Flussi al contrario: un dramma più complesso di quello che pensiamo
Mario Giro 26/02/2018 |
A dimostrazione che i flussi migratori sono più complessi di quello che pensiamo, con buona pace dei presunti “pull factors” (fattori di attrazione) che tanto fanno discutere i nostri media e politici, c’è la recente vicenda delle migliaia di sudanesi fuggiti verso il Niger dalla Libia.
Avete letto bene: dalla Libia in Niger, il percorso inverso a quello di cui siamo soliti discutere.
Si tratta di sudanesi del Darfur, regione occidentale del Sudan, dove una guerra strisciante continua dal 2003: 15 anni di conflitto a fasi alterne, che ha provocato dai 200.000 ai 400.000 morti e due milioni di rifugiati. Del Darfur si parlò molto dieci anni fa circa: rammentate George Clooney e la sua campagna #SaveDarfur? Al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite si propose anche un’inchiesta per genocidio. Oggi è uno dei conflitti dimenticati ma le ferite restano… e i rifugiati anche.
Dopo aver passato anni nei campi profughi in Sudan, a ogni ripresa dei combattimenti hanno cercato rifugio in Libia. Ma oggi anche per loro la Libia è diventata un inferno e si rivolgono verso il Niger, facendo il cammino contrario di molti sub-sahariani.
Unico tra i grandi media europei a parlarne è stato il quotidiano belga Le Soir, con un titolo indicativo: “A Agadez un inspiegabile afflusso di sudanesi”. Inspiegabile, ovviamente, per chi non segue gli eventi di quelle lontane contrade. Dopo che dal 2003 i loro villaggi sono stati bruciati e rasi al suolo dalla milizia Janjawid, per dieci anni gli sfollati sono rimasti nei campi, aiutati dalle Ong e dall’Onu.
Una vita grama ma almeno erano nel loro paese con la speranza che la pace definitiva permettesse di rientrare e ricostruire. La pace non è mai giunta, anzi: nel 2013 il governo sudanese ha cacciato le Ong e anche il cibo è iniziato a mancare. Unica residua speranza: attraversare la frontiera con la Libia. Ma nel caos libico è difficile vivere e dopo pochi anni sono di nuovo costretti a riprendere il cammino, questa volta verso il Niger dove almeno possono trovare l’Unhcr e le Ong (anche italiane).
Il 60% dei sudanesi che giunge in Niger proviene dalla Libia e dalla fine del 2017 il flusso sta aumentando. Un bel grattacapo per il governo nigerino, già alle prese con i candidati alla migrazione in provenienza dall’Africa occidentale.
Questa è una delle tante storie di profughi e rifugiati, spesso non riconosciuti come tali, di cui il pianeta è pieno. Sono milioni. Se la guerra non finisce non c’è salvezza per loro. Per chi è in fuga non basta che il conflitto sia a bassa intensità, tanto da non finire più sulle prime pagine dei media.
Le zone grigie di “né pace né guerra” sono numerose e rappresentano una morsa micidiale per i civili. Il fatto che non ci sia più guerra aperta accontenta spesso la comunità internazionale, che passa ad altro dossier. Non ci si dà il tempo e i mezzi di giungere alla pace reale. Ma la mancanza di una vera pace impedisce di ricostruire, coltivare, produrre.
Insomma: si crea una delle tante aree ambigue in cui proliferano i traffici ma non rinasce mai una effettiva economia, sia pure approssimativa. Si tratta del grave problema dei campi di rifugiati che diventano permanenti in zone a rischio: vivono dell’aiuto internazionale e non riescono a ottenere nessuna possibilità di rendersi autonomi.
Di conseguenza diventano invisi alla popolazione locale attorno, povera anch’essa ma senza aiuti. E spesso anche rappresentano un peso per i governi che li accolgono. Prendiamo il caso più celebre e spropositato: i campi di Dadaab in Kenya.
Si stima che circa 600.000 somali vi siano ospitati dal 1992, anno di inizio del conflitto. Tutti vivono di aiuti internazionali. Attorno vi è una regione povera del paese, quella che fu colpita dalla carestia del 2011. Tra l’altro le infiltrazioni degli Shabab sono all’ordine del giorno e si pensa che il gruppo che fece la strage degli studenti di Garissa, a poche decine di chilometri, sia venuto da uno dei campi.
Il Kenya vorrebbe chiuderli ma non riesce: dove mandarli? L’assenza di pace in Somalia blocca ogni possibile soluzione. Qualcuno dice: “smettiamo di foraggiare questi profughi ormai abituati all’assistenza”. Ma si teme anche la loro dispersione in altre aree del paese e della regione: chi controllerebbe una simile massa che si mette in movimento? Meglio quindi tenerli tutti in un posto. Insomma un enigma irrisolvibile… finché la pace non permetterà la ricostruzione della Somalia, tutt’ora divisa tra varie fazioni.
Un altro esempio riguarda i siriani. La Turchia, con oltre due milioni e mezzo di rifugiati siriani in casa, sta scegliendo la strada della naturalizzazione. A moltissimi siriani viene offerta la cittadinanza turca in modo da non creare sacche di rifugiati perenni. Si dice che Ankara abbia un interesse a farlo: diluire i kurdi, maggioritari proprio nelle zone dove sono giunti i siriani. Tuttavia per decine di migliaia di siriani si apre così una porta sul futuro, visto che la pace nel loro paese è ancora lontana. Altri paesi hanno fatto così.
Il nostro mondo, e l’Africa in particolare, si sta confrontando con un vero dramma sempre più acuto: milioni di persone che vivono come “sospese” tra pace e guerre, senza la possibilità di costruirsi un avvenire.
Ufficialmente si calcola che 65 milioni siano in questa situazione: senza terra, senza possibilità di rifarsi una vita, spesso senza documenti, senza cittadinanza, ecc. I paesi che ne “producono” di più sono Siria, Somalia, Afghanistan. Ma ci sono anche antiche storie di profughi, come i palestinesi, più recenti come l’ex Jugoslavia o recentissime come le decine di migliaia di venezuelani che scappano in Colombia (paese che ha già la sua parte di sfollati interni).
Tutti hanno un punto in comune: crisi che si perpetuano, guerre che non finiscono mai. Ogni anno sorgono nuovi casi. Ora è la volta dei Rohingya: dove andranno? Molti, come i darfuriani che entrano in Niger, cercano da soli una via di speranza ma la gran massa è rinchiusa nella trappola dei campi senza futuro.
La lezione è una sola: non basta congelare un conflitto, occorre risolverlo. Che si smetta di combattere è una buona cosa: meglio una tregua prolungata che bombardamenti e morte. Ma poi è necessario che l’attenzione della comunità internazionale non desista né si stanchi: occorrono ragionevoli soluzioni politiche per permettere alla gente di tornare a vivere. Tra l’altro si strappano così ai poteri oscuri della mala globalizzazione territori per fare i loro traffici, che siano di uomini o di altro genere.