Razzismo Gli atti, le parole, la propaganda, di Annamaria Rivera Presentazione del libro e intervista dell’autrice
Armando Adolgiso 26/04/2020 |
La casa editrice Dedalo ha mandato nelle librerie un libro importante, specie nel clima politico che vive l’Italia (ma si può ben dire l’Europa) di oggi.
È intitolato: Razzismo Gli atti, le parole, la propaganda.
Ne è autrice Annamaria Rivera.
Già docente di Etnologia e Antropologia sociale nell’Università di Bari, vive a Roma, è saggista, attivista, collaboratrice di alcune testate giornalistiche.
Fra le sue opere nel catalogo Dedalo ”La città dei gatti” (2016); “L’imbroglio etnico, in quattordici parole-chiave” (con R. Gallissot e M. Kilani, 2012); “Il fuoco della rivolta” (2012). È anche autrice del romanzo Spelix (2010).
I razzisti, quelli dichiarati, quelli occulti e quelli che lo sono e forse non lo sanno, nonostante il progresso scientifico smentisca ancora più chiaramente di ieri le loro convinzioni, continuano a diffondere rabbioso furore.
“Eppure” – scrive Umberto Veronesi in un articolo in cui tratta del razzismo – “Darwin, oltre ai riconoscimenti scientifici ricevuti, sarebbe oggi assai più soddisfatto del fatto che adesso la scienza non deve più accontentarsi delle scoperte dei paleontologi: la conferma della spiegazione darwiniana ci viene dalla grande scoperta del Dna”.
Questo testo di Rivera attraverso una serie di saggi condotti con scrittura rapida, incisiva, affronta il tema del razzismo sotto plurali aspetti: da quello sociale a quello linguistico giovandosi di precise esemplificazioni che provengono dalla cronaca e da indagini statistiche.
Inoltre, lancia uno sguardo sulla contiguità specismo/sessismo/razzismo che concorre a formare quel pensiero unico tanto tragico quanto catastrofico.
In Italia, nonostante una vocazione autoassolutoria diffusa in più strati sociali, abbiamo clamorosi precedenti che fanno riflettere. Un precedente maiuscolo è il Manifesto della Razza, pubblicato il 14 luglio 1938, fu la premessa alle leggi razziali promulgate il 6 ottobre dello stesso anno che comportarono la perdita dei diritti civili per 58mila italiani, parte dei quali poi deportati in Germania e 8mila di loro morti nei lager.
Quel Manifesto fu firmato da dieci uomini. Non solo mai furono processati, ma sono state loro intitolate strade, borse di studio, aule universitarie.
I nomi: Lino Businco, Lidio Cipriani, Arturo Dosaggio, Leone Franzi, Guido Landra, Nicola Pende, Marcello Ricci, Franco Savorgnan, Sabato Visco, Edoardo Zavattari.
A questi vanno aggiunti altri 329 che sottoscrissero il Manifesto.
Franco Cuomo in “I dieci” così scrive: “Volevano dimostrare che esistono esseri inferiori. E ci riuscirono, in prima persona. Perché lo furono”.
Ad Annamaria Rivera (in foto con uno dei suoi gatti) ho rivolto alcune domande
Da quali motivazioni nasce questo libro?
È da un trentennio che, da antropologa e attivista, sono impegnata contro il razzismo, con parole e opere, come si dice. E questa non è certo la mia prima pubblicazione sul tema. Con questo volume, costituito da un breve saggio introduttivo e dalla raccolta di scritti pubblicati su riviste nel corso del tempo, non solo cerco di mostrare la lunga durata del razzismo italiano, ma anche di analizzare il decadimento teorico-politico, almeno in Italia, del ‘discorso’ sul razzismo. Come esempi basta citare la tendenza a ridurre a odio o paura un tale sistema complesso (ideologico, politico, sociale, mediatico, istituzionale); o a definire come “guerra tra poveri” gli atti di razzismo, anche violenti, se compiuti da gruppi o individui appartenenti a classi subalterne.
Perché, come si legge nel volume, “il nuovo razzismo è già vecchio”?
È il titolo di uno degli scritti raccolti nel volume, pubblicato per la prima volta dieci anni fa. Con quel titolo ironico intendevo polemizzare contro una tendenza che perdura tuttora e che altrove e più volte ho definito “la retorica della prima volta”: allorché si manifestano forme di razzismo pur gravi o estreme, fino all’omicidio e alla strage, a prevalere − nella coscienza collettiva, tra i media, anche tra le istituzioni − è perlopiù la tendenza a rimuoverne i precedenti, la catena di antefatti, la propaganda e le politiche che li hanno favoriti o almeno hanno contribuito a creare un clima propizio all’espressione del razzismo, anche il più violento.
Ogni volta è “la prima volta”, per l’appunto. Eppure, è almeno dagli anni ’70 del Novecento che in Italia ciò che definimmo “neorazzismo” si manifesta in forme anche le più brutali…
… qualche esempio…
Il 25 agosto 1977, a Verona, la prima vittima di “Ludwig”, sanguinaria banda neonazista, costituita da due giovani borghesi, fu il rom Guerrino Spinelli, bruciato vivo nell’auto in cui dormiva. La notte fra il 21 e il 22 maggio 1979, nel pieno centro di Roma, un cittadino somalo di trentacinque anni, Ahmed Ali Giama, di fatto rifugiato politico eppure costretto a dormire per strada, venne anch’egli arso vivo molto probabilmente da quattro giovani italiani, che pure saranno assolti in Cassazione, nonostante le testimonianze.
Fra i tuoi scritti selezionati per questa pubblicazione è difficile sceglierne uno più importante di un altro. Corro il rischio e ci provo. L’analisi da te condotta in “Attenti alle parole! Frammenti sulla costruzione linguistica dello Straniero” è quello a me sembrato il più interessante. Del resto, “La lotta contro il razzismo comincia con un lavoro sul linguaggio”, scrive Tahar Ben Jelloun.
Puoi dire in sintesi perché hai dedicato al linguaggio quelle pagine?
Perché ritengo che il linguaggio e il lessico siano parte integrante del “sistema-razzismo”. In quello scritto, pubblicato per la prima volta ben vent’anni fa, criticavo anzitutto il perdurare dell’uso della categoria di razza. Eppure, a partire dagli anni ’40 del ‘900, essa è stata via via decostruita e abbandonata da gran parte delle stesse scienze sociali e biologiche che avevano contribuito a elaborarla. Nondimeno ancor oggi ci tocca ascoltare, per esempio, dalla bocca dell’attuale governatore della Lombardia, Attilio Fontana, proclami sulla “nostra razza bianca” che sarebbe minacciata da orde d’immigrati.
In quello scritto ti soffermi anche su alcuni svarioni lessical-razzistici…
… per esempio, del politologo Giovanni Sartori, a quel tempo assai apprezzato; nonché sulla categoria di “clandestino”, inventata di sana pianta per ignobili ragioni politiche (un tempo si parlava non già di “clandestinità”, bensì d’immigrazione “spontanea”, “non assistita”, “non protetta”). Scrivo anche a proposito del nome, ingannevole e quasi grottesco, attribuito a quelle strutture detentive ‘extra ordinem’, destinate a persone migranti “irregolari” da espellere, che furono istituite per la prima volta dalla legge del 1998, detta Turco-Napolitano. Quei quasi-lager, che tuttora perdurano con un nome diverso, furono allora denominati “Centri di permanenza temporanea e assistenza” (CPTA), una formula che coniugava un eufemismo con un ossimoro.
Sostieni che esiste una contiguità/continuità fra specismo/sessismo/razzismo.
In che cosa consiste?
In sostanza ritengo, al pari di altre studiose e studiosi, che il processo di dominazione, reificazione, sfruttamento dei non-umani possa essere considerato il modello o l’archetipo dei processi di gerarchizzazione, subordinazione, svalutazione, discriminazione, reificazione cui sono sottoposte talune categorie di umani: riguarda, in particolare, ciò che definiamo sessismo e razzismo. A mio parere, la de-umanizzazione degli ‘altri’ e delle ‘altre’ ha come presupposto la “bestializzazione” dei non-umani. A istituire analogia e continuità fra specismo, sessismo e razzismo v’è anche la tendenza a disconoscere individualità e singolarità a categorie umane che siano state “alterizzate”, così come abitualmente si fa nei confronti dei non-umani.
In Italia, a chi riferisci le principali responsabilità del risorgere del neofascismo del neonazismo e dell’antisemitismo cui oggi assistiamo? Esistono colpe della sinistra?
Anche questa è una lunga storia, tanto che non sono certa si possa parlare di un risorgere attuale del neofascismo, del neonazismo, nonché dell’antisemitismo e, io aggiungerei, dell’antiziganismo. In Italia le formazioni di estrema destra si sono ricostituite sin dall’inizio del secondo dopoguerra e hanno continuato ad esistere fin’oggi, sia pur con vicende alterne, con maggiore o minore evidenza e intensità. Basta dire che l’Msi nacque il 3 dicembre del 1946 e che il Movimento Politico Ordine Nuovo, costituito ufficialmente il 21 dicembre 1969, è stato tra i gli attori principali della “strategia della tensione” e del conseguente stragismo…
… e quanto all’antisemitismo e anche all’antiziganismo da te citato prima…?
… sono tendenze quasi strutturali del nostro paese (e non solo). Il secondo spesso è stato attivamente condiviso anche dalla sinistra “moderata” e/o di governo. Basta ricordare quel che si scatenò dopo l’omicidio di Giovanna Reggiani, compiuto, a Roma, nel 2007, da un rom di cittadinanza romena.
Certo, con il primo governo Conte e soprattutto con l’opera svolta dal ministro dell’Interno, il leghista Matteo Salvini, si è praticata una sorta di razzismo di Stato. Ma va ricordato che a legittimare la Lega (allora detta Nord) hanno contribuito personaggi quali Massimo D’Alema, che nel 1995 la definì una “costola della sinistra”, e Pierluigi Bersani, che nel 2011, in un’intervista ‘esclusiva’ sulla prima pagina de “La Padania”, lodava il Carroccio denegandone il carattere razzista. I due non sono i soli del Pds-Ds ad aver manifestato atteggiamenti quanto meno ondivaghi nei confronti del Carroccio.
Uno dei temi portati avanti dalla Sinistra è quello imperniato sul concetto di “integrazione”. Perché lo critichi nel tuo libro e lo ritieni di nessuna utilità per difenderci dal razzismo?
Lo critico anzitutto perché nella variante italiana è perlopiù inteso e adoperato come sinonimo di ‘assimilazione’: per essere accettate, le persone “non-autoctone” dovrebbero adeguarsi unilateralmente ai valori, costumi e modelli di comportamento della società detta ospitante, rinunciando totalmente ai propri.
In secondo luogo, cerco di dimostrare con esempi concreti che, al contrario di quel che pensano i più, l’integrazione, anche quella correttamente intesa, non necessariamente mette le persone immigrate e rifugiate o appartenenti a minoranze al riparo da discriminazioni e perfino da violenze estreme. Basta citare la strage di Firenze del 13 dicembre 2011 ai danni di cittadini di origine senegalese, appartenenti cioè a una delle minoranze più “integrate”, in particolare in quella città. Per non dire dell’assassinio di stampo razzista che si consumò a Udine il 9 luglio 1985: a essere ucciso da due suoi compagni di liceo fu il sedicenne Giacomo Valent, figlio di un italiano, funzionario d’ambasciata, e di una principessa somala.
Spesso si sente dire che l’Italia non è un paese razzista. Ma è proprio così?
Non porrei la questione in termini assoluti. A essere certo è che in Italia discorsi, discriminazioni e violenze di stampo razzista, fino all’omicidio e alla strage, hanno costellato almeno l’ultimo quarantennio, pur con un andamento variabile. Tutte le fonti disponibili documentano una crescita allarmante degli atti di violenza razzista, in particolare in taluni periodi: per esempio, secondo l’associazione Lunaria, nel 2018 i reati di matrice razzistica e xenofobica sono stati 801, pari al 72,1% del totale; nel 2019, sono stati 726, corrispondenti al 74,9% del totale.
E ciò grazie al ruolo svolto da “imprenditori politici del razzismo”, anche istituzionali, governativi, mediatici; nonché grazie a una propaganda e delle retoriche politiche violente e aggressive verso persone immigrate e rifugiate, e verso talune minoranze.
In Italia, come in altri Paesi europei, la forma più persistente e strutturale è quella che ha per bersaglio rom, sinti e caminanti…
… ci sono cifre al riguardo?
Sì, lo confermano, anno dopo anno, i sondaggi del “Pew Research Center”, riguardanti i sei Paesi europei più popolosi (Francia, Germania, Italia, Polonia, Spagna e Regno Unito), se l’antiziganismo è ovunque assai diffuso, più che altre forme di razzismo, tuttavia a occupare il primo posto è il nostro Paese.
Ugualmente inquietante è da noi (e non solo) l’attuale impennata di antisemitismo. Nel corso del 2019 ci sono stati almeno 252 episodi di discorsi e atti antisemiti, rispetto ai 197 del 2018 e ai 130 del 2017: dalla denegazione della Shoah, soprattutto tramite il web, alla distruzione di pietre d’inciampo, dalle minacce a Liliana Segre fino a due casi di aggressione fisica.
Infine, a tutto quel che ho detto finora occorre aggiungere che il sistema-razzismo è riprodotto, avvalorato, legittimato anche da un complesso di leggi, norme, procedure: ciò che viene detto “razzismo istituzionale”. Anche rispetto a questo la sinistra “moderata” di governo ha dato un contributo rimarchevole, come documento in questo volume.
Dalla presentazione editoriale di “Razzismo”:
«È su una montagna costituita anche da cattive parole e pessime retoriche che si è sedimentato, riprodotto e legittimato il razzismo quale oggi si manifesta in Italia: un sentimento di ostilità verso tutti gli estranei, i diversi, gli Altri, occupanti abusivi del “nostro territorio”.
In questa raccolta di brevi e interessanti saggi, Annamaria Rivera porta avanti un’analisi puntale del circolo vizioso che alimenta il razzismo, attraverso riflessioni colte che colpiscono per la loro originalità e la loro attualità. Mostra così la dialettica perversa fra il razzismo istituzionale, il ruolo dei media e della propaganda, e le forme sempre più diffuse di xenofobia “popolare”. Negli ultimi anni tale dialettica si è mostrata nel modo più palese (basti pensare alle ultime politiche contro l’immigrazione o ai recenti episodi di violenza raccontati dalla cronaca), e tuttavia essa ha antecedenti qui ricostruiti con precisione, per evidenziarne la lunga durata.
L’autrice decostruisce inoltre pseudo-nozioni quali “razza”, “etnia”, “colore”, “identità” e mette in luce l’apparato lessicale e comunicativo che contribuisce a riprodurre discriminazione, ineguaglianza ed emarginazione.
Un’opera fondamentale per riflettere su quello che sta accadendo oggi attorno a noi».