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Buttare giù le statue serve a elaborare la storia

Enzo Traverso 01/07/2020
I moti di iconoclastia che colpiscono le statue rappresentano la battaglia sulla memoria. Non vogliono cancellare il passato, si battono per leggerlo con lo sguardo dei vinti.

Tradotto da Giuliano Santoro
L’antirazzismo è una battaglia per la memoria. Ecco una delle caratteristiche più notevoli dell’ondata di proteste che è sorta in tutto il mondo dopo l’uccisione di George Floyd a Minneapolis. Ovunque, i movimenti antirazzisti hanno messo in discussione il passato prendendo di mira monumenti che simboleggiano l’eredità della schiavitù e del colonialismo: il generale confederato Robert E. Lee in Virginia; Theodore Roosevelt a New York City; Cristoforo Colombo in molte città degli Stati uniti; il re belga Leopoldo II a Bruxelles; il commerciante di schiavi Edward Colston a Bristol; Jean-Baptiste Colbert, ministro delle finanze di Luigi XIV e autore del famigerato Code Noir in Francia; il padre del giornalismo moderno italiano ed ex propagandista del colonialismo fascista, Indro Montanelli, e così via.
Indipendentemente dal fatto che vengano rovesciate, distrutte, dipinte o ricoperte di graffiti, queste statue rappresentano una nuova dimensione della lotta: la relazione tra diritti e memoria. Sottolineano il contrasto tra lo status dei neri e dei soggetti postcoloniali come minoranze stigmatizzate e brutalizzate e il luogo simbolico concesso nello spazio pubblico ai loro oppressori, uno spazio che costituisce anche l’ambiente urbano della nostra vita quotidiana.
Moti di iconoclastia
È noto che le rivoluzioni possiedono una «furia iconoclasta». Che sia spontanea, come la distruzione di chiese, croci e reliquie cattoliche durante i primi mesi della guerra civile spagnola, o più attentamente pianificata, come la demolizione della colonna Vendôme durante la Comune di Parigi, questo scoppio di iconoclastia definisce qualsiasi rovesciamento dell’ordine stabilito.
Il regista Sergei Eisenstein fa cominciare Ottobre, il suo capolavoro sulla Rivoluzione russa, con le immagini della folla che fa cadere una statua dello zar Alessandro III, e nel 1956 gli insorti di Budapest distrussero la statua di Stalin. Nel 2003 – come conferma inconsapevolmente ironica di questa regola storica – le truppe statunitensi inscenarono la caduta di una statua di Saddam Hussein a Baghdad, con la complicità di molte emittenti televisive, nel tentativo di mascherare la loro occupazione da rivolta popolare.
Al contrario, quando l’iconoclastia dei movimenti di protesta è autentica suscita immancabilmente reazioni indignate. I Comunardi furono raffigurati come «vandali» e Gustave Courbet, uno dei responsabili della caduta della colonna, gettato in prigione. Quanto agli anarchici spagnoli, furono condannati come feroci barbari. Un simile oltraggio è sbocciato nelle ultime settimane.
Boris Johnson si è scandalizzato quando su una statua di Churchill è stato vergato il titolo di «razzista», un fatto per il quale esiste un consenso accademico, legato ai dibattiti di questi anni sia sulla sua rappresentazione degli africani che sulla sua responsabilità per la carestia del Bengala nel 1943. Emmanuel Macron ha condannato con rabbia un analogo gesto di iconoclastia in un messaggio alla nazione francese che – a quanto pare – non ha mai menzionato le vittime del razzismo: «Questa sera vi dico molto chiaramente, miei cari concittadini, che la Repubblica non cancellerà alcuna traccia o qualsiasi figura della sua storia. Non dimenticherà nessuno dei suoi successi. Non rovescerà alcuna statua».
In Italia, il lancio di vernice rossa su una statua di Indro Montanelli in un giardino pubblico a Milano è stato condannato all’unanimità come atto «fascista» e «barbaro» da tutti i giornali e i media, ad eccezione de Il Manifesto. Ferito negli anni Settanta da terroristi di sinistra, Montanelli è stato canonizzato come un eroico difensore della democrazia e della libertà. Dopo il «vigliacco» attacco alla sua statua da parte dei lanciatori di vernice, un editorialista del Corriere della Sera ha insistito sul fatto che un simile eroe dovrebbe essere ricordato come una figura «sacra». Tuttavia, questo atto «barbaro» è servito a rivelare a molti italiani quali fossero i «sacri» esiti di Montanelli: negli anni Trenta, quando era un giovane giornalista, celebrava l’Impero fascista e le sue gerarchie razziali; inviato in Etiopia come corrispondente di guerra, acquistò subito una ragazza eritrea di quattordici anni per soddisfare i suoi bisogni sessuali e domestici. Per molti commentatori, questi erano i «costumi del tempo» e quindi qualsiasi accusa di sostegno al colonialismo, al razzismo e al sessismo è ingiusta e ingiustificata. Eppure, ancora negli anni Sessanta, Montanelli condannava il meticciato come fonte di decadenza della civiltà, con argomenti presi in prestito direttamente dal saggio sulla disuguaglianza delle razze umane di Arthur Gobineau del 1853-1855.