General

Ma quale odio? Il razzismo è ben altro Recensione del libro “Razzismo” di Annamaria Rivera

Gianluca Paciucci 08/06/2020
C’è la paura di quel che non si conosce, certo, e ci sono la diffidenza e l’ostilità che montano nelle periferie urbane.

C’è la fredda crudeltà minnitica e poi c’è la furia xenofoba salviniana e fascista, ma il razzismo che s’è radicato in Italia (in Europa e altrove) – non certo da oggi, come dimostrano le politiche dei governi di ogni colore almeno dalla fine del secolo scorso -, non è purtroppo questione di sentimenti. Non è il frutto della millantata “guerra tra poveri” e non è certo una patologia recente o estemporanea. Non lo si vincerà con i molti progetti istituzionali che vanno per la maggiore, tutti volti a contrastare un quantomai generico “odio”. Perché il razzismo dei nostri tempi ha un carattere sistemico che affonda profonde e turpi radici nel perverso incontro tra le culture politiche e le pratiche routinarie di ogni istituzione e il groviglio di interessi, egoismi e credenze che si manifesta nell’idea di un farsesco diritto alla preferenza nazionale che dilaga anche nei settori popolari. Ma attenzione, le pulsioni razziste non sono certo monopolio delle classi subalterne, come tenta di farci credere il circo mediatico, pronto a spedire inviati addestrati alle domande tipo – “Signora, cosa prova nei confronti del tunisino che ha investito suo figlio con la moto?” – in ogni “rivolta” periferica. Annamaria Rivera, antropologa antirazzista, impegnata da una vita nei movimenti, rileva il senso profondo dell’imbroglio che celano queste analisi improvvisate e prive di memoria da molti anni. Lo racconta e aggiorna con tenacia e pazienza zen. Ora ha raccolto con l’editore di sempre, Dedalo, i saggi più brevi e gli articoli usciti su molte e diverse riviste negli ultimi vent’anni. Ne viene fuori una lettura essenziale per chiunque abbia voglia di capire in quali acque profonde ci muoviamo. È nel cuore dell’analisi del discorso razzista, come spiega la recensione di Gianluca Paciucci, che possono formarsi forze utili a un cammino di liberazione.
Il nuovo testo di Annamaria Rivera è una raccolta di articoli e saggi brevi usciti in riviste specialistiche o divulgative dalla fine degli anni Novanta al 2019, preceduta da una rilevante introduzione che inquadra gli scritti dando loro una direzione e una trama. Dopo una bella dedica a Dino Frisullo, attivista politico indimenticabile (e purtroppo dimenticato, anche nella memoria di tanti militanti), e un’epigrafe tratta dalla Dialettica dell’illuminismo di Adorno–Horkheimer, costante punto di riferimento per Rivera, l’introduzione pone il tema dell’intera raccolta e cioè “il carattere sistemico del razzismo odierno”. Sistemicità che deriva, secondo l’autrice, dall’incontro tra razzismo istituzionale e razzismo dal basso.
Nette sono alcune prese di posizione e di distanza dal coro pressoché unanime che avvolge il dibattito su questo tema: contro l’impostura della “guerra fra poveri” (pag. 9 e segg.), innanzitutto, per cui si sottolinea che “il razzismo non è monopolio delle classi subalterne”, come parrebbe dai media, ma è “in primis l’esito di leggi, norme, procedure e pratiche routinarie messe in atto dalle istituzioni”. Istituzioni che, alla fine di campagne mirate, ne raccolgono il frutto. Se la situazione di crisi e la paura del “declassamento” può promuovere pensieri e atti di gravità estrema, è la pessima demagogia degli “imprenditori politici del razzismo” a indirizzare la cosiddetta volontà popolare verso obiettivi perseguibili con irrisoria e violenta facilità. Le difficoltà della sinistra, inoltre, impediscono di contrapporre una demagogia virtuosa a quella razzista, che così rimane la sola in campo: “… A provocare un tal genere di violenze sono non già la paura o l’odio, come si è soliti dire, se mai l’incapacità o l’impossibilità di rivendicare collettivamente diritti legittimi; e ciò anche per responsabilità di una sinistra politica che ha perlopiù abbandonato buona parte dei suoi principi basilari e soprattutto quel che un tempo si diceva lavoro di massa…” (p. 148).
Se questo è lo stato della sinistra di alternativa, di quella di governo forse sarebbe bene tacere: ma Rivera non lo fa e ricorda con precisione l’elenco di parole e opere (lasciando perdere le omissioni, per cui servirebbero tomi ben più imponenti del suo agilissimo libro) di esponenti del centrosinistra che, da D’Alema e Napolitano (Ministro dell’interno e poi Presidente della Repubblica) a Minniti-Orlando, Gentiloni e oltre hanno fatto di tutto per combattere la destra leghista e parafascista sostanzialmente adottandone modalità e punti di vista. Vere svolte si sono verificate proprio durante governi di centro-sinistra: il dramma della Katër i Radës (28 marzo 1997, primo ministro Prodi, ministro dell’interno Napolitano), di cui si è occupato anche Alessandro Leogrande, tarantino come Rivera; e il dramma di Giovanna Reggiani (30 ottobre 2007, primo ministro Prodi, sindaco di Roma Walter Veltroni). Nel primo caso nulla si mosse e le acque si chiusero su morti e memoria. Nel secondo caso, un orribile stupro e omicidio compiuti da un rom rumeno, “vi furono la convocazione urgente e straordinaria del Consiglio dei ministri, quasi fosse un Consiglio di guerra, e il conseguente varo di due decreti-leggi, detti anti-rom…” (p. 136).
L’antiziganismo, cui Rivera dedica un appassionato testo, fu all’origine di tanta immediata ‘risposta delle istituzioni’ che non esitarono a proporre punizioni collettive. Il sindaco di Roma peraltro quello stesso anno aveva fatto sgomberare dieci insediamenti rom senza riuscire a proporre nemmeno una soluzione accettabile. Per quanto riguarda il centro-destra è sempre da ricordare la frase di Salvini del 9 aprile 2008: “…i topi sono più facili da debellare degli zingari, perché sono più piccoli” su cui Rivera giustamente porta la nostra attenzione; di Grillo, né di centro-destra né di centro-sinistra, e dei suoi spropositi razzisti è meglio tacere, stavolta sul serio, leggendo il testo “Beppe Grillo: una comicità di secondo grado” (pagg. da 61 a 66).
Poi è su altre parole che si appunta la riflessione di Rivera, soprattutto negli scritti “Attenti alle parole! Frammenti sulla costruzione linguistica dello Straniero” (pagg. da 37 a 50) e “Per un buon uso delle parole, ovvero esercizi per intaccare la comunità razzista” (pagg. da 79 a 84): “clandestino”, innanzitutto, “etnia”, “razza”, “uomo di colore”, “guerra tra poveri”, “integrazione”, etc. La degradazione del lessico consiste spesso nella pigra accettazione delle parole introdotte ad arte e che vengono accolte senza il minimo intervento critico. La stessa svalutazione a nominalismo dell’attenzione che si porta all’uso delle parole, svalutazione molto diffusa persino in certi ambiti di attivismo antirazzista, contribuisce a portare altrove lo sguardo.
Così dalla non attenzione al termine clandestino, ad esempio, si è arrivati senza reazioni macroscopiche all’elaborazione del reato di clandestinità e a tutta la scia di sofferenze e sangue che questo ha causato. Inoltre, accecati dalla sequenza straniero-immigrato-clandestino-criminale, l’indignazione collettiva si è talmente concentrata su questi aspetti che abbiamo dimenticato i delitti commessi ai danni dei/delle migranti (crimini con la componente razzista in evidenza) e che Rivera, anche qui con implacabile precisione, ci fa ricordare: Ahmed Ali Giama, Giacomo Valent, Jerry Essan Masslo (fuggito dal Sudafrica dell’apartheid e ucciso nella democratica Italia, ancora prima dell’immigrazione degli anni Novanta, ancora ufficialmente non razzista), i crimini della banda “Ludwig” e della “Uno bianca” (sette feriti e due uccisi, nelle comunità rom e sinti) e poi, più vicini a noi, le uccisioni mirate di Firenze nel 2011 e nel 2018, etc. Europa non solo “migranticida” – anzi, “l’area più ‘migranticida’ dell’intero pianeta”, p. 114- nelle rotte del Mediterraneo e in quella balcanica, ma ostile fino al delitto, oltre che nella non accoglienza, per chi è giunto fin qui.
Esemplare il caso di Mohammed Habassi (9-10 maggio 2016), cui Rivera dedica una lucida ricostruzione, con talento di reporter, nel testo “Uno squadrone della morte nella provincia italiana: il martirio inflitto a Mohamed Habassi” (pp. da 91 a 103). Caso totalmente ignorato dalla stampa italiana e relegato a un fatto di cronaca locale (fu Rivera a portarlo alla luce con tre articoli sul manifesto); anche quando, si legge nel post-scriptum 2019, la Cassazione conferma la condanna a pene esemplari per i due italiani ideatori/autori del delitto e a pene minori i quattro complici rumeni, la stampa nazionale riesce a mancare la notizia, a non darle rilievo e, cioè, a cancellare il fatto. Su rimozioni di questo genere, legate alla “rimozione del passato coloniale e del fascismo” (p. 57), si regge l’intero edificio dell’innocentizzazione/angelizzazione di tutto ciò che è italiano, così che il male non può che provenire da fuori. Questo è pilastro della mentalità egemone oggi nel nostro Paese.
Tutto quanto Rivera scrive è sorretto da una solida struttura intellettuale che trae forza dalla conoscenza profonda del pensiero antropologico, filosofico e politico del grande Novecento: le sue pagine sono un dialogo ininterrotto con Hannah Arendt (di cui pure viene ricordato l’etnocentrismo), Franz Boas, Colette Guillaumin, Claude Lévi-Strauss, Edgar Morin, e tante altre e altri (ricchissima la bibliografia). È da Morin che Rivera prende il concetto per cui gli esseri umani, “maestri nell’assoggettamento degli animali”, sono ormai anche “maestri dell’assoggettamento dell’uomo da parte dell’uomo”. Questo ci porta a riflettere su un altro dei punti-chiave di questo libro, e cioè le sofferenze, reclusione e morte inflitte agli animali come preludio ed esercizio per infliggerle agli esseri umani: la triade di pessimi –ismi che Rivera qui propone e già trattata in altre sue opere, è quella di specismo-razzismo-sessismo. Da qui non si esce: e proprio la pandemia in cui siamo dovrebbe permetterci di ragionare su questo in quanto proprio il salto interspecifico (spillover) è stato da tempo studiato con ricerche parallele sia dalle scienze umane più avanzate sia dalla biologia; e così è stato affrontato il sessismo che, nelle case in cui siamo chiusi, mostra i suoi denti più acuminati. Niente di tutto questo dovrebbe portare, però, alla disaffezione, secondo Rivera.
Ciò che è scritto nei diversi saggi, con stile sempre scrupoloso, divulgativo e/o elevato, vorrebbe contribuire a dar vita a un progetto per “rilanciare un ampio movimento di massa trans-nazionale capace di avversare la Fortezza Europa e la dialettica del razzismo: in termini e modi lucidamente e coerentemente politici” (pag. 21). È nel cuore dell’analisi del discorso razzista che possono formarsi forze utili a un cammino di liberazione, senza dar retta a chi (tra questi molti/e “progressiste/i”) dice che non è questo il problema e che c’è ben altro di cui occuparsi; o che, ancora peggio, occuparsi di questo farebbe perdere voti. In realtà pochissimi/e, a sinistra, se ne sono interessati/e, e abbiamo visto com’è andata e sta andando. Non è forse il caso di cambiare linea?