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L’annessione israeliana non riguarda solo il furto di terra, ma anche l’espulsione dei palestinesi

23/05/2020 DI INVICTA PALESTINA
Quello che la comunità internazionale considera un’azione illegale di un’entità occupante è in realtà un’altra fase del secolare progetto coloniale israeliano.

Di Ahmad Al-Bazz, 19 maggio 2020
Per molti lettori dei principali siti di notizie nelle ultime settimane, può sembrare che Israele si stia preparando ad attuare un piano radicale per annettere la Cisgiordania occupata, seguendo l’accordo di coalizione del nuovo governo israeliano e il cosiddetto “Affare del Secolo” promosso dagli Stati Uniti.
Ma i palestinesi sanno bene che non c’è niente di spettacolare nell’annessione israeliana. Semmai, sono indignati per il fatto che la comunità internazionale si stia comportando come se ne fosse sorpresa.
Per capire il divario tra i titoli dei media e i fatti sul campo, si deve immaginare un comune cittadino israeliano che decide di fare un viaggio dal suo appartamento di Tel Aviv al Mar Morto, gran parte del quale attraversando la Cisgiordania occupata.
Tutto quello che il cittadino deve fare è prendere una sola autostrada verso est e, in meno di un’ora e mezza, arriva vicino alla riva del fiume Giordano. Non ci sono checkpoint né deviazioni in quel breve viaggio, niente che lasci intravedere di essere entrati Cisgiordania. Indicazioni stradali in lingua ebraica si estendono lungo l’intero percorso, la polizia israeliana dirige il traffico e l’Autorità Nazionale dei Parchi Israeliana accoglie i visitatori nei siti adiacenti.
Il conducente israeliano deve solo evitare di entrare erroneamente nelle aree in cui vivono i palestinesi residenti in Cisgiordania. Questo non è difficile, poiché sulla scia degli accordi di Oslo l’esercito ha posizionato grandi cartelli rossi agli ingressi delle città palestinesi che avvertono gli israeliani che entrare in quelle aree è “pericoloso”. Un palestinese dalla parte opposta di quei segnali stradali, naturalmente, non può né prendere la strada di ritorno in Israele né visitare le stesse località del Mar Morto come il cittadino israeliano.
Nonostante i meccanismi politici apparentemente complessi del territorio, la mappa geografica Israelo-Palestinese, nel 2020, è in realtà molto semplice: anche con alcune enclavi palestinesi semi-autonome in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, tutto da nord a sud, da est a ovest, è governato da Israele.
Questa realtà esiste da decenni. Eppure il mondo è in qualche modo preoccupato dal fatto che Israele ora vuole rendere questa realtà ufficiale attraverso l’annessione formale. Ciò che la comunità internazionale considera come una azione illegale di un occupante militare o come una controversia territoriale sui confini tra due governi, viene vista dai palestinesi come un’altra fase del secolare progetto coloniale di Israele.
L “errore” demografico
L’esclusione e il controllo, che sono sempre stati caratteristiche essenziali del sionismo, sono la base della geografia del territorio. L’obiettivo di creare un paese per soli ebrei in cui risiedono altre persone ha causato una realtà infinita di oppressione per i palestinesi. Il sionismo ha dato ai palestinesi due scelte: l’espulsione e l’esilio, o il dominio israeliano senza diritti. Tutti i palestinesi, indipendentemente da dove si trovino nel mondo, sono soggetti a uno di questi destini.
Dopo la fondazione dello stato nel 1948, molti israeliani erano delusi di non aver conquistato città come Hebron, Nablus e la Città Vecchia di Gerusalemme, che sono considerati luoghi sacri dell’ebraismo, come parte del nuovo stato. Questo desiderio si realizzò nel 1967, quando Israele prese il controllo dell’intera Palestina mandataria. Ma a parte Gerusalemme Est, lsraele non ha mai annesso legalmente quei territori.
A tutt’oggi, Israele si preoccupa di evitare di ripetere l’errore demografico che ha commesso concedendo ad alcuni palestinesi la cittadinanza israeliana nel 1948. Rimasti sotto il dominio militare fino al 1966 e discriminati da allora, l’esistenza stessa dei cittadini palestinesi ha ostacolato il piano di Israele per creare uno stato puramente ebraico. Come tale, ai palestinesi in Israele viene costantemente ricordato che sono indesiderati: Netanyahu ha detto chiaramente l’anno scorso che “Israele non è uno stato per tutti i suoi cittadini”, persino l’Accordo del Secolo propone di trasferire le loro comunità a una futura entità palestinese.
Ossessionato dal suo errore, Israele decise di perseguire una politica di “temporaneità permanente” in Cisgiordania e Gaza: l’annessione di fatto, piuttosto che per legge, sarebbe la loro via d’uscita. Ha creato nuove categorie per la popolazione indesiderata: “residenza permanente” in rosso per i gerosolimitani orientali, migliaia delle quali sono state revocate dal 1967, e carte d’identità arancione o verde per quelli di Gaza e della Cisgiordania, amministrate dal Ministero della Difesa israeliano.
Lo stato ha contemporaneamente incoraggiato la sua popolazione ebraica a stabilirsi nei territori occupati. Mentre gli insediamenti si espandevano, Israele costruì strade, tangenziali, mura e recinzioni per garantire non solo che gli insediamenti rimanessero collegati tra di loro e con Israele, ma anche come strumento per controllare e limitare il movimento della popolazione palestinese.
Allora perché, dopo più di cinquant’anni di questa “temporaneità permanente”, Israele decide di rendere ufficiale questa realtà? E quale dovrebbe essere la risposta dei palestinesi?
La risposta palestinese
La risposta sta in ciò che Israele si sta preparando ad annunciare: non solo l’incorporamento degli insediamenti e del territorio circostante, che sono già sotto il suo controllo, ma anche l’epurazione finale dei palestinesi che rimangono in quelle zone. Quel piano si è svolto per anni in posti come la Valle del Giordano, l’area E1, e le Colline a sud di Hebron, ma potrebbe essere perseguito più rapidamente una volta dichiarata l’annessione formale.
Data l’impunità con cui Israele ha violato il diritto internazionale nei territori occupati, non c’è occasione migliore per i palestinesi di abbandonare finalmente il dibattito giuridico di “occupazione”. I palestinesi hanno da tempo dato a questo quadro internazionale la possibilità di aiutare la loro lotta, nonostante tutte le sue limitazioni e travisamenti della loro causa, ma senza alcun risultato.
I leader palestinesi hanno fatto parte di questo fallimento. Fino alla fine degli anni ’80, la leadership nazionale palestinese considerava Israele come una colonia di conquistatori che usurpava la terra palestinese, chiedendo il ritorno dei rifugiati e un unico stato democratico per tutti. Ma da allora, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina ha formalmente riconosciuto Israele e adottato la soluzione a due stati, in gran parte per soddisfare il punto di vista della comunità internazionale, che opera sulla falsa premessa di un “conflitto” tra due parti alla pari.
Questo contesto ha sostituito la rivendicazione palestinese di decolonizzazione della Palestina Mandataria e ha legittimato la linea verde come confine all’interno del quale imprigionare i palestinesi in uno pseudo-stato. Quasi 30 anni dopo gli Accordi di Oslo, le politiche coloniali di Israele continuano a trattare i palestinesi come lo stesso gruppo indesiderato e colonizzato, siano essi cittadini di Israele, soggetti occupati o profughi.
Il presidente palestinese Mahmoud Abbas evidenzia e riconosce questo fatto minacciando ripetutamente di smantellare l’Autorità palestinese o di recedere dai cosiddetti accordi di sicurezza con Israele. Ma Abbas non ha mai avuto il coraggio di andare fino in fondo. Se l’Autorità Palestinese non farà nulla per correggere i propri errori, manterrà semplicemente i piani di Israele di far gestire alla leadership palestinese le limitate enclavi per conto dello stato.
Così, mentre Israele prepara la fase successiva del suo progetto coloniale, è tempo che i palestinesi ritornino alle loro rivendicazioni originali di piena decolonizzazione e di uno stato democratico dove tutti gli esseri umani hanno uguali diritti su questa terra e sviluppare nuove strategie per raggiungere tale obiettivo. Fino ad allora, la comunità internazionale non ha il diritto di dispiacersi per l’imminente annessione. È semplicemente il frutto della politiche coloniale di Israele, che la stessa comunità internazionale non è mai intervenuta per fermare.
Ahmad Al-Bazz, nato nel 1993, è giornalista e regista di documentari con sede nella città di Nablus in Cisgiordania. È membro del collettivo di fotografia Activestills dal 2012
Trad: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org