Ancora sangue nel Sahel, dove il jihad resiste e colpisce
02/12/2019 |
Almeno 14 persone morte nell’attacco a una chiesa protestante in Burkina Faso. Mentre Macron piange i morti francesi in Mali e ripensa la missione.
Burkina Faso, il “Califfato” rafforza la sua presenza. Col sangue. Almeno 14 persone sono morte e altre sono rimaste ferite nell’attacco a una chiesa protestante in Burkina Faso, durante una funzione religiosa. Tra le vittime vi sarebbero anche diversi bambini.
L’attacco è avvenuto a Foutouri, un’area già teatro di aggressioni da parte di gruppi terroristi legati ad al Qaeda e all’Isis. In Burkina Faso gli attacchi armati di matrice jihadista a luoghi di culto cristiani sono sempre più frequenti, e le forze di sicurezza stentano ad averne ragione per mancanza di uomini e mezzi. Nella scorsa primavera i raid contro i cristiani sono stati quasi quotidiani: tra il 29 aprile e il 26 maggio, quindi in meno di un mese, almeno 20 persone erano morte in azioni attribuite ai gruppi jihadisti militanti Ansar-ul-Islam e JNIM (Group in Support of Islam and Muslims). Uccisi anche diversi imam, in una spirale di violenza progressivamente intensificata da quattro anni a questa parte, spesso alimentata da milizie provenienti dai Paesi confinanti. Ed è del 6 novembre l’attacco a un convoglio di una società canadese in cui 37 persone hanno pero la vita e 60 sono rimaste ferite. “E’ in atto una persecuzione dei cristiani. Da mesi noi vescovi denunciamo quanto accade in Burkina Faso, ma nessuno ci ascolta. Evidentemente preferiscono tutelare i propri interessi”, è la reazione di monsignor Justin Kientega, vescovo di Ouahigouya, dopo l’ennesimo attacco.
Il Burkina Faso è al centro del mirino dei gruppi jihadisti in base ad una strategia ben precisa: minare la convivenza pacifica tra le diverse comunità religiose e provocare conflitti inter comunitari. Il Burkina Faso è stato un esempio di questa convivenza pacifica per tutti gli Stati della regione. Gettare nel caos questo Paese significa minare la sicurezza del Sahel e delle aree limitrofe. Il pericolo della trappola della guerra confessionale è stato di recente denunciato dal Presidente del Burkina Faso, Roch Kaboré.
Altra trincea del Califfato in Africa è il Mali. E qui lo scontro investe pesantemente la Francia. Nei giorni scorsi, tredici soldati francesi sono morti nello schianto accidentale tra due elicotteri in Mali. I militari, sei ufficiali, sei sottufficiali e un caporale, in Africa erano impegnati in un’operazione di contrasto ai miliziani jihadisti. Si tratta dell’episodio con più morti per la missione francese, nel territorio sub-sahariano del Sahel dal 2013 con 4.500 soldati. Salgono dunque a 38 i militari francesi che hanno perso la vita in azione in Mali dall’inizio dell’operazione Serval.
“I soldati del Califfato hanno attaccato una base militare dove sono posizionati elementi dell’esercito maliano appostata nel villaggio dell’Indelimane, nella regione di Menaka, con diversi tipi di armi”. Con questa dichiarazione, firmata ‘Provincia Africa Occidentale’, l’Isis aveva rivendicato l’attacco.
La crisi della sicurezza è scoppiata nel 2012, quando i miliziani islamisti presero il controllo della porzione settentrionale della nazione; l’esercito di Bamako è riuscito a riconquistare questi territori con l’aiuto della Francia – ex potenza coloniale –, ma le violenze non sono terminate. L’instabilità in Mali non è relegata al solo nord. Nel sud, ad esempio, è presente il gruppo estremista Ansarul Islam. Nelle regioni centrali operano invece diverse milizie legate ad al Qaeda. Le numerose cellule jihadiste sono state in grado di inserirsi nelle tensioni tra i vari gruppi etnici sfruttandole a proprio vantaggio per seminare odio e arruolare nuovi combattenti.
Dal Burkina Faso alla Nigeria, dalla Somalia al Mali, dal Chad al Sudan, dal Kenya alla Repubblica Centroafricana, dal Maghreb al Sahel all’immensa area sub sahariana, in Africa cresce la presenza jihadista. Le forze in campo sono possenti, bene addestrate, meglio ancora armate, ferocemente indottrinate: Boko Haram, al Sheebab, al Qaeda nel Maghreb Islamico (Aqmi), Ansar Al Sharia, Isis. Il quadro della penetrazione jihad-qaedista in Africa è impressionante. La sola Aqmi, ad esempio, è operativa in Algeria, Libia, Mauritania, Tunisia, Mali, Niger, Senegal, Nigeria, Burkina Faso.
Attentati e rapimenti di occidentali sono all’ordine del giorno per procurarsi denaro e oliare gli ingranaggi della causa jihadista. L’Aqmi riporta direttamente al successore di Osama bin Laden, Ayaman al-Zawahiri e risponde ai suoi ordini. Oltre ad Al Qaeda in Nigeria sono operative le truppe di Boko Haram (letteralmente: l’educazione occidentale è peccato). Il gruppo, fondato nel 2001 da Ustaz Mohammed Yusuf, ha come obiettivo la presa del potere e l’instaurazione in tutto il Paese della sharia (la legge coranica). In Somalia, il terrore si chiama Al Shabaab (letteralmente: la Gioventù). E’ un gruppo insurrezionale islamista che si è sviluppato in seguito alla sconfitta dell’Unione delle Corti Islamiche da parte del Governo Federale di Transizione (GFT) e dei suoi principali sostenitori, i militari dell’Etiopia durante la guerra in Somalia. Al Shabaab nasce come filiale qaedista in Somalia, ma nel tempo si distacca da al-Qaeda e non risponde più agli ordini di Al-Zawahiri. Il gruppo opera con attentati e rapimenti anche in altri Paesi, come il Kenya e l’Uganda. Larga parte dei suoi finanziamenti provengono dai pirati somali. Una penetrazione capillare, su un territorio vastissimo e, vedi la Nigeria, ricchissimo di gas e petrolio. E pensare che un signore alla Casa Bianca ripete che la guerra all’Isis è stata vinta al 100%.