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Come si comporta il Coronavirus all’interno di un paziente?

Siddhartha Mukherjee 01/04/2020
Abbiamo contato la diffusione del virus tra le persone; ora dobbiamo contarlo nelle persone.

Tradotto da Leopoldo Salmaso
Nella terza settimana di febbraio, mentre l’epidemia di COVID-19 divampava ancora in Cina, sono arrivato a Calcutta, in India. Mi sono svegliato una mattina afosa -i nibbi bruni fuori dalla mia camera d’albergo volavano in cerchio verso l’alto, sollevati dalle correnti d’aria calda- e sono andato a visitare un santuario della dea Shitala. Il suo nome significa “la fresca”; secondo il mito, nacque dalle ceneri di un fuoco sacrificale. Il caldo che essa diffonderebbe non è solo la furia dell’estate che colpisce la città a metà giugno, ma anche il calore interno dell’infiammazione. Si dice che protegga i bambini dal vaiolo, curi il dolore di quelli che lo contraggono, e attenui la furia di un’epidemia di vaiolo.
Il santuario è una piccola struttura all’interno di un tempio a pochi isolati dal Kolkata Medical College. All’interno, c’è una figurina della dea, seduta su un asino, con in mano una coppa di liquido rinfrescante, così come viene rappresentata da un millennio. Il tempio ha duecentocinquanta anni, mi ha detto il custode. Ciò lo farebbe risalire al periodo in cui apparvero per la prima volta resoconti di una misteriosa setta di Brahmini che vagava su e giù per la piana del Gange per diffondere la pratica della tika, un primo tentativo di vaccinazione. Questo consisteva nel prelevare materiale dalla pustola di un paziente con vaiolo, una vera e propria “fossa dei serpenti” di virus vivo, e applicarlo pungendo la pelle di una persona non infetta, quindi coprire il punto con una pezza di lino.
I praticanti indiani della tika l’avevano probabilmente imparata dai medici arabi, che a loro volta l’avevano appresa dai cinesi. Già nel 1100 i medici guaritori in Cina si erano resi conto che coloro che erano sopravvissuti al vaiolo non si sarebbero ammalati una seconda volta (i sopravvissuti alla malattia venivano reclutati per prendersi cura dei nuovi malati), e dedussero che l’esposizione del corpo a una malattia lo avrebbe protetto da futuri casi di quella stessa malattia. Pare che i medici cinesi macinassero le croste del vaiolo riducendole in polvere e le insufflassero nelle narice dei bambini con una lungo tubicino d’argento.
Vaccinare con virus vivo era come camminare sul filo del rasoio: se la quantità di inoculo virale nella polvere era troppo grande, il bambino sarebbe andato incontro a malattia conclamata, un disastro che si verificava forse una volta su cento. Se tutto andava bene, il bambino avrebbe avuto una malattia leggera e sarebbe rimasto immune per tutta la vita. Nel diciottesimo secolo, la pratica era diffusa in tutto il mondo arabo. Attorno agli anni 60 del 1700, in Sudan le donne praticavano il tishteri el jidderi (comprare il vaiolo): una madre contrattava con un’altra quante pustole mature di un bambino malato poteva comprare per suo figlio o sua figlia. Era un’arte squisitamente misurata: i guaritori tradizionali più accorti riconoscevano le lesioni che probabilmente avrebbero prodotto abbastanza materiale virale, ma non troppo. Il nome europeo della malattia deriva dal latino variola “maculata” o “butterata”. Il processo di immunizzazione contro il vaiolo è stato chiamato “variolazione”.
Lady Mary Wortley Montagu, moglie dell’ambasciatore britannico a Costantinopoli, era stata colpita dalla malattia nel 1715, e la sua pelle perfetta era rimasta coperta di cicatrici. Più tardi, nella campagna turca, lei assistette alla pratica della variolazione e scrisse meravigliata alle sue amiche, descrivendo il lavoro di una specialista: “La vecchia arriva con un guscio di noce contenente materiale accuratamente scelto da pustole di vaiolo leggero, e chiede quale vena vuoi farti pungere”, quindi “inietta nella vena tutta la materia che può stare sulla cruna del suo ago”. I pazienti stanno a letto per un paio di giorni con la febbre e, notò Lady Montagu, si rialzano incolumi. “Raramente hanno più di venti o trenta pustole in faccia, che non lasciano mai cicatrice; e in otto giorni stanno meglio di prima”. Lady Mary riferì che migliaia di persone venivano sottoposte a quell’operazione ogni anno senza subire conseguenze, e che la malattia era stata in gran parte controllata in quella regione. “Puoi credere che io sia molto soddisfatta della sicurezza di questo esperimento”, aggiunse, “dal momento che ho intenzione di provarlo sul mio caro figlioletto”. Suo figlio non contrasse mai il vaiolo.
Nei secoli trascorsi da quando Lady Montagu si meravigliava dell’efficacia della variolazione, abbiamo fatto scoperte inimmaginabili nella biologia e nell’epidemiologia delle malattie infettive, eppure la pandemia di COVID-19 non è priva di enigmi. Perché si è diffuso come un incendio in Italia, a migliaia di miglia dal suo epicentro iniziale, Wuhan, mentre l’India sembra essere stata in gran parte risparmiata finora? Quali specie animali hanno trasmesso l’infezione all’uomo?
Ma tre domande meritano un’attenzione particolare, perché le risposte potrebbero cambiare il modo in cui isoliamo, trattiamo e gestiamo i pazienti. In primo luogo, che cosa possiamo imparare sulla “curva dose-risposta” nell’infezione iniziale, ovvero, possiamo quantificare un aumento del rischio di infezione quando le persone sono esposte a dosi più elevate del virus? In secondo luogo, esiste una relazione tra quella “dose” iniziale del virus e la gravità della malattia, cioè, una maggiore esposizione provoca una malattia più grave? E, in terzo luogo, abbiamo misure quantitative di come si comporta il virus nei pazienti infetti (ad esempio, il picco della carica virale nel loro corpo, la curva della sua ascesa e caduta) che predicano la gravità della loro malattia e quanto siano contagiosi per gli altri? Finora, nelle prime fasi della pandemia di COVID-19, abbiamo misurato la diffusione del virus tra le persone. Man mano che il ritmo della pandemia aumenta, dobbiamo anche iniziare a misurare il virus all’interno delle persone.
La maggior parte degli epidemiologi, data la scarsità di dati, è stata costretta a modellare la diffusione del nuovo coronavirus come se fosse un fenomeno binario: che gli individui siano esposti o non esposti, infetti o non infetti, sintomatici o portatori sani. Recentemente, il Washington Post ha pubblicato una simulazione online particolarmente suggestiva, in cui le persone di una città sono rappresentate come punti che si muovono liberamente nello spazio: quelle non infette in grigio, quelle infette in rosso (poi diventano rosa, quando hanno acquisita l’immunità). Ogni volta che un punto rosso tocca un punto grigio, si trasmette l’infezione. Senza intervento esterno, l’intero campo di punti vira gradualmente dal grigio al rosso. Il distanziamento sociale e l’isolamento impediscono ai punti di cozzare l’uno contro l’altro e rallentano il viraggio dello schermo verso il rosso.
Questa è una visione a volo d’uccello di un virus che si irradia attraverso una popolazione, presentata come un fenomeno “acceso-spento” (tutto o niente). Il dottore e ricercatore medico che vive in me -da specializzando fui addestrato in immunologia virale- voleva sapere cosa stava succedendo dentro a quei punti. Quanto virus c’è in quel punto rosso? Quanto velocemente si sta replicando in quest’altro punto? In che modo l’esposizione, il “tempo di contatto”, è correlata con la probabilità di trasmissione? Per quanto tempo un punto rosso rimane rosso, ovvero come cambia l’infezione di un individuo nel tempo? E qual è la gravità della malattia in ciascun caso?
Ciò che abbiamo appreso su altri virus, inclusi quelli che causano AIDS, SARS e vaiolo, suggerisce una visione più complessa della malattia, del suo tasso di progressione e delle strategie di contenimento. Negli anni Novanta, quando i ricercatori impararono a misurare quanto HIV c’era nel sangue di un paziente, emerse un modello distinto. Dopo l’infezione, il conteggio dei virus nel sangue saliva allo zenit, noto come “picco di viremia”, e i pazienti con il più alto picco di viremia in genere si ammalavano prima; erano meno in grado di resistere al virus. Ancora più predittivo del picco di viremia era il cosiddetto set point, il livello al quale il conteggio dei virus di qualcuno si stabilizzava dopo il picco iniziale. Rappresentava un equilibrio dinamico che era stato raggiunto tra il virus e il suo ospite umano. Le persone con un alto set point tendevano a progredire più rapidamente verso l’AIDS; le persone con un set point basso spesso progredivano più lentamente. La carica virale -un continuum, non un valore binario- ci ha aiutati a prevedere la natura, il decorso e la trasmissibilità della malattia. A dire il vero, ogni virus ha la sua personalità e HIV ha tratti che rendono la carica virale particolarmente rivelatrice: provoca un’infezione cronica che colpisce specificamente le cellule del sistema immunitario. Comunque, sono stati osservati schemi simili con altri virus.
Dal punto di vista immunologico ciò non è sorprendente. Se il tuo sistema è in grado di combattere la replicazione virale con una certa efficienza -a causa della tua età, della tua genetica e di altri fattori di competenza immunitaria- avrai un set point più basso. Un’esposizione iniziale più bassa, come nei bambini trattati con tika, potrebbe anche portare a un set point inferiore? Di fronte a una sfida più piccola, il sistema immunitario potrebbe avere maggiori probabilità di controllare il patogeno. Al contrario, se sei inondato da ripetute esposizioni ad alte dosi, l’invasore che si replica rapidamente potrebbe guadagnare un vantaggio che il sistema immunitario poi fatica a riconquistare.
Un ingegnoso studio sulla relazione tra l’intensità dell’esposizione virale e l’infettività negli esseri umani proviene da un team del Fred Hutchinson Cancer Research Center e dell’Università di Washington, a Seattle. Nel 2018, un epidemiologo e statistico di nome Bryan Mayer si unì a un gruppo di medici e biologi che stavano studiando un problema che, a prima vista, sembrava quasi impossibile da affrontare. Mayer, che ha circa trentacinque anni, parla in modo sommesso e preciso: usa le parole con attenzione e si esprime con frasi lunghe e lente. Mi ha detto: “Anche da studente universitario ero interessato all’idea di dosare i virus o gli agenti patogeni. Ma il problema è che la dose iniziale è spesso impossibile da cogliere, perché scopri che una persona è infetta solo dopo che è stata infettata”. La maggior parte delle malattie infettive può essere osservata solo in uno specchietto retrovisore: quando un paziente diventa un paziente, quel momento critico di trasmissione è già passato.
Ma i ricercatori hanno trovato una risorsa insolita: una coorte di neo-madri e dei loro bambini a Kampala, in Uganda. Alcuni anni fa, un pediatra di nome Soren Gantt e un team di medici esaminarono queste donne e chiesero loro di fornire tamponi orali per un anno. Quindi misurarono le quantità di un virus chiamato HHV-6 che le donne rilasciano, virus che di solito si diffonde ai bambini dopo la nascita attraverso le secrezioni orali, e che causa febbre e un’eruzione cutanea rossastra su tutto il corpo. A quel punto era possibile esaminare in che modo la quantità di virus diffusa -la “dose” di esposizione- influenzava la probabilità che un neonato si infettasse. Gantt, Mayer e i loro colleghi avevano escogitato un modo per intercettare sin dall’inizio le dinamiche della trasmissione di un’infezione virale umana. “I nostri dati hanno confermato che esiste una relazione dose-risposta nella trasmissione del virus HHV-6”, mi ha detto Mayer. “Più virus tu espelli, più è probabile che tu infetti gli altri”. Era riuscito a girare lo specchietto retrovisore dell’epidemiologia.
Tuttavia, c’è un altro aspetto della trasmissione e della malattia: la risposta immunitaria dell’ospite. L’attacco virale e la difesa del sistema immunitario sono due forze opposte, in continuo contrasto. L’immunologo russo Ilya Mechnikov, che lavorava all’inizio del Novecento, descrisse il fenomeno come “la lotta”, Der Kampf nelle edizioni tedesche del suo lavoro. Mechnikov immaginava una battaglia in corso tra microbi e immunità. La lotta era una questione di terreno guadagnato o perso. Qual era la “forza” totale della carica microbica? Quali fattori dell’ospite -genetica, esposizione precedente, competenza immunitaria di base- stavano limitando l’invasione microbica? E poi: l’equilibrio iniziale pendeva verso il virus o verso l’ospite?
Ciò solleva la seconda domanda: una “dose” virale più grande provoca una malattia più grave? È impossibile cancellare dalla memoria l’immagine di Li Wenliang, l’oftalmologo cinese di trentatré anni che ha lanciato l’allarme sui primi casi COVID-19, nella sua malattia finale: una fotografia lo mostra con la faccia arrossata, mentre suda e respira a fatica nella mascherina, poco prima della morte. Poi c’è la morte inaspettata di Xia Sisi, una dottoressa di ventinove anni dell’Ospedale Union Jiangbei di Wuhan, che aveva un bambino di due anni e, secondo il Times, adorava lo stufato del Sichuan. Un altro operatore sanitario cinese, un’infermiera di ventinove anni a Wuhan, si ammalò così gravemente da provare allucinazioni; più tardi, disse che le sembrava di “camminare sull’orlo della morte”.
La notevole gravità della loro malattia (i ventenni e trentenni con COVID-19 in genere sperimentano una malattia simil-influenzale autolimitantesi) potrebbe essere correlata con la quantità di virus a cui furono inizialmente esposti? Almeno due medici rianimatori negli USA, entrambi in prima linea nella pandemia, si sono gravemente ammalati; uno di loro, nello stato di Washington, ha solo quarant’anni. Secondo i dati disponibili provenienti da Wuhan e dall’Italia, gli operatori sanitari non hanno necessariamente un tasso di mortalità più elevato, ma soffrono, in modo sproporzionato, delle forme più gravi della malattia? “Conosciamo l’elevata mortalità nelle persone anziane”, ha dichiarato alla CNN Peter Hotez, specialista in malattie infettive ed esperto di vaccini presso il Baylor College of Medicine. “Ma, per ragioni che non capiamo, gli operatori sanitari in prima linea sono a rischio elevato di sviluppare malattie gravi nonostante la loro giovane età”.
Alcune ricerche suggestive sono state condotte con altri virus. Nei modelli animali di influenza, è possibile quantificare con precisione l’intensità di esposizione, e i topi a cui sono state somministrate dosi più elevate di alcuni virus dell’influenza hanno sviluppato una forma più grave della malattia. Tuttavia, il grado di correlazione tra dose e gravità della malattia variava ampiamente da un ceppo dell’influenza a quello successivo. (Curiosamente, in uno studio, una carica iniziale più elevata di virus respiratorio sinciziale, che può causare polmonite specialmente nei bambini piccoli, correlava negativamente con la gravità della malattia, anche se un altro studio suggerisce che la correlazione sia positiva con i bambini più piccoli, cioè la fascia più colpita della popolazione pediatrica).
Le poche prove che abbiamo sui coronavirus suggeriscono che potrebbero seguire il modello osservato nell’influenza. In uno studio del 2004 sul coronavirus che causa la SARS, cugino di quello che causa la COVID-19, un team di Hong Kong ha scoperto che una carica iniziale più elevata, misurata nel rinofaringe (la cavità nella parte profonda della gola sopra il palato) correlava con una malattia respiratoria più grave. Quasi tutti i pazienti con SARS che erano arrivati con un livello basso o non rilevabile di virus nel rinofaringe furono trovati ancora in vita a un follow-up di due mesi. Quelli con il livello più alto avevano un tasso di letalità dal venti al quaranta per cento. Questo schema restava valido indipendentemente dall’età del paziente, dalle condizioni sottostanti e da altre variabili. La ricerca su un’altra malattia virale acuta, la febbre emorragica della Crimea-Congo, è giunta a una conclusione simile: più virus avevi all’inizio, più probabilità hai di morire.
Forse la più forte associazione tra l’intensità dell’esposizione e l’intensità della malattia successiva si riscontra nella ricerca sul morbillo. “Voglio sottolineare che il morbillo e il COVID-19 sono malattie diverse causate da virus molto diversi con comportamenti diversi”, ha ammonito Rik de Swart, virologo dell’Università Erasmus di Rotterdam durante nostra conversazione, “ma nel morbillo ci sono molti indicazioni che la gravità della malattia sia correlata con la dose di esposizione. E ha senso immunologico, perché l’interazione tra il virus e il sistema immunitario è una corsa nel tempo. È una corsa tra il virus, che trova abbastanza cellule bersaglio per replicarsi, e la risposta antivirale che mira ad eliminare il virus. Se dai al virus un vantaggio iniziale con una dose elevata, otterrai una viremia più elevata, una maggiore diffusione, una maggiore infezione e una malattia peggiore”.
Egli ha descritto uno studio del 1994 in cui i ricercatori somministrarono alle scimmie dosi diverse del virus del morbillo e scoprirono che dosi più elevate di infezione erano associate a picchi precoci di viremia. Negli esseri umani, ha aggiunto de Swart, le migliori prove provengono da studi nell’Africa sub-sahariana. “Se acquisisci il morbillo attraverso i contatti domestici, dove la frequenza e la dose di esposizione sono più alte (potresti condividere il letto con un bambino infetto) allora in genere hai un rischio maggiore di sviluppare malattie più gravi”, ha detto. “Se un bambino contrae la malattia in un parco giochi o tramite un contatto occasionale, di solito la malattia è meno grave”.
Ho discusso questo aspetto dell’infezione con il virologo e immunologo di Harvard Dan Barouch, il cui laboratorio è tra quelli che stanno lavorando per un vaccino contro SARS-CoV-2, il virus che causa COVID-19. Mi ha detto che gli studi in corso con i macachi stanno esaminando la relazione tra la dose iniziale dell’inoculo di SARS-CoV-2 e la quantità di virus nelle secrezioni polmonari in un secondo momento. Egli crede che ci possa essere una correlazione. “Se estendessimo questa logica agli umani, ci aspetteremmo una relazione simile”, ha detto. “E, logicamente, la maggiore quantità di virus dovrebbe scatenare una malattia più grave provocando una risposta infiammatoria più acuta. Ma queste sono ancora speculazioni. La relazione tra dose virale iniziale e gravità rimane da provare”.
Per rispondere alla terza domanda -se siamo in grado di misurare la carica virale di un paziente affetto da COVID-19 in modo da poter prevedere il decorso della malattia- avremo bisogno di ulteriori ricerche sulla conta di SARS-CoV-2 nei pazienti. Uno studio tedesco inedito ha misurato le cariche virali su tamponi orali prelevati da individui sia sintomatici che asintomatici. Inizialmente, fu riferito che i pazienti asintomatici avevano cariche virali leggermente più elevate rispetto a quelli che si ammalavano. Quei risultati erano curiosi. Ma all’epoca erano stati studiati solo sette pazienti. Sandra Ciesek, direttrice dell’Istituto di virologia medica a Francoforte, che stava conducendo lo studio, mi ha detto che non sono emerse differenze significative tra i due gruppi quando si è studiata una popolazione di pazienti più ampia. “Nei tamponi, non riscontriamo correlazione”, mi ha detto.
Il problema con la misurazione delle cariche virali in un tampone è che “è influenzato da fattori preanalitici, come il modo in cui il tampone viene prelevato”, ha aggiunto. I tamponi orali sono notoriamente influenzati da piccole variazioni nel modo in cui vengono eseguiti. “Ma una correlazione potrebbe essere verificata fra malattia grave e carica virale nel sangue”. Joshua Schiffer, virologo clinico presso il Fred Hutchinson Center e co-autore dello studio su HHV-6, riferisce che metodi più rigorosi di tampone nasale per una serie di virus respiratori hanno prodotto conteggi coerenti e affidabili della carica virale, e che queste cariche generalmente correlavano bene con i sintomi e la progressione della malattia. In un articolo pubblicato online da The Lancet Infectious Diseases a marzo, i ricercatori dell’Università di Hong Kong e della Nanchang University hanno riferito che le cariche virali nei tamponi rinofaringei di un gruppo di pazienti con COVID-19 grave erano in media sessanta volte più alte rispetto alle cariche dei pazienti con una forma lieve della malattia.
Man mano che il virus continua a circolare in tutto il mondo, inizieremo a trovare risposte quantitative a queste domande su come l’intensità di esposizione e le successive cariche virali siano correlate al decorso clinico di COVID-19. Integreremo la vista a volo d’uccello con la vista a occhio di verme. In che modo queste intuizioni cambieranno il modo in cui gestiamo pazienti, ospedali e popolazioni?
Iniziamo con la relazione tra intensità di esposizione e infezione. Pensi, per un momento, a come monitoriamo coloro che lavorano con le radiazioni. Usando la dosimetria delle radiazioni, quantifichiamo l’esposizione totale di qualcuno e fissiamo dei limiti. Sappiamo già quanto sia fondamentale per i medici e gli infermieri limitare l’esposizione al coronavirus utilizzando dispositivi di protezione (maschere, guanti, abiti). Ma per gli operatori sanitari in prima linea nella pandemia di COVID-19, specialmente in luoghi in cui i dispositivi di protezione sono scarsi, potremmo anche tenere traccia dell’esposizione totale e mettere in atto controlli di dosimetria virale, in modo che un individuo possa evitare ripetute interazioni con pazienti altamente contagiosi.
Stabilire una relazione tra dose e gravità della malattia potrebbe, a sua volta, influenzare la cura del paziente. Se potessimo identificare i pazienti presintomatici che erano probabilmente esposti alle più alte dosi di virus, qualcuno che conviveva o socializzava con più membri malati della stessa famiglia (come l’affiatata famiglia Fusco di Freehold, New Jersey, che ha avuto quattro morti), o un’infermiera esposta a molti pazienti che diffondevano grandi quantità di virus, potremmo prevedere chi svilupperà una malattia più grave e dargli priorità quando le risorse mediche sono limitate, in modo che possano essere trattati più rapidamente, o più intensamente.
Infine, l’assistenza ai pazienti con COVID-19 potrebbe cambiare se iniziassimo a registrare il conteggio delle unità virali. Questi parametri potrebbero essere misurati usando metodi di laboratorio abbastanza economici e facilmente disponibili. Immagina un processo in due fasi: in primo luogo, identificare i pazienti infetti e quindi quantificare le cariche virali nelle secrezioni nasali o respiratorie, in particolare nei pazienti che probabilmente richiedono il più alto livello di trattamento. Correlare conta dei virus e misure terapeutiche con l’esito potrebbe condurre a diverse strategie di cura o di isolamento.
Il valore di un approccio quantitativo si applica anche agli studi clinici. Gli studi clinici sui farmaci sono in genere più istruttivi se eseguiti su soggetti che non sono ancora critici: una volta che i malati hanno raggiunto quel livello, qualsiasi terapia potrebbe rivelarsi troppo debole, troppo tardiva. E se il decorso della malattia in tali pazienti viene seguito utilizzando misurazioni della carica virale, piuttosto che tenere traccia solo dei sintomi, l’effetto di un farmaco in studi diversi può essere confrontato in modo più semplice e più accurato.
Vorremmo anche essere in grado di identificare le persone che si sono riprese dall’infezione, che sono diventate immuni al SARS-CoV-2 e non sono più contagiose. Tali persone devono soddisfare due criteri: non devono diffondere virus e devono avere segni di immunità persistente nel sangue (cosa facile da appurare mediante un test anticorpale). Come i cinesi hanno scoperto con il vaiolo nel dodicesimo secolo, tali individui -specialmente gli operatori sanitari- hanno un particolare valore per la medicina: escludendo quelli con immunità compromessa, in genere possono prendersi cura dei pazienti più malati senza ammalarsi a loro volta.
La mia pratica clinica è in oncologia. Nel mio campo la misurazione e la conta sono i pilastri della medicina: le dimensioni di un tumore, il numero delle metastasi, l’esatta contrazione di una massa maligna dopo la chemioterapia. Parliamo di “stratificazione del rischio” (classificazione dei pazienti in base allo stato di salute) e di “stratificazione della risposta” (classificazione dei pazienti in base alla loro risposta al trattamento). Sono capace di trascorrere mezz’ora o più con ogni paziente per descrivere il rischio, spiegare come viene misurata una remissione ed elaborare con attenzione un piano clinico.
Una pandemia, al contrario, va di pari passo con il panico. Il caos regna. I medici italiani appendono flaconi di fleboclisi a pali improvvisati, per pazienti che giacciono su brande improvvisate, in reparti improvvisati. In tali circostanze la misurazione della carica virale può sembrare una sottigliezza improponibile. Ma questa crisi richiederà che stratifichiamo e valutiamo il rischio, e impieghiamo risorse scarse nel modo più efficace.
La parola “epidemiologia” deriva da”epi” e “demos”: “sopra il popolo”. È la scienza dell’aggregazione, la scienza dei molti. Tuttavia, funziona in modo più efficace quando va di pari passo con la medicina, la scienza dell’uno. Quel mattino in cui a Kolkata visitai il santuario di Shitala, la dea delle passate epidemie che decimavano la popolazione era anche la dea personale di una madre che aveva portato un bambino con febbre da una settimana. Per vincere la lotta contro il COVID-19 è essenziale tracciare il percorso del virus mentre si muove attraverso le popolazioni. Ma è altrettanto essenziale misurare il suo percorso all’interno di un singolo paziente. L’uno diventa i molti. Conta entrambi: entrambi contano.