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Zaba è morto. Antirequiem per un bastardo

Fausto Giudice 22/09/2019
La notizia è trapelata giovedì 19 settembre 2019: Zine El Abidine Ben Ali è morto all’età di 83 anni.

Tradotto da Alba Canelli

Finalmente. Non è durato così a lungo come il suo luogotenente e successore Essebsi, ma ha retto comunque bene, nonostante i ripetuti tumori che lo avevano divorato per oltre 20 anni. In giorni come questi, il miscredente che sono spera che esista davvero, questo inferno di cui tutti i credenti ci minacciano. In assenza di giustizia umana, vorremmo vedere la giustizia divina. Zaba, un altro bastardo morto nel suo letto, tra lenzuola di seta, impunemente, quando sarebbe dovuto morire nel carcere di Mornaguia o altrove in questo mini-gulag tunisino dove languono 30.000 cittadini, un terzo dei quali per aver fumato una canna.

Se così non è stato, è perché ancora una volta grazie alla diligenza dei suoi scagnozzi che, sapientemente consigliati da un’ambasciata yankee ancora in allerta, hanno messo lui e il suo entourage su un aereo la mattina del 14 gennaio 2011. Questa era solo la ripetizione di uno scenario collaudato, già applicato nel febbraio 1986, quando, contemporaneamente, i coniugi Marcos e Duvalier lasciarono i paesi che tenevano sotto il loro controllo, rispettivamente le Filippine e Haiti.
Nel 1991, su richiesta dei miei compagni maliani, mi recai a Bamako, dove, in ottobre 1900, era scoppiato un movimento di rivolta che prefigurava l’intifada tunisina. Tutto era iniziato con un’operazione di polizia per “sgomberare” i giovani venditori selvaggi intorno al Gran Mercato. Questi avevano reagito con energia ai manganelli e gas lacrimogeni dei poliziotti. Questo è stato l’inizio di un movimento le cui manifestazioni si sono susseguite e sono cresciute nel corso delle settimane con la mobilitazione di gruppi politici clandestini. Quando sono arrivato all’inizio di febbraio 1991, ho pregato i miei compagni di cercare di rovesciare il sergente Moussa Traoré – che si era autopromosso generale, salito al potere con un colpo di stato….il 22 marzo 1968! Hanno riso e mi hanno detto che stavano facendo quello che potevano. Hanno riso molto più forte quando, dopo aver fatto un giro di ricognizione intorno al palazzo presidenziale, sulle alture che dominano la città, e dopo aver notato che solo una strada conduceva lì, ho chiesto loro: “Moussa Traoré ha un elicottero?”. “Sì,” risposero, “ma non può volare, mancano i pezzi di ricambio”, aggiungendo: “Ah, ci hai pensato anche tu?” Era ovvio: il D-Day, quando la folla salirebbe al palazzo, il tiranno non avrebbe avuto vie di fuga.
Ed è così che è successo: venerdì 26 marzo – il 22 la repressione aveva ucciso un centinaio di persone – avvertito da messaggi in codice trasmessi alle 6 del mattino alla radio nazionale (“Il signor Mamadou Sanogo annuncia il suo matrimonio con la signorina Aminata Diawara….”), i manifestanti hanno iniziato a riunirsi per salire verso il palazzo. Un tremante Moussa Traoré, accompagnato dall’altrettanto tremante moglie Mariam, non ha esitato un secondo quando il comandante della Guardia Presidenziale, il tenente colonnello Ahmadou Toumani Touré, è venuto a dirgli: “Signor Presidente, la porteremo in salvo”. E la coppia è stata portata…nella prigione centrale. Condannato a morte nel 1993, la sua condanna è stata commutata in ergastolo ed è stato graziato nel 2002 dal presidente Alpha Omar Konaré. Moussa Traoré trascorre una tranquilla vecchiaia in una grande villa nel quartiere Djikoroni-Para di Bamako, donata dal governo maliano. E i suoi sostenitori crearono il grottesco Movimento Popolare del 22 marzo….. Ma alla fine, fu il primo dittatore africano ad essere giudicato e condannato nel suo paese. E’ sopravvissuto a Zine Abidine Ben Ali, nato come lui nel 1936.
La guardia presidenziale tunisina non era guidata da un Ahmadou Toumani Touré e l’elicottero cartaginese era in condizioni di volare. Inoltre, nessun manifestante tunisino ha avuto il coraggio di prendere la direzione del Palazzo Presidenziale per catturare il bastardo. Lui e il suo entourage hanno così potuto respirare gli effluenti petroliferi della casa Saud.
Un giorno, un ambasciatore yankee, parlando con il presidente Truman, gli disse, a proposito del dittatore di Santo Domingo, Trujillo: “È un nazista”. “Sì,” rispose il presidente, “ma è il nostro nazista”. Avrebbe potuto dire la stessa cosa di Ben Ali. Il ragazzo di Hammam-Sousse aveva iniziato la carriera come ausiliario della polizia del protettorato francese, partecipando alla repressione delle manifestazioni nazionaliste. Preso in mano dal partito al potere dopo l’indipendenza, è stato rapidamente messo in orbita. Inviato prima a Saint-Cyr e poi dallo Zio Sam, ha imparato tutte le tecniche di intelligence militare e ha fatto carriera nelle forze repressive, completandola con missioni speciali, come quando, nominato ambasciatore a Varsavia dopo essere stato licenziato dalla Direzione della Sicurezza Generale per non aver potuto impedire la rivolta di Gafsa nell’aprile 1980, è diventato il piccolo fattore della CIA, responsabile del trasporto degli aiuti organizzati da Washington, in coordinamento con il papa polacco Woytila, al sindacato Solidarnosc. Washington non lo dimenticherà.
Nel 1987, di fronte all’ascesa della protesta islamista e all’incapacità di governare di Bourguiba, Washington subappalta al SISMI, l’intelligence militare italiana, il dossier del “colpo di stato medico” per rimuovere delicatamente il Combattente Supremo (Bourguiba). La loro scelta converge, all’inizio sul generale Habib Ammar, stessa età, stessa origine e promozione di Ben Ali. Ma all’ultimo momento è arrivato un contrordine da Washington a Roma: “Cambiamo cavalli, prendiamo Ben Ali”. Un factotum obbediente e non troppo intelligente è meglio di un generale politicizzato. Si sussurra che Ben Ali, saputo che era stato scelto per prendere il posto del Raïs, sarebbe svenuto. L’uomo era certamente emotivo e non molto coraggioso. Assolutamente, per niente.
Come ha potuto un idiota del genere tenere il comando per 23 anni? Questa è una domanda che viene spesso posta quando si esaminano molti dittatori, e non solo in Africa. La risposta è semplice: usando la tecnologia – Ben Ali aveva trovato il modo di laurearsi come ingegnere elettronico, mentre uno dei suoi soprannomi era “Bac moins 12” (Maturità meno 12) -, ascoltando i padroni, da Washington a Bruxelles e Berlino, e acquistando le competenze di cui aveva bisogno, dal sociologo tunisino di sinistra al mercenario della pluma italiano autore di libri alla sua gloria, attraverso ministri, deputati, giornalisti ecc. a cui si fanno regali. E, naturalmente, ridistribuendo briciole dai succosi affari di famiglia ai fidi.
Ben Ali ha completato il lavoro iniziato sotto Bourguiba nel 1972, con la promozione degli investimenti stranieri e ha fatto della Tunisia una sottoprefettura dell’Unione Europea. Ha lasciato in eredità un debito disgustoso che la Tunisia non sarà mai in grado di ripagare e che non avrebbe motivo di ripagare. Ci ha lasciato un paese dove il pomodoro non ha più il colore e il sapore del pomodoro, dove l’olio d’oliva raggiunge un prezzo astronomico, dove l’economia è gestita al modo di Cosa Nostra.
Sarà sepolto in paese? Non merita nemmeno il destino di una delle sue numerose vittime, Kamal Matmati, morto sotto tortura e gettato nel cemento di un ponte di Tunisi.
Per quanto riguarda la sua vedova, la sfavillante Leila Trabelsi, ancora verde- ha solo 63 anni, l’età dell’indipendenza – non mi sorprenderebbe se facesse la steaa fine di Imelda Marcos, la vedova del dittatore filippino – nota come “Signora 5%” -, tornata tranquillamente nel paese, dove ora è una deputata democraticamente eletta, continuando a piangere per i suoi quindici cappotti di visone, 508 vestiti, 1.000 borse e 3.000 paia di scarpe sequestrate dopo la rivoluzione del 1986.