Tre storie di ordinaria ingiustizia
23 Novembre 2016
Vicende che fanno riflettere e che fanno indignare. Storie di un’Italia che non dovrebbe mai essere
Questa è davvero una brutta storia. Una storia che si consuma a Torre Annunziata, comune di oltre quarantamila abitanti della città metropolitana di Napoli. Sorge sul Golfo, sdraiata per una decina di chilometri, tra Capo Oncino e lo scoglio di Rovigliano, a nord, le pendici del Vesuvio. Sorge nella cosiddetta zona rossa, ma questo le guide del turismo non ve lo dicono. Una ‘dimenticanza’, il fatto che Torre Annunziata sorga nell’area considerata a maggior rischio, quella che potrebbe tramutarsi in catastrofe, nel caso il vulcano si svegli. Come è accaduto nel 79 d.C., allora si chiamava Oplontis. Il Vesuvio la distrugge completamente. Risorge nel 1319, quando Carlo D’Angiò dona a Guglielmo di Nocera, Puccio Franconi di Napoli, Andrea Perrucci di Scafati e Matteo di Avitaya (Avitabile) quattro ‘moggia’ di terra, e si gettano così le basi per una chiesa dedicata alla Vergine Annunziata, un monastero e un ospizio; potrebbe essere un paradiso, clima mite e mediterraneo, non troppo caldo d’estate, non troppo freddo d’inverno; e a ricordare l’eruzione solo quella sabbia nera, eruttata secoli fa…
Perché il vulcano ‘dorme’, ma ogni tanto il suo sonno si interrompe. Nel 1631 Torre Annunziata viene completamente distrutta. Duecento anni dopo i Borboni portano la ferrovia, la famosa ‘Portici-Torre Annunziata’ appunto; nel 1906 altra eruzione, e ora è il terzo porto in ordine di importanza in Campania.
Il nome di Torre Annunziata è legato a tragico evento: il delitto da parte della camorra, del giornalista Giancarlo Siani. Perché a Torre Annunziata la camorra si respira, come l’aria.
E’ in questo contesto che si consuma la brutta storia che leggerete. Una storia con una vittima, M., una ragazzina di 14 anni; e quattro aguzzini, vere e proprie canaglie, alcuni di loro sono imparentati con il clan dei Gionta; sono tre ragazzi, tra i diciotto e i vent’anni; in più c’è il patrigno di lei.
Probabilmente immaginate la storia; sì, avete ragione: M va a scuola, conosce quei ragazzi, li frequenta; amicizia, forse chissà, con qualcuno di loro c’è anche un flirt innocente… Poi, le cose cambiano. La ragazzina non sospetta nulla, ma i quattro cominciano a guardarla in modo strano, diverso. E’ sera, quando la trascinano dentro i locali di un’officina meccanica; e hai voglia a urlare, graffiare, ribellarti: non ti sente nessuno, o forse – magari – nessuno vuole sentire; così, a turno i quattro violentano la ragazzina. E non quella sera soltanto. Gli stupri vanno avanti per settimane, mesi. Nessuno se ne accorge, nessuno capisce? Chissà. Oppure il fatto che quella parentela porti dritti dritti ai Gionta mette paura? Per tre anni il ‘branco’ abusa di M, che ogni volta ingoia le lacrime, soffoca le urla, piange e si dispera nel chiuso della sua stanza, muore per la vergogna, non ha e non sa con chi confidarsi.
Un giorno M. trova la forza di dire basta. Si presenta in commissariato e tutte le violenze subite le escono con il fragore di un torrente di primavera: tutto, nomi, fatti, parole… La denuncia finisce sul tavolo dei magistrati, è il 2004 quando si avviano le indagini; per qualche ragione che appare incomprensibile, in un Paese dove le manette scattano preventivamente per un nonnulla, i violentatori restano a piede libero. E sono lunghissimi giorni, per M., che attende giustizia, e vede i quattro sì indagati, ma tranquilli e perfino strafottenti, fare le cose di sempre. La prima condanna arriva cinque anni dopo la denuncia. In due decidono di non presentare appello; sono condannati a dieci anni, e li scontano. Gli altri due, al contrario, decidono di giocare la partita processuale fino in fondo: secondo grado di giudizio, e Cassazione. La difesa degli altri due imputati, G.A. e G.L., tenta di insinuare che i rapporti sessuali vedevano consenziente la ragazza, poi si punta a possibili vizi di forma. Ma la giustizia crede a M., e le sentenze vengono confermate: G.A. è condannato a sette anni e sei mesi; G.L. a sei anni e nove mesi. Così si chiude questa brutta storia, e c’è da augurarsi che scontino fino all’ultimo giorno.
ha avuto giustizia, se così si può dire. Continua a vivere a Torre Annunziata, e cerca di dimenticare quel lungo inferno patito. Ma c’è una cosa che non bisogna dimenticare e che lascia l’amaro in bocca. Ricordate? La prima violenza si consuma una notte del 2001, all’interno di un’officina. Tre anni di abusi, e finalmente, nel 2004, la denuncia. La prima condanna è del 2009, e per due di quei farabutti si aprono le porte del carcere solo perché non presentano appello. La definitiva condanna per gli altri due arriva nel 2016. Quindici anni dopo la denuncia, dodici anni dopo le prime indagini. Lo ripeto, nel caso non fosse chiaro: M. ha dovuto attendere dodici anni prima di vedersi riconosciuta giustizia, prima di veder finire in carcere i farabutti che l’hanno violenta. Questa è la brutta storia, all’interno di questa storia orribile.