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Gramsci in carne e ossa

Lorenzo Alfano 27/01/2020
Agitatore culturale, usava la penna come una spada, segretario di partito, filosofo, linguista, rivoluzionario, organizzatore politico infaticabile. A 129 anni dalla sua nascita (22 gennaio 1891, Ales, Sardegna) lo ricordiamo con le voci di chi lo ha conosciuto e amato.

Torino, via dell’Arcivescovado. Notte fonda, primissimi anni Venti del Novecento. Alla porta dell’Ordine Nuovo si presenta un signore dall’accento meridionale che chiede di parlare con Antonio Gramsci. Il signore dall’accento meridionale è insistente, pretende subito un colloquio col direttore della rivista (perché l’Ordine Nuovo non era solo il giornale degli operai torinesi, era anche il giornale di Antonio Gramsci).
Ma a Torino nei primi anni Venti il clima politico è teso e all’ingresso dell’Ordine Nuovo ogni sera i lavoratori delle fabbriche fanno i turni a difesa del giornale; tutti si aspettano che prima o poi le squadre fasciste si presenteranno per devastare la sede. La struttura è stata fortificata, gli operai hanno in spalla il fucile e tra il portone e le stanze della redazione si trovano un lungo corridoio, un cortile, un cancello, filo spinato, cavalli di Frisia, bombe a mano e mitragliatrici – o almeno così si dice… La guardia di turno squadra il signore (forse napoletano) per capire se si tratti di una spia della Fiat, di un fascista o di un poliziotto (o tutte e tre le cose), e gli dice che per parlare con Antonio Gramsci si dovrà mettere una benda sugli occhi, così da non poter scoprire nulla riguardo la difesa militare del giornale. A quel punto il tipo sospetto va su tutte le furie, gira i tacchi e fa per andarsene, ma dopo pochi passi si volta e urla: «Dite a Gramsci che è venuto Benedetto Croce!».
Quando Gramsci seppe dell’incidente avvenuto ne fu dispiaciuto ma ne rise anche, perché proprio non riusciva ad immaginare il più importante personaggio della cultura italiana bendato e barcollante in cerca di Gramsci. Ne rideva perché Antonio era un uomo dall’umore semplice: socievole, sorridente, che esplodeva spesso in allegre risate giovanili che mettevano tutti di buon umore. Risate buffe che «saltellavano a scatti», le risate di un uomo che «non si impermaliva mai». Un uomo abituato alle barzellette, alla compagnia e agli scherzi (fatti e ricevuti). Questa è l’immagine di Gramsci che ci arriva nitida dai suoi amici e compagni, le cui testimonianze (che compongono il corpo di fonti all’origine di questo articolo) non solo arricchiscono di dati biografici, ma ci aiutano a comprendere meglio il contesto (duro ma spesso felice) in cui si sviluppò il suo pensiero. Insomma, non l’eroe tragico e serioso che di solito si immagina. E anche se il poeta Corrado Alvaro lo definì «l’immagine di un Leopardi passato per la Val Padana col socialismo», Gramsci con Leopardi condivideva ben poco se non un’intelligenza viva, vorace e universale. In Gramsci non c’era traccia di pessimismo se non il famoso «pessimismo dell’intelligenza», che però secondo lui doveva servire per prevedere di volta in volta la peggior situazione possibile, «di modo da poter mettere in movimento tutte le riserve di volontà e ottimismo, per essere in grado di abbattere l’ostacolo». Com’è noto però Gramsci con Leopardi condivideva un corpo segnato dalla stessa malattia, il morbo di Pott. Una malattia che spesso gli procurò lo scherno da parte dei poveri d’animo e di coloro che non sapevano cosa rispondere di fronte a una schiacciante superiorità dialettica. Come quella volta nel 1925, quando i fascisti interruppero il suo unico discorso tenuto alla Camera dei deputati urlandogli: «Taci Rigoletto!». O ancora, quando durante il periodo dell’Università alcuni compagni del corso di Filosofia teoretica dissero al professor Annibale Pastore: «Si guardi da Gramsci non è che un gobbo» – «Sì, lo è ⎯ rispose lui ⎯ ma che gobbo!». Proprio come Cezanne diceva di Monet: «Non è che un occhio, ma che occhio!».
La malattia perseguitò Gramsci per tutta la vita, aggravandone le sofferenze carcerarie che lo portarono alla morte e complicandogli non poco la quotidianità. Ci si potrebbe quindi interrogare a lungo su cosa ne sarebbe stato di Gramsci se non fosse stato affetto dal morbo di Pott, ma probabilmente, come disse Giuseppe Amoretti con parole d’affetto: «Antonio non poteva essere altrimenti e un Antonio Gramsci diverso o migliore non era pensabile. Egli doveva essere quello che natura e società avevano fatto fiorire, e la sua sorte fisica e umana doveva essere una gran sorte singolare, come le sorti dei geni e degli eroi, per i quali non vi può essere né gioia, né dolore ma solo una gran via fiorita da percorrere sino in fondo».
Ma a Torino, in quei primi anni Venti, non c’era tempo da perdere e gli interrogativi esistenziali per Gramsci passavano spesso in secondo piano. Era un lavoratore infaticabile e aveva un solo datore di lavoro: la classe operaia. Ma avere a che fare con gli operai delle fabbriche torinesi non era affatto semplice, perché Gramsci (a differenza di molti intellettuali di ieri e di oggi) non pensava ai lavoratori come a dei soggetti passivi. Come dirà Umberto Calosso, in una seduta dell’Assemblea Costituente, per Gramsci la classe operaia era «l’aristocrazia del genere umano» e come tale andava trattata. Il rapporto tra intellettuali e masse doveva essere sì «educativo» ma l’insegnamento e la cultura dovevano muoversi in entrambe le direzioni: dai lavoratori agli intellettuali e viceversa, andando a costruire una reale pedagogia politica di massa. Per Gramsci non «si andava» alla classe operaia, non «si scendeva» tra i lavoratori a portare il verbo: per Gramsci «si saliva alla classe operaia». La prospettiva era quindi ribaltata in partenza e le parole di Giuseppe Ceresa (allievo di Antonio in carcere) spiegano perché Gramsci fosse percepito come un intellettuale diverso da tutti gli altri: «Vicino a lui non sentivamo quel peso, quel distacco che quasi sempre avverte un operaio quando parla con un intellettuale. Egli non ci trattava né ci considerava come dei semplici strumenti materiali dello sconvolgimento sociale, incapaci di assurgere a protagonisti coscienti e intelligenti della rivoluzione».
E fu per mettere in moto quella pedagogia politica di massa che Gramsci, nel 1919, si inventò l’Ordine Nuovo. Oltre a Gramsci c’erano altri tre redattori: Angelo Tasca, convinto pacifista della prima ora, il futuro segretario del Pci Palmiro Togliatti e Umberto Terracini che nel 1948 firmerà la Costituzione italiana in qualità di presidente dell’Assemblea costituente. Tutti meno che trentenni e tutti perseguitati in seguito da Mussolini: Tasca e Togliatti saranno costretti all’esilio mentre gli altri due riceveranno, nel 1928, condanne per 45 anni di galera dal Tribunale fascista. E tutti e quattro, come dirà Terracini, accomunati solamente da una vaga passione per la cultura proletaria: «Volevamo fare, fare, fare».
E il lavoro da fare certo non mancava. Il grande massacro del ’15-’18 si era concluso solo pochi mesi prima e non aveva portato nulla alle classi popolari se non un milione di morti. Torino era una polveriera, la rabbia proletaria si toccava con mano e gli operai non credevano più al “radicalismo parolaio” del Psi, un partito che col termine rivoluzione riempiva i propri roboanti comizi, ma che non era capace di indicare la via per passare dalla teoria alla pratica. Nel frattempo però, nel 1917, la Russia aveva suonato il campanello: Marx era grande, Lenin il suo profeta, «Pane, pace e terra» era la parola d’ordine. L’Ottobre Rosso era la speranza degli oppressi e i bolscevichi l’esempio da seguire per i settori più politicizzati della classe operaia italiana e mondiale. E in Italia i più bolscevichi di tutti erano proprio i quattro redattori torinesi dell’Ordine Nuovo.
La scintilla non poté che scoccare e nel giro di un paio d’anni il movimento operaio divampò: gli scioperi si susseguivano in un clima pre-insurrezionale, le fabbriche venivano occupate, gli operai si armavano tramutandosi in Guardie Rosse e, soprattutto, la produzione nelle fabbriche proseguiva anche durante le occupazioni. Quella che fino ad allora era nota come la città dell’automobile diventava la città dei Consigli di fabbrica, la città che i giornalisti di tutto il mondo andavano a visitare: la «Mecca del comunismo italiano», la «Pietrogrado d’Italia». Il potere operaio si affermava, quindi, non solo sul piano “militare” ma anche, e soprattutto, sul piano dell’intelligenza collettiva di una classe lavoratrice capace di sostituirsi ai padroni. E i padroni ne rimasero, giustamente, terrorizzati. Quel mondo alla rovescia era infatti uno scandalo intollerabile e solo il fascismo riuscirà a riportare l’ordine che le istituzioni liberali non erano più in grado di costruire a partire dal consenso. Un ordine e un consenso che le classi dirigenti seppero ri-ottenere solo con l’uso del bastone.
Ma nel ’19-’20 la marcia su Roma era ancora lontana, e l’Ordine Nuovo era un pullulare di attività. La redazione del giornale era ormai l’epicentro della lotta politica cittadina e ogni giorno, ogni pomeriggio, vi si svolgeva la “processione”. Dall’ufficio di Gramsci passavano tutti: compagni di Sezione e della Frazione comunista; i dirigenti del movimento giovanile e femminile; i capi sindacali. Passavano intellettuali, guardie rosse, ex docenti universitari di Antonio, compagni di base, semplici senza partito. Come si può immaginare, questo quotidiano lavorìo serviva affinché l’Ordine Nuovo non perdesse mai il contatto col movimento politico reale, però il continuo via vai creava anche qualche problema a Gramsci, che spesso non riusciva neanche a terminare gli articoli che gli venivano richiesti. E certe volte, come racconta Mario Montagnana (redattore del giornale), Gramsci andava letteralmente obbligato a scrivere: «Alle 9 o alle 10 di sera, in un momento in cui non vi erano ‘visitatori’, un redattore andava da Gramsci e gli diceva a bruciapelo: ‘Adesso non entra più nessuno fino a quando non sia pronto l’articolo’. Un giro di chiave alla porta; un compagno nel corridoio per allontanare gli ‘scocciatori’ e dopo un’ora o un’ora e mezza Gramsci ci consegnava finalmente in due o tre foglietti grandi come il palmo della mano, un articolo tracciato con una scrittura fitta, nitidissima, quasi senza una correzione».