L’università nella pandemia
Luca Galantucci – Paolo Scanga 09/05/2020 |
L’arrivo del Covid-19 ha fatto esplodere negli atenei italiani una crisi che covava da tempo e che inizia almeno nel 2008. Serve un cambio di rotta netto che garantisca diritti ai precari e qualità della formazione agli studenti
La pandemia causata dal Covid19 ha squarciato il velo, travolgendo un mondo instabile, incapace di darsi un ordine duraturo. La crisi che si sta delineando si radica nella impossibilità di stabilizzare il terremoto iniziato dopo il fallimento di Lehman Brothers. Il virus ha accelerato un processo in corso da tempo: la “stagnazione secolare” è diventata una profonda recessione.
Il lockdown dovuto al diffondersi della malattia non ha solo investito e trasformato le nostre vite, le nostre relazioni e i nostri modi di produrre e lavorare, ma sta modificando, anche velocemente, la narrazione pubblica e quella politico-economica.
Il lavoro precario dentro l’università e la ricerca è una lente privilegiata non solamente per analizzare questa grande trasformazione ma anche per evidenziarne le contraddizioni in atto. La pandemia sta mettendo a dura prova situazioni lavorative già molto complesse. Nonostante la quarantena sia stata definita come un tempo sospeso, abbiamo continuato a lavorare. Anzi, in alcuni casi lavoriamo anche più di prima, in condizioni di forte stress emotivo, in assenza di strumenti e spazi come laboratori o biblioteche, circostanze che determinano una continuità sempre più stringente e oppressiva tra tempi di lavoro e tempi di vita, ulteriormente dilatata dal carico dei lavori di cura che sta incidendo soprattutto sulle ricercatrici.
Si tratta, però, di una situazione che l’emergenza sanitaria ha solamente esasperato.
La comparsa di Covid-19 non ha fatto altro che mettere a nudo le problematiche che l’istituzione universitaria vive da oltre un decennio: precarizzazione sempre più marcata del corpo accademico, ricerche sotto finanziate, processi di espulsione dal tessuto accademico sempre più consistenti di ricercatori e ricercatrici, una intermittenza di reddito che favorisce l’instaurarsi di dinamiche di ricatto e una didattica sempre più dequalificata.
Di fronte a questa disastrosa condizione in cui la ricerca versa ormai da tempo, nelle pagine dei quotidiani sono fioriti encomi verso quelle figure eroiche di ricercatori e ricercatrici che hanno permesso fondamentali passi avanti nella analisi della malattia virale, nell’emergenza ospedaliera, nella cura. Ora, dopo anni di tagli scellerati ai fondi e alla precarizzazione del personale, non solo la sanità, ma anche la scuola e l’università, sono stati descritti come comparti strategici e centrali per la tenuta sociale e democratica del Paese.
Sta emergendo una consapevolezza profonda della importanza che questi settori pubblici hanno nella vita di ognuna e ognuno di noi. Tuttavia, siamo consapevoli del fatto che in assenza di una presa di parola determinata da parte dei soggetti che in questi settori lavorano – anche animando discussioni assembleari come l’appuntamento UniCOVID2020 di questa sera – rischiamo un nuovo processo di invisibilizzazione che non possiamo più permetterci.