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Il Tibet e la sofferenza dimenticata dai media e dall’opinione pubblica internazionale

FRANCESCO TORTORA 11 SETTEMBRE 2018
Come altre zone del Mondo che sono in stato di oppressione e dolore, vive la sua spoliazione culturale per mano cinese relegato nel dimenticatoio. Ne parliamo con Claudio Cardelli, Presidente dell’Associazione Italia-Tibet.

Il Tibet oggi sembra essere relegato sullo sfondo rispetto alle zone del Mondo in piena luce nel mainstream mass-mediatico, come se fosse fuoriuscito dal radar dell’attenzione dei produttori di informazione. In realtà, si tratta di un dramma che si sviluppa nel silenzio, un dramma fatto di figure carismatiche che vivono esuli all’estero, di una popolazione depredata dei propri simboli e della propria cultura, di una Nazione che è stata variamente spogliata di tutto, principalmente della sua identità. Perché questo accada è facile immaginarlo, visto che il principale protagonista di tutta questa operazione mistificatoria -e di vera e propria occupazione colonialista- è il grande colosso cinese. Un partner commerciale troppo importante per irritarlo con prese di posizione pro-Tibet. Oltretutto, parecchio sensibile al tema, nella attuale era del Presidente Xi Jinping. Ne parliamo con Claudio Cardelli, da svariati mandati Presidente della Associazione Italia-Tibet e profondo conoscitore delle tematiche che riguardano il Tibet.
Il Tibet oggi soffre un pugno duro da parte della Cina non solo in termini di presidio del territorio tibetano considerato alla stregua di Provincia cinese ma anche in termini di manipolazione della cultura tibetana in ogni suo aspetto, persino facilitando l’etnia Han a discapito della popolazione tibetana in ogni elemento della vita sociale. Dal suo punto di vista, ben informato e aggiornato, può dirci qual è lo stato delle cose in Tibet oggi?
Partiamo con la cronaca recentissima. Wang Yang, il 4° ufficiale del Partito Comunista, nel suo intervento durante la visita a Lhasa, ha sottolineato l’importanza di uno stretto controllo sulle istituzioni buddhiste del Tibet, sollecitando “preparazione e precauzioni per il pericolo in tempi di sicurezza”. Le figure religiose, egli ha detto, devono «essere coraggiosi combattenti di tutti gli elementi separatisti, affinché venga preservata l’unità nazionale e la stabilità sociale». Linguaggio inequivocabile. Dunque, un ennesimo giro di vite. Che francamente lascia interdetti. Ancora? I cinesi hanno da poco distrutto oltre la metà degli edifici della grande accademia buddhista di Larung Gar e cacciato migliaia di monaci. Le scene delle evacuazioni sono strazianti. Sul Tibet la Cina non cede di un millimetro. E’ il suo nervo scoperto ed è in atto a livello planetario un’implacabile opera di isolamento del Dalai Lama che Pechino considera un pericoloso separatista e di limitazione di ogni iniziativa volta a metter in luce la “questione tibetana”. Abbiamo assistito attoniti all’implacabile e sconvolgente ripetersi di autoimmolazioni in Tibet. Ora sembra sia in atto un rallentamento del fenomeno. E’ facile capire che le contromisure messe in atto da Pechino, dopo avere banalmente munito la polizia di estintori, stanno ottenendo adesso dei risultati.
Nel caso di autoimmolazione le prime persone che subiranno le conseguenze, pesanti, del gesto di protesta saranno i familiari del martire. Un deterrente molto efficace. Inoltre, si è dovuto amaramente constatare che questi eroi non hanno “bucato” i media. Non è concepibile che 160 persone, martiri, si brucino vive per denunciare la situazione del Tibet nella totale indifferenza del mondo. La Cina ha messo in piedi, con ogni mezzo, una cortina di omertoso silenzio e le sue minacce e i suoi ricatti, ovunque si sappia di una iniziativa a favore del Tibet, in primis una visita del Dalai Lama, stanno ottenendo risultati concreti. Devo, in questo clima surreale, pubblicamente esprimere il mio apprezzamento per le città italiane di Fano, Cattolica, Ravenna, che hanno deciso di conferire al Dalai Lama la cittadinanza onoraria e Urbino la massima onorificenza dell’Università. E dunque, la psicosi ‘non si può irritare la Cina’ è ormai collettiva. Nelle redazioni dei giornali, delle TV, nelle associazioni di commercianti, industriali, nelle aule dei Parlamenti. La situazione in Tibet rimane gravissima, i tibetani ogni giorno, lottano per conservare la propria identità e la propria dignità contro la repressione e la violenza senza fine del regime coloniale cinese. Poche settimane fa l’attivista per la sopravvivenza della lingua tibetana nelle scuole Tsering Wangchuk è stato condannato definitivamente a 5 anni di carcere. Sotto l’egida dello ‘sviluppo’, le notizie che ci giungono dall’interno del Tibet raccontano storie di distruzione dell’ambiente naturale, di soppressione della lingua e della cultura tibetana, d’imposizione di modelli sociali alieni, di discriminazione e arresti arbitrari, di torture e condanne a morte senza processi. Mentre la macchina della conquista coloniale avanza senza esitazioni oliata dal silenzio del mondo e delle infrastrutture che Pechino mette in piedi per favorire il flusso di coloni e il reflusso di materia prime. Ferrovia Lanzhou-Shigatse in primis, 2.400 Km che la Cina vuole a tutti i costi far passare anche sotto la catena himalayana per arrivare a Kathmandu. Purtroppo la miope politica indiana nei confronti del Nepal, ricordo il demenziale embargo dei carburanti contro il Nepal nel 2015, ha spalancato un varco gigantesco a Pechino che -dopo gli aiuti generosi post terremoto- ora spadroneggia nella valle di Kathmandu dove le insegne con ideogrammi cinesi crescono come funghi. Mi viene da sorridere quando leggo che la Cina non ha velleità di conquista di altri Paesi. Quando la ferrovia da Shigaste arriverà a Kathmandu i giochi saranno fatti. Altro Paese in bilico è il Bhutan. Ma non c’è spazio per approfondire.
Il Tibet -anche grazie alla massima autorità buddhista il Dalai Lama- ha cercato appoggi e sostegno nella comunità internazionale, dall’ONU alle singole ONG. La risposta -compresa l’Unione Europea- è stata finora afasica o silente. E’ anche questo effetto della pressione cinese (causa interessi in essere da parte di tutti a livello globale)? Quali altre strade sta tentando il Tibet per trovare risposta alle proprie aspirazioni?
Recentemente il membro del Parlamento Europeo Thomas Mann, uno storico sostenitore della causa tibetana, in occasione dell’inaugurazione della mostra ‘Out of Tibet’ di Valentina d’Urso, esposta a Bruxelles, ha chiesto pubblicamente a Xi Jinping di «rispettare i diritti delle minoranze». In questo episodio e nella richiesta di Mann si vede la realtà del Tibet di oggi. Dopo il 1989, anno del Premio Nobel al Dalai Lama, in tutto il Mondo si era levato un vento di speranza per il Tibet. Manifestazioni con migliaia di persone hanno avuto luogo a Bruxelles, Parigi, Londra, Ginevra, NYC, Delhi, ovviamente. Al Parlamento Europeo c’erano centinaia di membri che avevano fatto nascere un ‘Gruppo Interparlamentare per il Tibet’ attivo e agguerrito. Dopo il 2008, anno delle Olimpiadi di Pechino, è iniziata una controffensiva cinese su tutti i fronti. Mediatico, economico, culturale. Spaventosa. E si sono spaventati anche a Dharamsala quelli del Governo Tibetano in Esilio (oggi CTA – Central Tibetan Admininistration) che hanno fatto diventare anche la pur conciliante “Via di Mezzo” (richiesta di una genuina autonomia per il Tibet e rinuncia alla rivendicazione d’indipendenza) sempre più timida e remissiva; e comunque rigettata con sdegno da Pechino in qualunque occasione. In questo scenario l’ammissione di Mann di considerare il Tibet e i tibetani una ‘minoranza’ e di chiedere, senza soverchie speranze, ‘semplicemente’ di rispettarne i diritti, è un paradigma di come la lotta per la causa tibetana stia vivendo un momento di grande difficoltà.
Dal punto di vista geostrategico prima ancora che geopolitico il Tibet è importante per la Cina anche nel confronto con l’altro colosso asiatico competitor ovvero l’India. Il Tibet non potrebbe invocare maggior spessore propositivo da parte indiana?
Anche qui abbiamo conosciuto momenti molto diversi. Dall’insediamento del nuovo Governo a guida BJP di Narendra Modi, si è passati da una prima ottimistica prospettiva ad un -per ora-moderato pessimismo. Vediamo perché.
L’India è stata una grande sorella per il Tibet e i tibetani rifugiati nei vari insediamenti sparsi in varie aree del Paese. I più numerosi e concentrati, nel Karnataka, i più frazionati e disseminati, nelle aree himalayane. I tibetani si sono sentiti protetti, benvoluti e accettati e le antichissime relazioni culturali e spirituali con l’India, ben più strette di quelle con la Cina, hanno fatto sentire il loro peso nel modo di gestirei rapporti con questi nuovi e in un certo senso scomodi ospiti. Poi qualcosa, a livello governativo, si è rotto. E guarda caso, proprio dopo le visite ufficiali di Modi a Pechino e di Xi Jinping a Nuova Delhi.
Pochi mesi prima, dopo le annose tensioni di confine himalayane tra India e Cina e Bhutan e Cina, il Dalai Lama era stato ricevuto nell’Arunachal Pradesh https://it.wikipedia.org/wiki/Arunachal_Pradesh, che Pechino considera suo territorio, sfidando le ire e le pressioni cinesi su Delhi. Il Governatore dello Stato himalayano se n’era addirittura uscito con una frase “noi confiniamo col Tibet e non con la Cina” che aveva suscitato l’entusiasmo dei numerosissimi amici del Tibet in India e dei tibetani stessi. Poi, la doccia gelata sull’entusiastica iniziativa dei tibetani di organizzare a Delhi un evento “Thank You India”. Il Segretario di Gabinetto PK Sinha ha emesso una nota circolare interna a tutti i Ministeri/Dipartimenti del Governo indiano e ai Governi statali di non accettare alcun invito o di partecipare agli eventi commemorativi proposti dal CTA, citando “tensioni nelle relazioni con la Cina”. Un noto esperto cinese ha definito la mossa come una “correzione di rotta” per quanto riguarda la stabilizzazione dei rapporti con la Cina. La CTA ha spostato l’evento a Dharamsala deglutendo amaro ma salvando il salvabile. Presenti un paio di ministri e un alto esponente del BJP. Ricordo comunque che già nel 1998 uno sciopero della fame dei tibetani organizzato al Jantar Mantar di Delhi fu interrotto brutalmente dalla Polizia indiana per l’imminente visita di un generale cinese nella Capitale indiana. Uno degli scioperanti, Thubten Ngodup, si diede fuoco e morì. Era il primo di quei 160 tibetani che negli anni successivi scelsero questa drammatica e dolorosa forma di protesta per ricordare al mondo la sofferenza del Tibet. Ed è per questo che noi assieme ai tibetani seguiremo fino all’ultimo il motto del Dalai Lama ‘Never give up!”.