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Politiche e non semplici promesse per ridurre le disuguaglianze in Italia

Gianfranco Polillo 27/02/2018
La lotta alle diseguaglianze è stato uno dei temi caldi di questa campagna elettorale.

Salario di cittadinanza, salario d’inclusione, salario di dignità: la declinazione variegata di uno stesso tema, visto da “destra”, dal “centro” o da “sinistra”. La risposta, più o meno indovinata, a un problema reale, che nasce dai mutamenti intervenuti nell’evoluzione dell’economia. Movimenti che, a differenza del passato, tendono a “escludere” piuttosto che a “includere”, essendosi trasformato l’orizzonte di riferimento: non più il singolo Stato nazionale, ma l’intero pianeta.

Il rischio di esclusione come paradigma della modernità. Se guardiamo all’Europa, l’aspetto più inquietante è dato proprio dall’interrompersi di quel “processo di convergenza” che è stato il fondamento del progetto europeo. E la sua più forte giustificazione sul piano politico. Anche in questo mondo più vasto il rischio della progressiva emarginazione dei paesi più deboli – e l’Italia è tra questi – risulta evidente.
Fenomeni di questa portata sono una conseguenza diretta dei continui processi di riconversione che caratterizzano l’economia mondiale. Fino a qualche anno fa sembrava che i Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa), fossero il nuovo Polo del suo sviluppo. Oggi la crisi di alcuni paesi, che componevano quel gruppo di testa – da Brasile al Sud Africa – ne hanno fortemente ridimensionato le aspettative, rimettendo al centro delle analisi le old economie: dagli Usa all’Eurozona.
L’effetto di questi megatrend sugli equilibri sociali interni di ciascun paese non si sono fatti attendere. I winner – i vincenti della globalizzazione – da un lato; i looser – i perdenti – dall’altro. Nuove categorie sociali che punteggiano le realtà di tutti i paesi: dall’America che elegge Donald Trump; ai “sovranisti” europei, in lotta per “first ourself”.
Al di là delle suggestioni puramente ideologiche, il problema del “che fare?” per limitare i danni della tendenza all’esclusione, implicita nelle dinamiche della modernità, resta in tutta la sua portata. Anche se – data la genesi del fenomeno e il suo carattere sostanzialmente esogeno – non esiste una soluzione univoca. Che possa essere applicata ovunque e comunque.
Da questo punto di vista, la situazione italiana presenta alcune specifiche caratteristiche. Non si può certo dire che le spese per la previdenza e l’assistenza siano diminuite. Al contrario, se si ha come riferimento il quadro di finanza pubblica, a livello dell’Eurozona, è facile vedere come l’impegno profuso sia stato particolarmente consistente.
Secondo gli elaborati della Banca d’Italia, le spese di questo comparto sono aumentate dal 16,4 (2007) al 20,1 per cento del Pil (2016). Nel resto dell’Eurozona dal 14,8 al 16,4. Le relative distanze sono ulteriormente cresciute: da quasi 1 punto di differenza, nei primi anni della nascita dell’euro; ai quasi 4 del 2016. È vero che, a causa dell’opacità contabile che ne caratterizza la gestione, non si riesce a capire il “quantum” effettivo della spesa per l’assistenza, ma le distanze rimangono rilevanti.
Possono ulteriormente aumentare, grazie all’attuazione delle misure proposte in campagna elettorale dai vari partiti e movimenti? Qualche dubbio è più che legittimo, anche al di là del problema, tutt’altro che secondario, relativo alle necessarie coperture finanziarie. Che si debba procedere in qualche modo a una profonda riforma del welfare è indubbio. Ma in una direzione forse inversa a quella auspicata da molti. Nel segno di una maggiore selezione degli interventi: non a “tutti”, ma solo a favore di coloro che ne hanno effettivamente bisogno.
Per il resto una politica effettiva contro gli esclusi, almeno in Italia, è strettamente intrecciata a una prospettiva di crescita e di sviluppo. È questa la strada maestra per ridurre l’esercito di riserva dei disoccupati, la cui elevata dimensione determina l’alterazione di tutte le altre componenti del quadro macroeconomico. Ristagno dei consumi, crisi delle aziende che producono per il mercato interno, eccesso di surplus della bilancia commerciale.
Purtroppo questi temi sono stati trascurati nel corso della campagna elettorale. A dimostrazione di un notevole decadimento culturale del quadro politico. Ma riemergeranno prepotentemente all’indomani del 4 marzo. Quando si scoprirà che molte delle proposte avanzate e poco meditate si dimostreranno insostenibili, sia sul terreno economico – finanziario. Sia su quello politico.