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Geronimo. Autobiografia di un guerriero.

di ansa, 02 Aprile 2016
“Alla
fine solo quattro indiani rimasero nel campo, io e altri tre
guerrieri.



Le frecce
erano state tutte scagliate, le lance spezzate nel corpo dei nemici
uccisi.



Ci
restavano solo le mani e i coltelli”.



La copertina del libro 'Storia della mia vita' di Geronimo © ANSA
Lui è
Geronimo, il capo indiano, il più celebre degli Apache ma non
risuona più il suo fiero grido di guerra. E’ anziano e prigioniero,
da molti anni, nella riserva militare di Fort Sill.


E’ lì che
nell’estate del 1904 S.M. Barrett incontra per la prima volta
Geronimo e gli fa da interprete. Nasce così l’idea di farsi
raccontare la sua storia e il vecchio capo acconsente in cambio di
soldi e solo dopo il permesso degli ufficiali del campo.



Barrett non
ottiene il permesso degli ufficiali, ma ottiene invece quello del
presidente degli Stati Uniti, Theodore Roosevelt, che gli dà il via
libera.



E’ così
che, gambe incrociate, seduti insieme, Geronimo e il suo biografo
passano molte giornate nel flusso di un racconto orale per il quale
il vecchio capo non vuole interruzioni, né domande. E’ il suo punto
di vista, puro e semplice, così come lo racconta l’indiano che è
stato per anni il terrore delle truppe messicane in particolare. 
E’
infatti sui messicani che si concentra l’odio puro di Geronimo. Ed ha
anche i suoi motivi.






Il lungo
racconto di incursioni e reciproche stragi ha inizio infatti quando
nell’estate del 1858, in tempo di pace e reciproci buoni rapporti, la
tribù degli Apache Bedonkohe decide di spostarsi a sud, in Messico
appunto, per commerciare oltrepassando Sonora diretti a Casa Grande,
la meta finale. Ma lì accade la catastrofe.



Una sera,
tornati nelle quotidiane incursioni dalla città alla ricerca di
provviste, i guerrieri Apache trovarono il villaggio messo a ferro e
fuoco. Geronimo trova la sua famiglia sterminata: la giovane moglie,
i tre bambini, la vecchia madre, tutti morti. Trucidati.



E da allora
la volontà di vendetta di Geronimo non si placa, in un inesauribile
susseguirsi di drammatiche incursioni, di vendette incrociate. Gli
Apache usano metodi brutali, ma i ‘bianchi’ non sono da meno. Quella
è terra di violenza e ruberie, poche le leggi che reggono. Gli
indiani hanno la loro etica, a volte rapiscono donne e bambini, lo
fanno anche i bianchi. Ma non per farli prigionieri, per farli
crescere – liberi come sono loro – nei loro villaggi.



E portano a
casa in trofeo solo lo scalpo dei nemici uccisi in battaglia.



Ma prima
della guerra, il racconto di Geronimo è la sua meravigliosa
infanzia, totalmente libera e spensierata, in quella terra che,
secondo le leggende Apache, erano stati gli uccelli, con le aquile a
capo, a strappare alle tenebre nella quale l’avevano precipitata le
‘bestie’ di mitologica crudeltà: draghi, leoni, tigri, lupi volpi,
castori, conigli, scoiattoli, topi.






Dove “ogni
creatura aveva il dono della parola e della ragione” e dove
l’uomo non riusciva a sopravvivere se non con estrema difficoltà.
Poi venne il dono della luce, ma era rimasto solo un ragazzo,
l’Apache che riuscì ad uccidere il drago con le sue quattro frecce.



E il
quattro era per gli Apache, e le loro sei tribù, un numero magico.



Un mondo
crudele ma appunto, in fondo, magico.