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“Ho trascorso intere notti nei reparti di rianimazione” La vie nue, del fotografo Antoine d’Agata

Alice Leroy 09/07/2020
Il fotografo Antoine d’Agata ha realizzato, durante il lockdown, due serie di fotografie fatte con una telecamera termica, una in strada, l’altra all’ospedale. Di una tecnologia di sorveglianza e di riconoscimento, concepita per fini scientifici e militari, il fotografo fa un uso opposto: grazie alle radiazioni infrarosse emesse dal corpo, la macchina non cerca di localizzare o identificare le persone, ma, al contrario, di sottrarle e di proteggere la loro identità.

Tradotto da Silvana Fioresi
All’inizio non si vede quasi niente. Dietro uno sfondo bluastro delle macchie incandescenti illuminano il centro dell’immagine. Dopo un po’ si distingue una figura inginocchiata, il busto e la testa girate verso una forma iridescente e indeterminata, come una specie di sole schiacciato contro sé stesso. Osservando con la massima attenzione si vedono subitamente emergere delle forme riconoscibili: tra queste luci e ombre si intravedono le pieghe di un vestito, forse un camice, che copre interamente il corpo della figura inginocchiata. La testa è ricoperta da una specie di turbante, o forse una cuffia, che copre i capelli. Dal camice appare una mano, tesa verso un disco luminoso che tocca con dolcezza, come in una carezza. Questo disco luminoso è un viso su cui tutti i tratti sono cancellati, come ingoiati dalla luce. Intorno al viso, dei toni più scuri disegnano la capigliatura, la spalla e il resto del corpo coperto da un lenzuolo.
Sembrerebbe una scena religiosa, una figura devota inginocchiata al capezzale di un morto. Eppure non siamo né in chiesa, né in un museo, ma in un ospedale. Questi corpi non sono di pietra, ma di carne e ossa, ed è per questo che appaiono con l’aureola di luce nella notte delle immagini termiche. Questa foto è stata scattata in una sala di rianimazione nel pieno della crisi del Covid-19 in Francia. Appartiene a una doppia serie di foto realizzate dal fotografo Antoine d’Agata durante le otto settimane di lockdown del paese [1], lungo le strade deserte della capitale e nel cuore degli ospedali, che in autunno sarà oggetto di una esposizione alla fondazione Brownstone [2] e di una pubblicazione da parte delle edizioni Studio Vortex [3].
Si è spesso descritta l’opera di Agata come vicina a Rimbaud o a Bataille, oppure paragonato le sue immagini mosse ai dipinti di Bacon o alle visioni di Artaud. In questa serie prodotte con fotocamera termica non si trova alcuna violenza compulsiva né romanticismo nero, ma la sensualità dolce di un gesto attento verso gli altri. Da una tecnologia nata per la sorveglianza e di riconoscimento, concepita per fini scientifici e militari, il fotografo fa un uso opposto: grazie alle radiazioni infrarosse emesse dal corpo, la macchina non cerca di localizzare o di identificare le persone, ma, al contrario, di sottrarle dal contesto ospedaliero e di proteggere la loro identità. «Questo non è un campo di battaglia e non siamo in guerra» dicono le immagini di d’Agata ; in questo teatro di operazioni, l’ospedale, i soli gesti realizzati sono quelli che riconoscono la vulnerabilità dei corpi e che si prendono cura della vita. Un giorno, quando ripenseremo a questi gesti dimenticati, scomparsi con la venuta di un’era digitale che vive in parallelo e in paradosso rispetto al divieto di contatti fisici, queste immagini di d’Agata diventeranno un atlante sensuale di gesti di attenzione e di cura. AL
Dove si trovava quando è iniziato il lockdown?
A Parigi. Dovevo partire per il Messico, dove già da qualche tempo conduco un progetto con dei detenuti, ma è rimasto tutto in sospeso con il confinamento. Rapidamente ho deciso di rimanere a Parigi e mi sono installato negli uffici deserti dell’Agenzia Magnum, con la quale lavoro. Ho vissuto in questo spazio due mesi, uscivo solo al mattino presto o alla sera per andare errando per la città abbadonata. Non volevo fotografare le strade vuote, ma i corpi, che sono sempre stati al centro del mio lavoro. Ho osservato la nuova geografia sociale della città: i passanti inquieti e sfuggenti, la distanza tra i corpi, la solitudine di coloro che non avevano un posto dove rifugiarsi. E, presto, mi sono interessato solo a loro, ai margini della società, ai senza tetto, ai junkies, alle prostitute, a coloro che continuavano ad abitare in strada, nonostante tutto. Col passare dei giorni ho visto il loro comportamento cambiare, diventare più aggressivo, ho visto anche indurirsi la loro repressione. Tutto il mercato del crack si è spostato fino alla Gare du Nord, la città è diventata più violenta, nonostante che i media non ne parlassero. In parallelo ho cominciato a recarmi negli ospedali e nei pronto soccorsi del Covid per ordine della stampa. Ho innanzitutto svolto in questi luoghi un lavoro documentario, realizzando ritratti di diversi tipi di autorità: soprattutto di medici e di poliziotti. Ho anche fotografato col flash alcuni servizi di rianimazione a Marsiglia e a Parigi per il New York Times. Ho sperimentato diverse tecniche per vedere a modo mio quello che si svolgeva in questi spazi, e così, in poco tempo, sono arrivato all’utilizzo dell’apparecchio termico.
Non è la prima volta che Lei ha utilizzato questa tecnica…
No, l’ho sperimentata per la prima volta nel 2015, dopo gli attentati di Parigi. Mi interessavo a quel tempo ai riti religiosi, a tutta la gestualità paradossale della fede, e ho fotografato una dozzina di luoghi di culto, di moschee, di chiese, di templi. All’epoca avevo un apparecchio termico di base, che faceva delle immagini molto povere, ma corrispondeva esattamente a quello che cercavo: mi piace, in queste immagini termografiche, la dissoluzione dei dettagli e la scomparsa del contesto, che ne fanno quasi delle astrazioni. Poi, visto che sono un miscredente, ho sentito il bisogno di trovare un antidoto alla religione, e, piuttosto naturalmente, ho fotografato lo “sballo” secondo lo stesso procedimento. Ho quindi cercato di far emergere l’essenza di questi «rituali narcotici », eliminando la dimensione documentaria, aneddoto dell’immagine che capta solo la violenza, la tensione e il collasso dei corpi. Queste due serie sono state pubblicate nel mio libro Acéphale nel 2018. Nel 2019 sono partito in Israele. Ho comprato un apparecchio un po’ più sofisticato. Arrivato a Gaza, questa coesistenza allucinante e iper-violenta dei tre monoteismi mi ha portato a riprendere la mia fotocamera termica. In queste immagini di aura luminosa è presente un rapporto rispetto all’invisibile e alla ritualità che mi affascina.
Questo rapporto lo ha ritrovato nei gesti dei medici all’interno delle unità di cura intensiva durante la crisi del Covid-19?
Diciamo che ho ritrovato in quegli spazi qualcosa come un rapporto quasi liturgico con i corpi. Vedevo ovunque figure di persone sdraiate e di penitenti. E, soprattutto, la dimensione grafica dei corpi sdraiati e intubati si dissolveva in una specie di astrazione luminosa. Nell’immagine termica non c’è lo spettacolo della sofferenza del corpo, della vita resa ancora più organica e fragile dalla malattia. I corpi diventano degli spettri luminosi distaccati da uno sfondo oscuro. Per me era importante da una parte non esporre l’identità e l’intimità delle persone ricoverate, e dall’altra non spettacolarizzare l’universo ospedaliero per farne una specie di teatro della battaglia contro il virus. Volevo che si vedesse solo la dolcezza, la quasi sensualità dei gesti dei curanti. Si sono sentite spesso metafore belliche in bocca ai politici, ma mi sembra un po’ sconcertante paragonare i medici a dei soldati: nonostante fossero i più esposti, hanno fatto prova di una devozione inaudita. Quando un infermiere o un’infermiera si occupano di una persona in rianimazione, siete quasi di fronte a un mistero, tanto è presente dolcezza e gentilezza nei loro gesti.
Da questo punto di vista, tra le due serie, quella della strada e quella degli ospedali, esiste un dialogo piuttosto sconcertante, come se la violenza che ci si aspetta in questi spazi clinici fosse proporzionalmente inversa a quella delle immagini di strada.
In effetti, le due serie dialogano in modo strano : nella città deserta, la trasparenza dei corpi – di tutti i corpi, che siano o no organici – li isola ancora di più nell’astrazione insondabile che è diventata il reale. E di grandissima violenza, perché ci sono solo corpi che lottano per abitare uno spazio quasi inabitabile. I soggetti più inquietanti, secondo me, erano i senza tetto, che erano stati completamente dimenticati da questo grande programma di confinamento e che dovevano cavarsela da soli per sopravvivere. Erano gli ultimi uomini, in un mondo che aveva perso quello che rendeva comune la nostra umanità. Negli ospedali, invece, dove ci si sarebbe aspettato uno spettacolo più sordido, la fotocamera termica fa sparire non solo il contesto ospedaliero, ma anche tutte le macchine e i tubi attaccati ai letti. Si vedono solo questi gesti infinitamente attenti dei curanti mentre si relazionano ai pazienti. Non sono gesti di pietà, neppure di empatia, ma proprio gesti di cura. Ed è vero che hanno una sensualità molto forte.
Questa sensualità è ancor più paradossale essendo qui il prodotto di una tecnologia inventata dagli astronomi durante il XIX° secolo e sviluppata da militari nel secolo seguente! Ci immaginiamo più facilmente la termografia come un dispositivo di controllo e di sorveglianza, che scarna i soggetti togliendogli la loro copertura di carne e la singolarità dei loro tratti, piuttosto che una ricerca sensuale di essenze gestuali…
È vero, tuttavia le immagini termiche sono così paradossalmente di carne! Misurano la massa di calore prodotta da un corpo e la rendono quindi permeabile alla vista. Allo stesso tempo enunciano anche la porosità, la vulnerabilità dei corpi: captano la febbre dei viventi che trasformano in onde luminose. Appare come un mistero dell’incarnazione che si ritrova sulla superficie stessa delle immagini. In fondo credo che la fotografia per me non appartenga tanto a una storia di tecniche e di abilità, e neppure a una storia di belle arti o di stili, ma essa proviene da una storia di gesti, e qui intendo i gesti delle figure fotografate come anche quelli dei fotografi. L’unica verità che conta in un’immagine è quella della posizione del fotografo nella situazione che ha generato questa immagine.
Nella termografia è presente anche una povertà dell’immagine alla quale Lei è sensibile, giusto?
Perché questa povertà dell’immagine testimonia per me un impegno : negli 800 pixel di un’immagine in bassa definizione c’è una radicalità che non è tanto estetica, ma politica. Non ho mai cercato di fare delle belle immagini, ma di tradurre delle intensità, degli stati dei corpi, una notte animale dell’essere, si’. La termografia in fondo è solo una maniera per ritrovare quello che ho sperimentato altrove attraverso lo sfuocato o le immagini in movimento. È anche presente una certa astrazione nell’immagine termica che mi interessa particolarmente: rimane fedele alla realtà, pur aprendoci la strada verso un’altra esperienza della realtà, come se disfacesse il tessuto dei nostri sensi. La «povertà» di queste immagini a bassa definizione non è né una lacuna, né una rottura di stile, ma descrive semplicemente un altro livello di realtà. Non svela l’urgenza e l’orrore della pandemia come è stata dipinta su tutti gli schermi, ma piuttosto uno spazio-tempo in cui la vita e la morte si confondono.
Tuttavia, queste immagini non hanno nulla di macabro. Ma, pur restando intuitive, le Sue foto sono anche sempre molto ben costruite; qui, per esempio, invocano tutta una tradizione di pittura religiosa.
È vero, ma credo che, ancora una volta, sia questione di impegnarsi in una situazione. Le mie immagini non raccontano niente, non hanno un valore informativo, cercano semplicemente di tradurre dei gesti, degli stati intensivi, ed è forse una delle ragioni per le quali avevo bisogno qui di uno strumento che misuri il calore del corpo, al di là del simbolo un po’ evidente della febbre come sintomo e come angoscia. Per rendere visibile il mio stesso impegno nella situazione che aveva generato l’immagine, dovevo unirla a una certa tradizione pittorica. Alla fine, sulle piastre, ho visto emergere tutte queste immagini religiose, come se fossero dei rituali di attenzione e considerazione in un mondo in cui tutti i contatti erano ormai vietati. È anche per questo forse che la serie sulla strada Le sembra più violenta, perché qui non ci sono più i gesti che legano i corpi gli uni agli altri, non ci sono più «legami sociali » in senso letterario, ci sono solo corpi abbandonati alla loro solitudine.
Il Suo lavoro è stato spesso paragonato alla pittura di Bacon – che tra l’altro, anche lui, interpreta a suo modo dei quadri religiosi -, alle visioni di Artaud, o alla letteratura di Bataille, come se Lei condividesse con loro una qualche esperienza di abisso, di trasgressione, e anche di violenza. Con queste due serie termografiche si realizza un altro rapporto rispetto a questa esperienza di violenza? Oppure Lei persegue le stesse ossessioni con altri mezzi e in altri ambiti?
Credo che il mio lavoro sia ossessionato da due tipi di violenza: la violenza del mondo, quella della storia, del mercato, del governo, degli oppressori in genere, e chi, pur avendo effetti molto concreti sulle esistenze, esige una fotografia il più possibile neutra. Inoltre, c’è la violenza degli sposseduti, dei nullatenenti che subiscono in pieno questa violenza del mondo. È la violenza del sesso, della droga, del crimine. È una violenza che è anche la mia e per rendermene conto devo impegnarmi totalmente nelle situazioni che fotografo e inventare dei mezzi solo miei che posso condividere con altri. Questo è il motivo per cui ho passato delle notti intere nei servizi di rianimazione a Bordeaux e a Nancy. Era una necessità per me, che non ho mai praticato la fotografia in maniera intensiva. Ogni serie realizzata per la strada e all’ospedale conta più di 6 000 immagini. Queste 12 000 fotografie parlano del mio rapporto ossessivo con la fotografia, che ho cominciato a praticare tardi, a 37 anni, e in modo completamente intuitivo. Come Lei sa, Histoire de l’œil di Georges Bataille potrebbe descrivere abbastanza bene il mio rapporto con la fotografia: anch’io ho perso un occhio, non cornato da un toro come nel libro di Bataille ma colpito dall’arma non letale, come si dice oggi, di un poliziotto durante una rissa alla fine degli anni ’80 a Marsiglia. Ho un occhio cieco che riceve solo impulsi luminosi. Le mie immagini non ricercano una perfezione atemporale, ma incorporano, al contrario, una vertigine e una violenza verso la vita, come per renderla più voluttuosa, come per raggiungere una completezza, che assume la sua stessa tortura.
Note
[1] Alcune di queste immagini sono state pubblicate sul conto Instagram del fotografo : @antoinedagata
[2] Esposizione dal 10 al 31 ottobre 2020, Fondation Brownstone, 26 rue St Gilles, 75003 Parigi.
[3] Antoine D’Agata, Virus, Paris, Edizioni Studio Vortex, pubblicato il 29 ottobre 2020.