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Ridefinire la situazione Note sulla collassologia* e il suo impatto

François Tison 25/07/2019
Dieci anni fa, parlare della catastrofe globale era difficile ed era percepito, anche da persone sensibili alle questioni ecologiche e politiche, come un estremismo.

Cercare di organizzarsi di conseguenza era ancora più incompreso. Oggi il problema è opposto. La proliferazione degli allarmi e delle teorie, in particolare sul cambiamento climatico e sulla crisi della biodiversità, ha contribuito a diffondere la coscienza della catastrofe, ma in una confusione di concetti e di sentimenti che rende labirintico il nostro presente.

Tradotto da Silvana Fioresi

Editato da Fausto Giudice
Due di questi discorsi, che soprattutto si fanno carico della nozione di collasso, conoscono un successo significativo : il survivalismo, proveniente dagli USA e adottato in Europa, considera la catastrofe ecologica come una delle cause possibili del collasso al quale bisogna prepararsi ; la collassologia divulga con forza un’analisi della fragilità sistemica della nostra civiltà e evidenzia i determinanti ecologici di questa fragilità [1]. Le conclusioni di questi due discorsi condividono la necessità di prepararsi, ma sono diametralmente opposti nel modo di farlo: individualista, virilista, guerriera, identitaria e conservatrice per i primi, volta a una ricostruzione comune di una resilienza di gruppo per i secondi. Survivalisti e soprattutto collassologi contribuiscono ai miei occhi a complicare ulteriormente il labirinto dell’analisi e dell’azione.
Qui non si tratta di un attacco ai lavori di Pablo Servigne e Raphaël Stevens: fra gli ecologisti, tra coloro che condividono più o meno la situazione attuale, le controversie strategiche prendono un posto che finisce per impedire ogni gesto. Non voglio oppormi alla loro visione, ma partecipare a chiarire quello che comporta di nefasto, e difendere una via, più vicina al catastrofismo illuminato di Jean-Pierre Dupuy o all’ecosocialismo, che tenga conto della catastrofe attuale piuttosto che di un collasso futuro, e ci aiuti a trovare i modi per farlo.
Diagnosi
Il quadro della situazione che Servigne e Stevens delineano è giusto, comprese le cause del disastro, anche se si può deplorare l’assenza di un’analisi critica del capitalismo contemporaneo e della sua storia [2] . Questa diagnosi, certo, è solo una sintesi di lavori conosciuti [3] , ma ha una virtù pubblicitaria : visto che porta ad una conclusione catastrofica, il valore dell’allarme è potente e tocca un gran numero di persone; ha anche il merito di indicare l’insufficienza o l’impossibilità di risposte ossimoriche come lo sviluppo sostenibile o il capitalismo verde. Ma il muro sullo sfondo del quadro, molto probabilmente, non va bene e, soprattutto, questa analisi non lascia molte altre prospettive che una nuova forma di passività, febbrile e ripiegata, anche se essa invita ad altro, ne riparleremo.
Questione di tempo
Pensare alla prospettiva del collasso (invece di pensarlo in atto):
ribadisce la mistica della Grande Notte anarchica o dei limiti intrinseci al capitalismo, contraddizioni marxiane che devono portarlo a termine;
sposta i sentimenti – da affrontare: paura, rifiuto, ecc. – verso il futuro e l’incerto, mentre è il regime della storia, della conoscenza, compresa anche prospettiva, e dell’azione presente che bisogna rendere possibile individualmente, collettivamente e istituzionalmente;
scagiona quindi ogni azione qui e ora per limitare le conseguenze del disastro; solo la cultura di una resilienza individuale o comunitaria al crollo è presa in considerazione come risposta. [4].
Ovviamente questa risposta è più seducente – rassicurante? – di quella dei survivalisti, questi cugini, ma la cui conclusione è tutt’altro, iper individualista, conservatrice (dalla conservazione di sé a quella del loro modo di vivere, espurgato senza dubbio, ma per quanto possibile in modo identico [5]), paramilitare, gratuitamente violenta, insomma perlopiù identitaria [6]. Per loro la minaccia è generica : si preparano al fallimento della logistica o delle reti, all’incidente nucleare [7] o all’invasione dei migranti, poco importa, si preparano. La visione dell’umano dipende contemporaneamente da un pessimismo hobbesiano da bar e da un amor proprio impazzito.
La risposta dei collassologi, fondata sull’aiuto reciproco, ha perlomeno il merito di rivenire a uno stadio protopolitico: un gruppo affiatato ha migliori opportunità del tecnocacciatore stracarico di armi, di munizioni e di gesti marziali. Ma non è all’altezza della diagnosi sulla situazione presente, delle poste in gioco descritte dai loro copioni (aiuto reciproco e comunità di permacultura contro estinzione di massa?), né dei rapporti di forza avviati.
Definizioni
I limiti dei loro lavori consistono innanzitutto in un problema di definizione, all’origine della confusione che propagano.
Con collasso, quindi, intendiamo quello che anche loro chiamano tracollo o collasso, considerato come prospettiva: è il rischio di un cambiamento brutale delle nostre condizioni di vita, la minaccia che incombe, a corto o medio termine, sul mondo così come lo conosciamo.
Il mondo così come lo conosciamo, preciso : una civiltà termo-industriale estrattivista, produttivistica-consumistica, multi-effluente, in via di globalizzazione, fondata sull’energia a buon mercato, i tassi di crescita e il debito, il brevissimo termine economico (bilancio annuale) e politico (calendario elettorale), gli Stati centrali e le transnazionali, la proprietà e l’accaparramento, l’individualismo, le gerarchie, le disuguaglianze infra e extra statali, l’eredità post coloniale, lo sfruttamento e la frammentazione del lavoro, un’infrastruttura logistica sempre più densa, complessa e, se non fragile, almeno dipendente da una continua manutenzione. Il capitalismo, dunque, nonostante alcuni la giudichino una parola superata. Non è il nostro caso: il capitalismo non ingloba tutta la nostra civiltà; la nostra civiltà non ingloba la civiltà; la sua ambizione egemonica, spesso nell’angolo morto (« gli Africani vogliono diventare classe media ») dell’ideologia del progresso, si presenta tanto più come zona cieca o come evidenza (« la gente che accede alla classe media vuole la carne ») che è contestabile e contestata, dentro e fuori. 
Il concetto del capitalismo ha questo interesse suscettibile di essere oggetto di analisi, la quale in particolare può portare alla luce:
la sua responsabilità (il capitalocene [8] piuttosto che l’antropocene),
la sua resilienza come sistema e la sua plasticità, per esempio la conversione delle economie di guerra in economie di pace o, oggi, l’integrazione del bio nell’agroindustria di massa e i mercati emergenti sulla cresta dell’onda climatica: quello dell’auto elettrica, delle compensazioni del carbonio, dei “certificati verdi” elettrici, dissociato da quello del kilowatt, ecc. 
il suo polimorfismo e la sua integrazione profonda, nell’habitus e persino nel corpo umano (i tassi di nanoparticelle di plastica o di glifosati nelle cellule dei miei figli?) e non umani: tentazione quasi cosmica in questo modo di attraversare come un flusso e di occupare come un dispositivo ogni spazio, 
la storia della sua non universalità e della violenza necessaria al suo dominio.
Per catastrofe – e per provocazione – intendiamo qui, al contrario dei collassologi, la nostra situazione, quella di un cambiamento brutale in effetti, ma che è già in corso, e la cui brutalità si prevede solo nel lungo termine – sarà la storia naturale a giudicare sulla rapidità e sulla violenza di questo cambiamento, ma la diagnosi delle esponenziali dovrebbe essere sufficiente per il nostro presente. La catastrofe non è la civiltà industriale, la ma sua conseguenza. [9]
Meno problema di definizione che ambiguità deleteria, il successo di collassologi sembra anche tenere ad una sfocatura, deliberata o no, sul rapporto che intrattengono (o che lettori, dobbiamo intrattenere) con il crollo, rapporto che unisce timore e attesa, o paura e desiderio, ingredienti base di un buon millenarismo, la prima chiamando la seconda tramite la preparazione, altro punto in comune col survivalismo.
La collassologia ha, in ogni caso, un forte potere di seduzione, il successo editoriale lo dimostra; lo stesso per il survivalismo e il suo ormai famoso salone parigino (Survival Expo). Bisogna sicuramente interrogare l’uno e l’altro: come ci piace dire oggi, di cosa sono il nome? [modo di dire: che cosa rappresentano?, diventato di moda dopo il saggio di Alain Badiou del 2007: De quoi Sarkozy est-il le nom ? NdE], Quello che dimostrano è innanzitutto che la catastrofe impregna sempre di più gli spiriti e che certi, sempre più numerosi, non si accontentano né di inverdimenti congiunturali al modo macroniano, né dell’appellismo ripetuto [10]. Quello che dobbiamo riconoscergli è che prendono in considerazione un dopo e un altrove: compito enorme. Ma schiacciante. Collassologi e preppers non si preparano a niente e non preparano molto.
Fantapolitica
· Cosa resta possibile? Forse, supporre che se non possiamo impedire la catastrofe, poiché è già avviata, se non possiamo impedire all’irreparabile di essere commesso, come si dice dei suicidi, possiamo limitarne le conseguenze. Limitare i danni, ecco un programma che non affascinerà molti, e che implica un vigore e un coraggio hollywoodiani, ma supponiamo; supponiamo che la domanda: “Che fare?” conservi un minimo di attualità, e che l’inizio di risposta : “Prendere il problema alla radice” non ci tolga la parola per sempre, sotto forma di schedari S [sistema di segnalazione/osservazione poliziesca di persone pericolose creato dal regime di Vichy e tuttora in funzione. Contiene 20 000 schede, delle quali 850 di gihadisti, NdE] e di cellule di sradicamento, di sparapalle LBD o di granate, di risposte imperiali (“la classe media, una volta sazia di carne, vorrebbe imporre il suo vegetarismo da bobo** / da hipster*** / da minimalista convalescente / da frugalista razionale”), meta-imperiali (“i vostri dubbi da rivoluzionario, roba da ricchi”, il mondo aspira ai vaccini come a Fox News, ai perturbatori endocrini e alle gazzose in modo illimitato) o incapacitanti (la radice è antropologica, da sempre l’uomo, il lupo, l’uomo, ecc.).
Lasciamo quindi perdere le obiezioni di questo tipo, provvisoriamente, per tentare di ragionare alla radice e semplicemente.
· Per limitare le conseguenze della catastrofe in corso bisognerebbe organizzare, provocare, precipitare il collasso che promettono i collassologi – il collasso del capitalismo, della sua egemonia e delle dipendenze che mantiene – senza scommettere sulle sue fragilità sistemiche, logistiche, finanziarie o legate alla catastrofe ecologica: al contrario tenendo conto della sua capacità d’adattamento. 
· Questo scenario, l’unico globalmente desiderabile, deve contemporaneamente prevedere la preservazione e la ricreazione delle nostre culture, delle nostre lingue, delle reti di aiuto e cura reciproca, ecc., e affrontare quello che l’arresto delle infra e sovrastrutture implicherebbe necessariamente [11] : quello di una centrale nucleare o di un centro d’interramento, esempi critici, o come fare ospedale senza approvvigionamento tecnologico (macchine e manutenzione) o logistico (sangue, ossigeno…), infine, molto più terra terra, più urgente, come sopperire a tutte le filiere da cui il quotidiano di ciascuno dipende profondamente, come ripensare il bisogno e il superfluo, l’utile e l’eccessivo, il comune per natura e il comune per convenzione, l’insularità di queste vie e poi l’arcipelago che dovrebbero formare [12]. Estirparlo dalla nostra vita materiale e immaginaria, dal nostro spazio socioeconomico tanto più intimo.
· Alla fine, probabilmente non succederà. Ciò che cambia e guadagna in resilienza è questo capitalismo mondializzato, neoliberale e violento, sono le vittorie dei neofascisti duri e degli estremo-centristi, addossati insieme alle strutture del profitto, e la somiglianza, ormai ben introdotta, dei loro obiettivi e dei loro metodi. Quello che “ne risulta” non è il picco petrolifero o un altro collasso, non è la fine provvidenziale della civiltà termoindustriale – il muro climatico probabilmente sarà raggiunto prima -, ma la continua venuta dei gestori della catastrofe nelle loro diverse varianti.
Bisogna quindi ugualmente iniziare con il « disertare », ritirarsi come e prima possibile da tutti i luoghi di questa civiltà, preambolo necessario moralmente (come sennò immaginare il seguito ?), ecologicamente, economicamente e politicamente.
« Disertare » è il vocabolo della Deep Green Resistance [Resistenza profonda verde, movimento nato negli USA, che ha un ramo francese, NdE] ; la diserzione è spesso presentata da loro non come preambolo ma come forma di narcisismo che rasenta il solipsismo, per il quale la modifica dei comportamenti individuali basterebbe per modificare il corso degli eventi e impedire la catastrofe. L’incitamento ai piccoli gesti « responsabili » rigira precisamente la responsabilità verso l’individuo e oblitera ogni responsabilità collettiva e politica. Dobbiamo dargli ragione: un tale pensiero magico è chiaramente l’espressione ventriloqua e metabolizzata dell’individualismo nel cuore della nostra civiltà; i piccoli gesti non si aggregano formando grandi fiumi e non sono all’altezza del disastro né del rapporto di forza. Ma non si tratta solo di chiudere il rubinetto o di circolare in monopattino elettrico. Certe scelte di vita massicce, certi cambiamenti non sono senza impatto; soprattutto concepiamo male che tipo di « compenso » attivista, come siamo tenuti compensare le nostre emissioni di gas a effetto serra o il nostro impatto ecologico, potrebbe compensare la circolazione in SUV o il turismo aereo.
Ma parlare di secessione, cambia tutto: non è più un semplice ripiego spirituale, come gli autori della Deep Green Resistance possono osservare, né un semplice cambio di abitudini di consumo. Disertare rifiutando il modo di vita al quale siamo sottomessi e fare tentativo di secessione disertando questo campo di battaglia, sono decisamente dei gesti politici: bisogna aver davvero lasciato quello spazio per andare là dove la lotta è possibile. Bisogna aver davvero fatto lo sforzo di imparare a riconoscere, soli o in gruppo, la stranezza di una cosa come la Fnac per riconoscere l’evidenza delle baracche e della ZAD [Zone à Defendre, Zona da difendere NdT]. Per avere la ZAD dappertutto, si deve pur cominciare con braccia e cervelli – disponibili.
Bisogna quindi preparare e portare l’azione come se dovesse farci vincere, soprattutto per le sue conseguenze logistiche. Cosa fare, quando, come, con chi, violenza, non-violenza, non entra nel progetto di questo testo che cerca solo di ricordare dove sono la catastrofe e il nemico. Ma è certo che i partigiani dell’azione diretta così come i disobbedienti non violenti, i transizionisti come i collassologi, dovrebbero poter rendersi conto di essere impegnati nella stessa lotta. È ugualmente sicuro che questa lotta richiede ricercatori, insegnanti, studenti, bibliotecari, ingegneri, tecnici, hacker, architetti, carpentieri, urbanisti, contadini, giardinieri, impiegati comunali, del nucleare o delle reti, scrittori, artisti, musicisti, cineasti, fino ai banchieri e alle forze dette dell’ordine, li chiama e li invita a riconsiderare senza aspettare cosa succede oggi e cosa dovrebbero essere la loro specialità, i loro racconti e lo stato della loro piotenza.
Per finire, bisogna anche prepararsi alla sconfitta della nostra azione: alla continuazione e all’accelerazione della catastrofe, che i collassologi, facendo deviare l’azione diretta contro le sue cause, avranno paradossalmente contribuito a peggiorare, e della quale si faranno un piacere di incaricarsi i mutanti neofascisti o neoliberali. Ma la resistenza è stata mai altro che disperata?
Note dell’editore
* Collassologia: il neologismo francese collapsologie è stato coniato da Pablo Servigne e Raphael Stevens, che ne hanno dato la seguente definizione: (la collassologia è) “L’ esercizio transdisciplinare di studio del tracollo della nostra civiltà industriale e di quello che potrebbe seguirne, appoggiandosi sulle due modalità cognitive che sono la ragione e l’intuito e sui lavori scientifici riconosciuti”. Sul loro sito web collapsologie.fr, i due autori qualificano la disciplina come ancora “balbuziente”. Non potendo pretendere allo statuto di “nuova scienza”, la collassologia è al minimo una nuova narrazione portatrice di nuovi miti e contribuisce senz’altro alla fabbricazione della nuova religione millenarista che sta prendendo forma nel mondo occidentale, con i suoi profeti, le sue profetesse (Santa Greta) e i loro seguaci. In Francia, i suoi grandi guru sono finora il duo Servigne e Steven, che conosce un successo incontestabile.
** Bobo: contrazione di bourgeois-bohème, individuo appartenente al ceto borghese o alto-borghese della società parigina, che mangia cibo organico e veste esclusivamente capi di fibre naturali, eppure non può fare a meno del suo iPhone, oggetto prodotto in serie e realizzato industrialmente.
*** L’hipster, termine coniato negli anni Quaranta a Nuova Yor per la sua assonanza con “hop” sinonimo slang per oppio, possiede una caratteristica fondamentale: la consapevolezza del proprio stile anticonformista.
Note dell’autore
[1] Pablo Servigne e Raphaël Stevens, Comment tout peut s’effondrer, Petit manuel de collapsologie à l’usage des générations présentes, [Come tutto può collassare, Piccolo manuale di collassologia ad uso delle generazioni presenti], Seuil, 2015 ; Pablo Servigne e Gauthier Chapelle, L’Entraide, L’autre loi de la jungle, éd. Les liens qui libèrent [L’Aiuto reciproco, L’altra legge della giungla, edizioni Les liens qui libèrent [I legami che liberano]], 2017, può essere letto come complemento del primo.
[2] Daniel Tanuro, « Crise socio-écologique : Pablo Servigne et Raphaël Stevens, ou l’effondrement dans la joie » [Crisi socio-ecologica : Pablo Servigne e Raphaël Stevens, o il collasso nella gioia], Europe solidaire sans frontières, http://www.europe-solidaire.org/spip.php?article35111 ; Jean-Baptiste Fressoz, « La collapsologie : un discours réactionnaire ? » [La collassologia : un discorso reazionario?], Libération, 7 novembre 2018, https://www.liberation.fr/debats/2018/11/07/la-collapsologie-un-discours-reactionnaire_1690596.
[3] Saremmo tentati di parlare di meta-studio o di meta-analisi, ma la transdisciplinarità dell’approccio lo vieta.
[4] Se certi aspetti della parte individuale di questa resilienza possono sembrare talvolta contestabili, tra sviluppo personale e spiritualità new age, la sua dimensione collettiva si iscrive chiaramente nell’universo delle alternative ecologiche che non bisogna trascurare.
[5] Vedi in particolare i chilometri di filo interdentale da prevedere per anno di bunker (la BAD, o « base autonoma di difesa ») nel manuale di Piero San Giorgio, Survivre à l’effondrement économique, [Sopravvivere al collasso economico] Le Retour aux sources, 2011. Bisogna notare che si tratta solo di una tendenza in seno al movimento; gli adepti del bushcraft per esempio si immaginano piuttosto di sopravvivere soli, con un’attrezzatura minima, a mo’ di cacciatori.
[6] Nello stesso libro Piero San Giorgio presenta per esempio Alain de Benoist come un semplice « pensatore ». si può’ anche ascoltare in un reportage di LSD su France Culture : « [Domanda.] E’ la teoria della Grande Sostituzione ? [Risposta.] Si’ eh, fine, ogni volta che prendo la metro a Parigi non ho l’impressione che sia una teoria. E non c’è solo Parigi, ma anche Ginevra, in Svizzera, e anche negli Stati Uniti, in Europa occidentale, e anche in Inghilterra », https://www.franceculture.fr/emissions/lsd-la-serie-documentaire/la-fin-du-monde-et-nous-tous-survivalistes-34-le-credo-survivaliste, 43e minute.
[7] E’ l’origine del movimento, negli anni ‘60.
[8] Christophe Bonneuil e Jean-Baptiste Fressoz, L’Événement anthropocène, [L’Avvenimento antropocene], Seuil, 2013.
[9] Nicolas Casaux, « Le problème de la collapsologie », [Il problema della collassologia], http://partage-le.com/2018/01/8648/.
[10] Indipendentemente dal suo registro petizionario, giuridico, tragico, ecc. Frédéric Lordon, Appels sans suite, 1, 12 octobre 2018, https://blog.mondediplo.net/appels-sans-suite-1. E’ anche quello che Derrick Jensen, Lierre Keith t Aric McBay chiamano « richiesta educata » in Deep Green Resistance, Un mouvement pour sauver la planète, [Un movimento per salvare il pianeta], edizioni Libre, 2018 (2007 per l’originale americano).
[11] Intervento di Matthieu B. durante la serata organizzata da Terrestres, « Dernier débat avant la fin du monde » [Ultimo dibattito prima della fine del mondo] (24 aprile 2019), da 1 h 56 min 42 s : https://youtu.be/z3mhM3OImZs?t=7002.
[12] Corinne Morel-Darleux, https://www.terrestres.org/2019/06/07/archipeliser-nos-resistances/, estratti da Plutôt couler en beauté que flotter sans grâce, [Piuttosto colare a picco in bellezza che galleggiar senza grazia], Libertalia, 2019. Pagine di anteprima molto promettenti,, che invitano specialmente a coltivare la modestia e la benevolenza nelle nostre discussioni. Arcipelago o Costellazioni, Traiettorie rivoluzionarie del giovane Ottocento, del collettivo Mauvaise Troupe, L’Éclat, 2014, e on line : https://mauvaisetroupe.org/spip.php?rubrique1. Anche l’ultimo romanzo di Alain Damasio ne dà un’idea incoraggiante, Les Furtifs, La Horde, 2019.