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Il femminismo nero che racconta la storia dell’Africa.

di
Redazione Italia, vociglobali , 25 Marzo 2016
Non è la
cultura a fare le persone, sono le persone a fare la cultura.
Assolutamente
condivisibile l’affermazione della scrittrice nigeriana Chimamanda
Ngozi Adichie.
Condivisibile ma non lapalissiana, considerato in
quante situazioni la cultura dominante impone modelli e
comportamenti. E non sono solo comportamenti e modelli “maschili”. 
Lo stesso vale per le lotte femminili, per il femminismo.
L’ultimo
lavoro di Adichie è un libello di sole 50 pagine dal titolo “We
Should All Be Feminists“
, dovremmo essere tutti femministi.

“tutti”, non “tutte”, perché nella sua nuova definizione di
femminista un/una femminista è qualcuno che dice: sì c’è un
problema di genere oggi e noi dobbiamo risolverlo, noi tutti dobbiamo
far meglio.
Ma l’essere
(o il diventare) tutti femministi, non può essere scollegato dalla
realtà.
Dalle
realtà. Non può diventare un altro tentativo di globalizzare idee e
aspettative.
Perché i
mondi – che ci piaccia o no – nonostante la dominazione culturale
occidentale – sono diversi, sono ancora diversi. Ed è giusto che
sia così e c’è da augurarsi che così rimanga, anche se ci sono
buoni motivi per dubitarne.
Esiste un
femminismo africano – per quanto a molti possa sembra strano o
suonare come una novità. Perché il femminismo non è neutro, non è
assoluto.
Il
femminismo ha sfumature e colori e sarebbe un peccato non conoscerla
questa storia nera del femminismo. Nera, o anche viola.
Come quello
di Alice Walker, l’autrice del celebre “Il colore
viola
” da cui è stato tratto il film firmato da Steven
Spielberg.
La
scrittrice afro-americana aveva coniato il termine womanism per
avanzare l’idea e la necessità di un cambiamento di mentalità che
tenesse conto delle difficiltà e delle esperienze specifiche delle
donne nere e delle minoranze.
Wangari Maathai (1940-2011 Kenya). Prima donna
africana a ricevere il premio Nobel per la pace, nel 2004.
Womanist
sta al femminismo come il colore viola sta alla lavanda
, diceva
la Walker, mettendo insieme in questo concetto e nel nuovo termine
coniato, femminilità, negritudine e razzismo.
Il
femminismo, infatti, in Africa e nella comunità femminile
afro-americana è stato sempre associato alla
cultura occidentale,
alla donna bianca che spesso – prima di essere femminista – era
razzista proprio come gli altri. Una womanist ama le donne, la loro
cultura, ma ama anche gli uomini e fare bambini, combatte il
razzismo, odia i separatismi.

È questo
desiderio di esprimere la propria dimensione unica e diversa, che nel
tempo ha fatto nascere movimenti femminili africani in grado di
portare il proprio personale contributo alla cosiddetta
emancipazione.
Un’emancipazione
di genere ma quasi mai avulsa dall’emancipazione politica del
post-colonialismo, da cui nasceva, già negli anni Settanta, il
post-colonialimso femminista, laddove appunto il femminismo sembrava
focalizzarsi solo sulle problematiche e le esperienze delle donne
occidentali.
Un’emancipazione
che rivendicava anche la conservazione di propri valori e della
cultura indigena, riconoscendosi nell’Africana womanism.
E ancora,
il Black feminism legato al ruolo delle donne nel movimento
dell’indipendenza, del nazionalismo nero, della liberazione gay.
Ma anche il
forte contributo dato dai movimenti sociali ed ecologisti.
Ma
attenzione, così come il femminismo nero non è un’esperienza di
derivazione occidentale non è neanche nuova.
Il
femminismo in Africa – con le sue note particolari – è sempre
esistito, con le donne guerriere, le regine che lottavano per la
giustizia e scacciavano il colonizzatore, filosofe che percorrevano
strade originali del pensiero.
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Taytu Betul (1851circa – 1918), imperatrice di Etiopia, fu un’astuta
diplomatica.
Certamente,
ci sono temi e problemi comuni alle donne di tutto il mondo:
patriarcato, violenza domestica, accesso alle cariche, ma ce ne sono
altre (persino quella che riguarda le mutilazioni genitali o i
matrimoni delle bambine) per le quali si ha il diritto di lottare con
le proprie armi, con le proprie voci, con la propria lingua anche.

Una storia
del femminismo in Africa (o delle femministe africane) non è facile
da tracciare. Non ha un inizio preciso e, naturalmente, non è ancora
finita.



Si può
provare  a fare un elenco, che aiuta a conoscere donne africane,
anzi “fenomenali femministe africane” che stanno influenzando la
politica e la società del continente.



Si può
provare a restare aggiornati sugli studi e le attività intorno al
mondo dell’African Feminist Forum o
dell’
African Gender Institute.






Si può
provare anche a stupirsi di quante donne in Africa siano alla guida
dei loro Paesi e abbiano ricoperto o coprano il ruolo di primo
ministro, presidente, ministro degli Esteri.





Quello che
andrebbe invece finalmente evitato è continuare a inscatolare le
donne africane nella solita, stucchevole iconografia stereotipata dei
media.






Quelle che
lottano e fanno fatica, le sopravvissute alla lotta e quelle che si
sono affrancate e hanno guadagnato qualche forma di libertà e
acquisito un ruolo nella società: sono le tre categorie di
stereotipo identificate da Minna Salami, scrittrice, blogger
ed esperta di femminismo africano.



Visioni
distorte – illusions le chiama Minna – proposte e riproposte dai
media occidentali che mostrano donne affaticate sotto il peso di
taniche d’acqua e di bambini, violentate dalle guerre, o sorridenti
(e riconoscenti) all’obbiettivo, come segno di superamento di un
calvario perenne, spesso aiutate da ONG.



O, infine,
donne che sono diventate qualcuno ma pur sempre passando dalla
medesima ordalia o discendenti di chi ha attraversato l’inferno.



Ma le vite
delle donne africane sono molto più sfumate e complesse.



Afropolitan,
il blog della scrittrice e studiosa, di padre nigeriano e madre
finlandese, è un mondo che bisognerebbe visitare. Almeno se si ha
voglia di conoscere il femminismo dall’angolazione africana e
l’Africa dall’angolazione femminista.
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Funmilayo Ransome Kuti (1900-1978 Ni­geria) attivista dei diritti umani e dei diritti delle donne in Nigeria
Di ricerche
sulle donne africane da parte di donne occidentali – ricorda ancora
la scrittrice in una sua partecipazione a TED – ne sono state fatte
tante, ma queste non tengono conto di quanto il colonialismo e il
razzismo abbiano influenzato e cambiato la vita delle donne africane.

Non
cercate di ingaggiare donne nere nell movimento delle donne sulla
base del sessismo degli uomini neri. Fatelo attaccando il razzismo
delle bianche“.


Parlava
così Florynce “Flo” Kennedy, afro-americana,
carismatica femminista e attivista del Black power, il potere nero.


Ascoltare i
suoi discorsi o le citazioni riportate su Colorlines può disturbare,
forse tanto quanto disturba una donna che indossa il velo ascoltare i
giudizi degli altri sulle sue scelte e la sua cultura.


Verrebbe da
dire che i femminismi (o womanism) siano tanti quanto le diversità
culturali ma anche tanti quante le donne che scelgono di mettersi in
prima linea e rivendicare spazi, diritti, desideri, opportunità. Per
se stesse e per le altre.


Evitando di
pensare che quello sia l’unico femminismo possibile.


C’è la
parola pungente di “Flo” ma c’è anche quella carezzevole ma
incisiva di Adichie, due estremi che solo apparentemente sono tali.


Perché le
donne, dopotutto, hanno milioni di sfumature.


Ed è anche
di queste sfumature – non del colore nero – che è fatta la
storia dell’Africa.