il “Fronte di Liberazione
Eritreo”
nel Sudan, nonostante questi avesse iniziato per primo
la lotta contro l’Etiopia – il partito dominante aveva due
progetti: il primo era gonfio di promesse di porre fine agli anni di
lotta con la realizzazione dei sogni di libertà, di democrazia e di
vita dignitosa. Il secondo progetto invece era celato, portato avanti
da una limitata categoria del popolo.


Nella prima festa d’indipendenza il
partito dominante aveva parlato a lungo di formare un parlamento e
una costituzione, e di permettere il pluripartitismo, della
libertà d’espressione e della libertà di credo
. E ciò è
stato dimostrato con i permessi dati a un gran numero di quotidiani,
e nel dare a loro un maggior margine di libertà. Con il passare del
tempo però il primo progetto andava ristretto a favore del secondo.



Il primo passo

L’Eritrea non ha goduto della
cosiddetta “primavera eritrea” tra 1992 – 1996, in cui si erano
diffusi i quotidiani e le riviste, e si era verificato il ritorno
della élite alla politica e alla cultura, per ricostruire l’Eritrea
dopo l’indipendenza. Il partito dominante si seccò subito delle
critiche dei giornali, allora li chiuse e iniziò una campagna di
arresti, indirizzata soprattutto a coloro che gridavano “a
squarciagola” criticando l’atteggiamento totalitario del governo
nel dirigere lo stato. Ciò arrivò prima della guerra con l’Etiopia
del 1998, che fu il passo decisivo verso l’oppressione e la
violenza del regime.


Finì la guerra dopo aver mietuto
decine di migliaia di morti, e aver condannato all’esilio altre
migliaia. Ma la fine della guerra non era altro che l’inizio della
rivelazione della vera faccia del regime; il rigido atteggiamento nei
confronti di chi si dimostra contrario alla propria politica, e
sarebbe stato questo il metodo che avrebbe seguito “Il Fronte
Popolare della Democrazia e della Giustizia” negli anni successivi.
La patria, secondo il partito dominante, avrebbe accolto soltanto “i
buoni cittadini” che dovevano per forza appartenere al partito, al
di fuori di questa categoria ci stavano “i traditori” che
dovevano essere sterminati e cacciati via.



Unico partito, unico giornale
e unica TV

La seconda guerra con l’Etiopia
scoppiò nel 2000. Tra le due guerre Isaias Afewerki ordinò di
arrestare decine di ministri, di membri del partito e di
intellettuali e giornalisti che avevano richiesto al regime di
mantenere le promesse per la democrazia nel paese. Alcuni di loro,
ancora viventi, risiedono tuttora nelle carceri.


Intanto non restò nel paese che una
sola TV, un solo giornale e una sola radio che rappresentavano il
regime. La costituzione venne sospesa e il parlamento sciolto.
Tutto ciò che succedeva il regime lo giustificava con lo stato di
emergenza creato dalla guerra con l’Etiopia, e con il pretesto
della sicurezza nazionale. I documenti di “WikiLeaks”, però,
affermavano che la causa della guerra tra l’Eritrea e l’Etiopia
era dovuta a uno scontro personale tra Afewerki e l’ex primo
ministro etiope Meles Zenawi.




Il secondo passo

Dopo la seconda guerra con l’Etiopia,
la situazione  interna eritrea divenne tragica; il governo aveva
emanato la legge della leva obbligatoria per entrambi i sessi, senza
porre termine al servizio. Questa legge fu seguita da un’altra che
vietava agli eritrei di abbandonare il paese, prima di aver terminato
la leva, che in pratica non finiva mai. Ciò rendeva, e rende a
tutt’oggi, l’Eritrea un luogo che raccoglie persone a cui è
negato partire.


Il regime però non si limitò a
quello, ma aveva approfittato degli arruolati per costruire i
progetti del partito, come la ricerca dell’oro, o la costruzione di
case per grandi funzionari e ufficiali, senza ricevere nulla in
cambio, oltre al vitto. Questa situazione mise gli eritrei davanti
all’unica scelta: fuggire dal paese, singolarmente o in gruppi, e
raggiungere i paesi vicini.





100 rifugiati al giorno
Nel 2013, nell’ultimo rapporto
sull’Eritrea, Human Rights Watch ha documentato che il 5% della
popolazione eritrea, che ammonta sui cinque milioni, è scappata dal
paese verso il Sudan, l’Etiopia e lo Yemen. Questa fuga continua su
base quotidiana e i campi profughi nell’Est del Sudan accolgono
ogni giorno un centinaio di profughi, mentre decine entrano,
furtivamente, nelle città sudanesi senza passare per i campi
profughi.


Cinque squadre eritree di calcio hanno
partecipato a tornei all’estero, e non hanno fatto più rientro; in
seguito hanno chiesto l’asilo in paesi europei. La stessa sorte è
toccata a delle delegazioni culturali o artistiche che sono riuscite
a partecipare a dei festival all’estero. Sono falliti anche i
metodi che il regime ha adottato imprigionando le loro madri per
costringerli a ritornare, poiché  data la situazione economica
malridotta del Paese alla fine accettava una multa di 1500 dollari
per risolvere la questione e rilasciare la madre. La peggior
situazione in cui è caduto il regime si è verificata quando due
ufficiali sono fuggiti in Arabia Saudita con un elicottero
presidenziale. Il problema era come riprendere l’elicottero, poiché
ogni volta mandavano un aviatore per riportarlo indietro, quello
chiedeva asilo e non voleva più tornare.



I campi profughi
Oggigiorno quasi mezzo milione di
profughi eritrei vivono sui confini del loro paese, a Est del Sudan,
in uno stato misero, dopo che l’ONU ha negato loro il diritto
d’asilo. L’organizzazione dunque non è più responsabile del
loro sostegno, poiché gli eritrei appartengono a un paese che gli
permette il ritorno, anche se, la realtà dei fatti non è così. Il
regime ha posto degli ostacoli davanti agli eritrei esiliati, per
mantenere la strategia demografica che ha messo in atto dopo
l’indipendenza. Infatti, chi rientra in paese non può più stare
nella città dove viveva prima, ma viene mandato in un’altra più
lontana. Se insiste nel restare nella sua città viene privato dei
diritti fondamentali fino a costringerlo ad abbandonare,
volontariamente, il paese. Così la maggior parte di coloro che erano
tornati in patria sono ritornati nuovamente nei campi profughi del
Sudan.




Il paese dei contrasti

Ci sono diverse divisioni in Eritrea,
e sono molto importanti per capire la realtà culturale del paese. Ci
sono musulmani e cristiani, arabi e abissini, i popoli delle alture e
quelli delle pianure, filo sudanesi e filo etiopi. E nonostante ci
siano nove etnie, di fatto però le divisioni principali sono sempre
una di quelle suddette categorie. La lingua araba è una lingua
ufficiale, insieme al tigrino (la lingua della piccola etnia di
Afewerki che risiede nelle alture), e i musulmani sono il 75% della
popolazione eritrea, la maggior parte di loro risiedono nelle
pianure. Nonostante tutto ciò l’arabo subisce una chiara
marginalizzazione dal regime. Vediamo che il tigrino è la lingua dei
media e delle pratiche statali, e chiunque parli solo l’arabo ha
bisogno di un interprete tigrino per svolgere le più semplici
pratiche. E siccome la maggior parte delle guerre ha avuto come
teatro le pianure, i popoli delle pianure sono stati costretti a
migrare e ad abbandonare le loro case e le loro terre, cosicché il
regime ha cominciato la sua campagna demografica che ha cambiato la
sorte del paese. I terreni fertili e le case delle pianure sono state
concesse a coloro che venivano dalle alture, così Massaua, la città
situata sul Mar Rosso che prima parlava soltanto l’arabo, oggi è
diventata una città in cui si parla soltanto il tigrino.




La debole opposizione

Di fronte a questa pessima gestione
del paese ci sta l’opposizione, che ha come sede l’Etiopia, ma è
impegnata a risolvere i suoi problemi interni, i dissidi e le
concorrenze tra i suoi leader per le funzioni ipotetiche sognate da
quelle deboli organizzazioni  Un esempio del pessimo ruolo
dell’opposizione è la sua accesa discussione sul diritto delle
etnie di decidere il proprio destino, dopo che sarà caduto il
regime. Ciò vale a dire che l’Eritrea che occupa 121 mila
chilometri quadrati è minacciata di essere divisa, così la
dittatura sarà soppiantata dalla divisione del paese.




Perché ora?

Ritornando alla dichiarazione di
Afewerki sulla democrazia, questa ci mette davanti a una delle due
ipotesi: o che il regime ha raggiunto il suo scopo, e non c’è più
la necessità di celare il suo progetto, oppure che il regime sta
attraversando una forte crisi, visti i problemi interni che stanno
sgretolando le sue malandate fondamenta. Un chiaro esempio di ciò è
il fallito colpo di stato  eseguito da alcuni ufficiali a
gennaio del 2013. Afewerki, il leader del partito, è un uomo
settantenne, con gravi malattie, e non ha ancora annunciato un suo
successore, per cui il trono è diventato la torta che tutti vogliono
dividere.


Il paese sta davvero vivendo una forte
crisi, in cui diverse città, tra cui alcune zone della capitale
Asmara, sono prive di elettricità e di acqua potabile. Tutto questo
può portare la popolazione a una rivoluzione per la fame. Tutte
queste problematiche sono chiari indizi che ormai il regime non ha
nulla da perdere, e che non c’è più bisogno di nascondere le sue
maniere di gestire il paese.



Haji
Jaber

è uno scrittore eritreo, scrive in lingua araba. Nato nel 1976 a
Massaua, in Eritrea, ma cresciuto in Arabia Saudita. E’ uno degli
intellettuali più importanti della diaspora eritrea nel mondo arabo.
Scrittore e giornalista attivo, ha lavorato per anni nel giornalismo
saudita, e ha lavorato come corrispondente per la TV tedesca Deutsche
Welle in Arabia Saudita, e attualmente vive a Doha, in Qatar, e
lavora come giornalista per Al Jazira TV. Ha sempre lottato per la
causa della sua patria tramite l’arte della scrittura, senza
trascurare minimamente la letteratura araba e mondiale, cui dedica la
maggior parte dei suoi articoli sui giornali.