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La canzone dell’elefante
Una fiaba pacifista di David Wapner

David Wapner

Traduzione di Milena Rampoldi


Un racconto estratto dalla raccolta Algunos son animales (Alcuni sono animali), Editorial Norma, Buenos Aires, 2002).

 

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Per secoli numerosi eserciti orientali si servirono di elefanti di
combattimento. Un esempio famoso è quello del generale e stratega
cartaginese Annibale che attraversò le Alpi con venti elefanti per
sorprendere e battere i romani. Si diceva sempre che gli elefanti di
Annibale erano elefanti africani. E quest’ipotesi alla fine non sembra
tanto illogica visto che Cartagine si trova in Africa Settentrionale. Ma
se diamo un’occhiata alle monete cartaginesi di quell’epoca, vediamo
Annibale su un elefante asiatico inconfondibile: molto piccolo,
grassottello, con una gobba e con le orecchie corte. Era infatti
l’elefante asiatico a venir impiegato in guerra quale “carro armato”
dell’epoca antica. Ma questi animali giganti a volte si impaurivano,
perdevano la testa, mettendo dunque in pericolo il loro fantino. Ed è
chiaro se si considera che gli elefanti odiano la guerra. Preferiscono
vivere la loro vita da elefanti nella foresta vergine. E quando devono
per forza convivere con gli esseri umani, preferiscono lavorare con loro
e diventano i loro compagni, come i cani e i cavalli. Sanjay ad esempio
era un elefante musicale. Il suo padrone, il giovane Rajiv, garantiva a
tutti che lo volevano sentire che Sanjay in certe occasioni era persino
capace di cantare e di comporre delle melodie proprie. Ma quasi nessuno
credeva alle storie di Rajiv, visto che si ritenevano un prodotto del
suo amore per Sanjay. Ma alcuni videro Rajiv cantare, mentre Sanjay
ascoltava, muovendo le orecchie – infatti dimostrava di essere anche un
osservatore affidabile – e a volte chiudeva anche gli occhi.



Alcuni raccontano di aver sentito da Rajiv che Sanjay, ascoltando
la musica ipnotica che proveniva dal suo strumento prezioso, veniva
ritrasportato ai momenti felici della sua infanzia, quando ancora viveva
con la sua famiglia e il resto del branco nella foresta vergine.



 


Di Rajiv dicono:

“Quando suona il mio raga [1],
il corpo di Sanjav diventa leggero, leggero come il suo spirito.
Entrambi si alzano e ritornano nel bosco. Sanjay diventa di nuovo il
bambino, il piccolo elefante che sta imparando come maneggiare la sua
proboscide. Allora Sanjay si gira per guardare se stesso, marciando nel
centro del gruppo, ove si aggrega agli altri giovani elefanti,
accompagnati da quelli più grandi e più forti che offrono loro
protezione. Il capo-branco guida il branco e lo accompagna fino alla
pastura ove poi mangiano e bevono”.





Al mattino Rajiv e Sanjay si mettono al lavoro. Il popolo con il
quale vivono si trova tra Benares e Patna, sulle rive del Gange. Qui si
trova una segheria con un piccolo mulino, ove vengono caricati e
scaricati tronchi di legno di teak. Il legno viene impiegato per la
costruzione di navi. Rajiv e Sanjay si riuniscono in quel luogo per
partecipare ai lavori di carico e scarico. Con una bacchetta Rajiv
mostra a Sanjay i movimenti da eseguire: “Prendi questo tronco”,
“Alzalo”, “Impila i tronchi sul ponte”. Ma in realtà gli ordini
impartiti da Rajiv sono solo un teatro per impressionare gli altri;
Sanjay infatti sa benissimo quello che deve fare. Conosce a memoria il
suo lavoro come il miglior operaio. 





Naturalmente Sanjay è un tipo del
tutto particolare. Non è un elefante normale; e questo lo dobbiamo pur
accettare. Ogni dieci tronchi si concede un attimo di pausa e fa un
segno con la proboscide che Rajiv intende perfettamente. Ora questo tira
fuori il suo flauto di bambù e suona una bellissima melodia contorta
che Sanjay ascolta pieno di dedizione. Obbedisce sempre alle parole del
buon Rajiv, fino a che in situazioni come queste non sparge delle
lacrime. La sua spiegazione a riguardo recitava che il suo elefante
“riviveva i momenti della sua gioventù, in cui iniziava a sentire la
forza degli elefanti più grandi. Così fu incitato a sradicare degli
alberi. Si ricorda ad esempio di alcuni casi in cui il branco correva
rapidamente per fuggire da un incendio del bosco, gettando a terra tutti
gli alberi che incontrava sul suo percorso. Egli stesso durante quella
corsa folle ne sradicò dieci. Quando il gruppo poi si calmò, Sanjay si
rese conto che si sentiva già forte come un elefante sedicenne”.






Ecco cosa racconta Rajiv e tutti sanno che esagera.



Ma non tutto quello che raccontava Rajiv, apparteneva al mondo della fantasia.



Un collaboratore dell’imprenditore del legno aveva costatato che il
momento del bagno di Sanjay era assolutamente degno di essere guardato e
ascoltato. Rajiv a questo scopo aveva preparato un terreno trasformato
in un buco di fango per permettere a Sanjay di torcersi a piacimento.
Per riuscirvi comunque questo bagno doveva essere accompagnato dal canto
di Rajiv, mentre svuotava i secchi d’acqua. In questa situazione Sanjay
emetteva alcune urla di gioia che per tutti non erano  che urla da
elefante. Rajiv comunque le interpretava in modo convintissimo come
passaggi musicali. In altre parole non sono altro che un canto da
elefante, in cui Sanjay ricorda i movimenti collettivi del suo branco
negli stagni e nei bagni di fango della sua infanzia. “Queste canzoni”,
dice il creativo Rajiv, “ricordano i momenti felici, in cui suo padre o
sua madre lo spingevano avanti e il piccolo Sanjay, tutto impacciato,
non faceva che cadere in acqua sul naso; o era bagnato fradicio dalle
proboscidi del suo branco, cosa che ovviamente gli faceva un immenso
piacere”.  











Nessun poi crede veramente alle canzoni degli elefanti, ma Raijv
non transige e si impegna a più non posso per renderle credibili.
Racconta una vecchia storia dai tempi della battaglia di Panipat, in cui
il sultano Baber sconfisse il sultano Ibrahim. Su cavalli, cammelli ed
elefanti riuscì infatti a battere un intero esercito. All’altezza del
garrese degli elefanti si trovava il fantino con la lancia e la sciabola
a farfalla. Sulla parte inferiore della schiena era fissata una sella,
dalla quale l’arciere lanciava le sue frecce. “Fino a tal punto sembrava
che vincessero gli eserciti del sultano”, racconta Rajiv, come se
recitasse una poesia. “Ed ecco – continua – che proprio un elefante del
sultano si ferma e non vuole proseguire oltre. Il fantino si impegna a
più non posso, ma il suo animale non fa un solo passo. Subito dopo gli
altri elefanti si accorgono di quello che fa il loro capo e lo imitano.
Nelle truppe fedeli a Ibrahim dominava il caos. Persero del tutto il
controllo, quando gli elefanti iniziarono a seguire il loro capo,
iniziando a cantare. L’elefante del sultano iniziò a cantare: 








 



La guerra non ci piace,

Non ci piace, la guerra non ci piace.  


Poi cantarono tutti insieme:  

Ci piace l’acqua,
Ci piace l’erba,
le armi non ci piacciono,
le frecce non ci piacciono,
E ripetevano:
La guerra non ci piace,
Non ci piace, la guerra non ci piace. 







“In questo modo il sultano venne sconfitto e perse il suo trono.
Dopo aver sentito la mia storia, ora nessuno può più dire che gli
elefanti non sanno cantare. Perché il mio Sanjay allora non dovrebbe
saper cantare anche lui?” Rajiv rideva felice e prese un tamburo e uno
strumento monocorda in mano, con il quale accompagnare il suo canto
alquanto melanconico. Sanjay accorse al suo fianco e si dondolava,
sollevando le sue zampe gigantesche. Si tratta di un fatto comprovato.
Infatti ci sono innumerevoli testimoni. Questo comunque non vuol dire
che a Rajiv, quando racconta le sue storie e dice che Sanjay balla, si
deve credere tutto. Dice infatti che Sanjay danza “perché il canto
accompagnato dal tamburo gli fa ricordare quei giorni felici, in cui le
sue zanne bianche brillavano in tutta la loro bellezza. Sanjay da grande
si immaginava di diventare la guida del suo branco e di levarsi dalla
“proboscide” ogni pericolo e di mostrare i suoi bellissimi dispositivi
di protezione per fare una gran paura a tutti i suoi potenziali nemici.



Ora Sanjay si vergogna un poco per colpa delle punte delle sue
zanne limate. E percepisco anche una certa melanconia. Infatti canto
questa vecchia canzone solo per far danzare Sanjay e farlo sentire
bene”.  






Secondo Rajiv l’indole felice di Sanjay si esprime completamente
quando Rajiv suona i tabla. Quando con le sue mani suona questo tipo di
tamburi di terracotta, Sanjay salta come un commediante ed esegue
piroette di ogni tipo, come i suoi compagni al circo.



“Nessuno ha mai insegnato a Sanjay queste cose – dice Raijv –
infatti le ha imparate da solo da quando è bambino.” E aggiunge: “Quando
mio padre me lo regalò, anch’io ero ancora un bambino e lui era un
animale giovane di millecinquecento chili. Ma già a quei tempi lo ho
visto dimostrare sua arte”. Chi ha sentito la storia di Rajiv, non può
che porgli questa domanda:



—Ma Rajiv, se Sanjay era piccolo come dici, quando tuo padre te lo
regalò, come può essere che si ricordi ancora dei suoi giorni nella
foresta vergine, della sua gioventù e delle sue zanne lunghe?  


Rajiv risponde con un sorriso e con un movimento della mano:

—Perché ha una memoria d’elefante.

Nota





[1]
Il termine Raga o Rāga indica, nella musica classica indiana,
particolari strutture musicali, che seguono nell’esecuzione precise
regole relativamente alle frasi melodiche consentite o vietate, e sono
basati su un certo numero di scale musicali di base.




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Palazzo di Jaipur, Rajasthan, India