Talebani, il potere afghano che gli Usa non riescono a sconfiggere
28 Agosto 2017
Nell’annunciare la nuova strategia per l’Afghanistan, Donald Trump e il suo Segretario di Stato Rex Tillerson hanno fatto capire che, per la risoluzione del conflitto nel Paese, potranno essere previste misure eccezionali per provare a porre fine ad una guerra che dura ormai da sedici anni. Tra queste, la possibilità di riunire attorno ad un tavolo anche quegli attori che hanno da sempre rappresentato uno dei nemici per eccellenza degli Stati Uniti: i talebani.
L’origine del movimento talebano è ascritta alle dinamiche della Guerra Fredda tra Stati Uniti e Russia. Con l’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979, arrivò puntuale la reazione americana, nel giro di due settimane dalla mossa dei russi. L’Amministrazione di Ronald Reagan portò avanti una politica iniziale di sostegno alle forze armate locali e ai mujahidin, inizialmente solo in termini monetari, inviando risorse sul territorio, senza tuttavia permettere che venisse esportato materiale bellico made in Usa.
La strategia di Reagan e della CIA cambiò negli anni successivi. Non più intenzionati solamente a contrastare le armate rosse, ma con la volontà di allontanarle definitivamente dal territorio, gli Stati Uniti si risolsero infine per far terminare l’embargo di strumenti da guerra in Afghanistan e acconsentirono alla vendita di missili Stinger da destinare alle forze talebane. In questo contesto, fu la CIA a farsi carico delle operazioni di export di fondi e armamenti, mentre fu compito dell’ISI – Inter-Service Intelligence – pakistano la distribuzione degli stessi alle forze armate del territorio.
Le analisi relative agli anni che portarono alla nascita del movimento talebano si sono spesso soffermate sul ruolo determinante che ebbero gli Usa nella formazione di quel movimento, che li avrebbe poi così aspramente combattuti. Se da un lato è vero che i talebani abbiano accresciuto la loro influenza proprio grazie allo scontro macropolitico della Guerra Fredda, il vero e proprio movimento dei mujahidin originario esisteva ben prima dell’interesse in Afghanistan di Russia e Stati Uniti. I primi talebani erano i ‘cercatori di conoscenza’, studiosi e traduttori delle sacre scritture islamiche e persecutori di un modello di Stato che si adattasse alla Sharia, la legge di Allah.
Il movimento dei mujahidin, così come era stato prontamente sfruttato dal Governo americano in chiave antisovietica, rimase orfano della protezione Usa già ad un anno dal ritiro delle truppe russe. Se nel 1991 gli Stati Uniti stanziarono una somma di 250 milioni di dollari per lo sforzo bellico nel Paese, l’Amministrazione Bush, nell’anno successivo, decise che era il momento di disinteressarsi della questione afgana. È questo il punto che molti analisti americani indicano come l’errore più grande nella gestione politica del Paese. L’abbandono repentino di quei gruppi locali che gli Usa avevano contribuito ad armare, determinò l’influenza, su quegli stessi gruppi, di altri finanziatori e degli ambienti dell’ISI pakistano.
Ben presto, l’accresciuta consapevolezza e convinzione del movimento talebano portò i capi mujahidin a consolidare una forza armata e politica che avrebbe preso le redini del Paese negli anni successivi.
La storia dei talebani in Afghanistan si lega indissolubilmente con altre due realtà attinenti al mondo islamico. Il geograficamente e culturalmente vicino Pakistan, che, fin dagli albori dell’ascesa talebana ha sempre rappresentato un porto sicuro per i combattenti provenienti dall’Afghanistan, in cerca di rifugio o milizie, e al Qaeda, l’organizzazione terroristica che, ai tempi in cui era capeggiata da Osama Bin Laden, trovò nel territorio afgano e nell’appoggio talebano due validi pilastri su cui costruire il proprio potere.
Per quanto riguarda il rapporto fra al Qaeda e talebani, fu proprio negli anni di Bin Laden che divenne chiaro il supporto reciproco fra le due organizzazioni. Espulso dal Sudan, Bin Laden trovò l’appoggio di uno dei capi spirituali talebani, il mullah Mohammed Omar, che ne favorì il rifugio in territorio afgano, nonostante il suo stato di ricercato internazionale. Bin Laden, di contro, offrì ai talebani le competenze militari della sua organizzazione e supporto armato.
Dall’altra parte, il ruolo del Pakistan in relazione al movimento talebano, come abbiamo già visto, è stato cruciale fin dalle sue origini. Negli anni, così come fanno tutt’oggi, gli Stati Uniti hanno lamentato il ruolo chiave del Pakistan nel dare rifugio ai gruppi terroristici provenienti dall’Afghanistan. Una Commissione americana che indagava sugli avvenimenti dell’11 settembre, aveva rilevato il ruolo chiave avuto dall’ISI nel permettere a Bin Laden di fare ritorno in Afghanistan. La coincidenza di intenti e l’affinità religiosa fra le due realtà ha portato alla nascita del movimento dei talebani anche in Pakistan, un’organizzazione che si è oggi espansa a macchia di leopardo e si è fortemente radicata nel territorio. Lo stesso Mullah Omar, ricercato dagli Stati Uniti in seguito alle operazioni militari in Afghanistan, trovò riparo, come dicono fonti Usa, in territorio pakistano, sotto la tutela dell’ISI.
A seguito dell’intervento degli Stati Uniti in Afghanistan dopo l’11 settembre, il potere talebano si è progressivamente disgregato, almeno nei primi anni successivi all’arrivo delle truppe Usa. L’azione massiccia messa in atto dall’esercito americano portò, al 2002, alla riconquista di numerosi centri prima in mano alle forze talebane, e alla consegna di questi territori all’Alleanza del Nord, spingendo le resistenze talebane nel sud del Paese.
Tuttavia, la mancata risoluzione del malessere, l’abbandono della popolazione ad espropri e soprusi dei signori della guerra, il costante utilizzo di bombardamenti e raid, latori della morte di migliaia di civili afgani, hanno reso possibile un ritorno del potere talebano nel Paese. Le forze del movimento, prima viste soprattutto per il loro aspetto più violento e radicalizzato, sono riuscite a riguadagnare consenso in chiave anti straniera e anti occidentale, portando avanti i valori dell’Islam insieme a sentimenti nazionalisti, incentrati sul rifiuto dell’intervento occidentale. Un concetto ribadito proprio in questi giorni dal movimento talebano stesso, in risposta alla volontà di Trump di riprendere lo sforzo militare nel Paese.
Qual è la situazione dell’Afghanistan di oggi? Il panorama politico rimane ancora confuso. Sebbene siano stati fatti progressi lenti in campo economico e siano state smantellate le cellule del terrorismo legate all’11 settembre, la situazione politica e sociale rimane ancora parecchio fragile. L’esercito afgano non è ancora in grado di contrastare ed eliminare definitivamente la presenza dei gruppi talebani nelle aree rurali, e l’influenza talebana, ancora oggi, raggiunge circa il 40 per cento del territorio.
Secondo un rapporto del SIGAR (Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction), il controllo dei talebani sul territorio è infatti ancora largamente diffuso. La provincia di Kunduz rimane quella più interessata dalle forze talebane, con un totale di cinque distretti su sette sotto il loro controllo, seguita dalle provincie di Uruzgan (quattro distretti su sei) e Helmand (nove su quattordici). Nei rapporti militari relativi all’Afghanistan non si parla solo di controllo diretto dei territori, ma anche di aree di influenza. Considerando proprio queste seconde, la percentuale di territorio su cui agiscono attivamente le forze talebane si alza ulteriormente, ponendo circa il 67 per cento delle aree rurali del Paese sotto la loro sfera di potere.
Quello che si prospetta all’orizzonte per l’America di Trump è una sfida che potrà essere affrontata in modi diversi. Secondo un’analisi del CEIP – Carnegie Endowment for International Peace – gli Usa potranno cercare di ridurre la presenza talebana seguendo due direttive. La prima riguarda la mediazione con il Pakistan. La resistenza dei gruppi islamici nel Paese è infatti attribuita, da certi ambienti, al sostegno logistico e militare proveniente da Islamabad. In quest’ottica, una possibile risoluzione del conflitto afgano potrebbe prendere piede attraverso la richiesta di una collaborazione con il Pakistan, in modo da eliminare un fattore determinante di sostegno al potere talebano. La convinzione degli Usa sarebbe quella che, senza un appoggio così significativo come quello offerto dal Paese vicino, il movimento talebano andrebbe incontro ad una sua naturale dissoluzione.
L’altra soluzione, come si diceva all’inizio e paventata dallo stesso Tillerson, sarebbe quella di cercare un dialogo con le fazioni talebane più inclini alla mediazione, ed inserire loro rappresentanze all’interno delle istituzioni del Paese, in un progetto di progressiva pacificazione dell’area. Una mossa che, nonostante gli anni di lotta violenta fra esercito americano e talebani, potrebbe essere tuttavia percorribile. Questo anche considerando il fatto che i talebani non rientrano nella blacklist statunitense dei gruppi del terrore verso i quali gli Usa precludono ogni possibilità di dialogo. La forza talebana viene indicata come un movimento di insurrezione popolare, ponendola in una categoria politica con cui è possibile arrivare ad un accordo. Una strada non ancora percorsa, ma che, considerando anche la dura reazione del movimento talebano alla nuova politica estera di Trump sull’Afghanistan, getta forti dubbi sulla possibilità di un compromesso che possa avvicinare gli interessi degli uni e degli altri e riportare il Paese fuori da una lunghissima e dissanguante guerra civile.