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YEMEN. Sette bambini uccisi in un raid saudita

Chiara Cruciati 25 settembre 2019
Un caccia di Riyadh centra una palazzina, 16 vittime. La strage a pochi giorni dall’offerta di cessate il fuoco del movimento Houthi, accolta con freddezza dall’Arabia Saudita, e a dieci giorni dall’attacco contro una raffineria e un giacimento sauditi, che i ribelli continuano a rivendicare.

Ad appena quattro giorni dalla nuova proposta di pace rivolta dal movimento Ansar Allah, espressione politica degli Houthi, alla coalizione a guida saudita, l’ennesimo bombardamento fa strage di civili: ieri un raid dell’aviazione dell’Arabia Saudita ha centrato un palazzo a Qa’tabah nella provincia di Daleh, a est di Taiz (tra le città più contese della guerra iniziata nel marzo 2015), uccidendo almeno 16 persone.
Tra loro, fanno sapere fonti mediche dell’ospedale al-Thawra, sette bambini e quattro donne: “Sedici persone, tra cui donne e bambini, sono stati uccisi. Altri nove sono i feriti”. La città colpita, Qa’tabah, si trova lungo la direttrice che collega la capitale Sana’a a nord con Aden, il più importante centro del sud del paese, che nell’ultimo mese ha assistito alla faida interna al fronte anti-Houthi, tra i secessionisti meridionali alleati degli Emirati e i governativi fedeli a Riyadh.
Nessun commento da parte della coalizione di “volenterosi” paesi sunniti che da quattro anni e mezzo bombarda lo Yemen per disfarsi della ribellione Houthi, senza successo. L’unico risultato archiviato è la peggior crisi umanitaria del mondo, con oltre 24 milioni di persone che necessitano di aiuti umanitari per sopravvivere. Senza, molto spesso, riceverne: il blocco aereo e navale imposto da Riyadh, che considera lo Yemen il proprio intoccabile (e strategico vista la sua posizione geografica) cortile di casa, impedisce l’arrivo continuo e sufficienti di cibo e medicinali.
La guerra dunque continua con picchi di tensione che vanno di pari passo con il conflitto per procura in corso tra le due potenze regionali, Iran e Arabia Saudita. E’ dallo Yemen, insistono gli Houthi, che sono partiti i 19 tra droni e missili che sabato 14 settembre hanno centrato una raffineria e un impianto di estrazione del greggio poco fuori Riyadh. Avrebbero percorso quasi 700 km, difficile pensare che non si sia trattato di armi ad alta tecnologia fornite dagli iraniani. Da parte loro Washington e Riyadh sono più che convinte che l’attacco non sia partito dallo Yemen, ma dal territorio iraniano, o al massimo iracheno.
E’ in tale contesto che una settimana dopo la pioggia di missili caduta su due centri fondamentali per il mercato energetico saudita (la produzione continua ma non la raffinazione) gli Houthi hanno teso, venerdì 20 settembre, la mano: saranno fermati gli attacchi con i droni verso il territorio saudita se la coalizione interromperà i bombardamenti in Yemen. Questo quanto dichiarato dal capo del Consiglio politico supremo degli Houthi, Mahdi al Mashat.
“Dichiariamo di smettere di colpire il territorio dell’Arabia Saudita con droni militari, missili balistici e altre forme di armi e ci aspettiamo una mossa reciproca – ha detto Al Mashat – Ci riserviamo il diritto di rispondere se non riescono a ricambiare positivamente questa iniziativa. Chiedo a tutte le parti in guerra di impegnarsi seriamente in autentici negoziati che possano portare a una completa riconciliazione nazionale che non escluda nessuno”.
Un messaggio a favore del dialogo a nove mesi di distanza dal negoziato svedese che aveva permesso con grosse difficoltà ed enormi ritardi di arrivare a una tregua e al ritiro Houthi da Hodeidah, città costiera occidentale, fondamentale al traffico in ingresso: è da qui che passa il 70% dei cargo internazionali con a bordo aiuti umanitari per la popolazione.
A quella tregua non era seguito nessun altro passo concreto fino a sabato. Ma ad accogliere la proposta di cessate il fuoco sono solo le organizzazioni internazionali, dall’Onu all’Unione Europea: entrambe si sono dette soddisfatte, a partire dallo stremato inviato delle Nazioni Unite Martin Griffiths che a fatica aveva fatto sedere allo stesso tavolo, lo scorso dicembre, la delegazione Houthi e quella governativa.
Lo stesso entusiasmo non risuona a Riyadh. La reazione è stata freddina: il ministro degli Esteri Adel al-Jubeir si è limitato a dire di “giudicare la controparte dalle sue azioni e non dalle sue parole”. “Dunque, vedremo se lo faranno davvero o meno”. Di certo l’ultimo raid che ha polverizzato una palazzina e sedici persone non aiuterà a costruire un reale percorso di dialogo e inclusione politica, quella che gli Houthi – minoranza sciita da sempre marginalizzata – chiedeva di avere prima di occupare quasi tutto il paese tra il settembre 2014 e il 2015.