Non solo Algeria. In Tunisia lo stato d’emergenza soffoca la “rivoluzione dei gelsomini”
07/03/2019 |
Le turbolenze del Maghreb allarmano l’Italia.
Tunisia, un modello a rischio. Una speranza sotto assedio. Il presidente della Tunisia, Beji Caid Essebsi, ha prorogato di un mese lo stato di emergenza su tutto il territorio nazionale, fino al 5 aprile prossimo. Lo ha reso noto la presidenza in un comunicato. La decisione è stata presa dal capo dello Stato dopo essersi consultato con il premier, Youssef Chahed, e il presidente del Parlamento, Mohamed Ennaceur, su questioni relative alla sicurezza nazionale. Lo stato di emergenza era stato proclamato in tutto il Paese dal presidente, Beji Caid Essebsi, in seguito all’attentato terroristico al bus delle guardie presidenziali nel centro della capitale nordafricana il 24 novembre 2015 e successivamente sempre prorogato.
Una situazione in bilico che non potrà non incidere sulle elezioni legislative che si terranno il 6 ottobre prossimo, mentre le presidenziali sono convocate per il 10 novembre, con eventuale ballottaggio entro le due settimane successive all’annuncio dei risultati del primo turno. Ad annunciarlo è il presidente della Commissione Superiore Indipendente per le Elezioni (Isie), Nabil Baffoun, precisando che il calendario elettorale dovrà essere rispettato da qui a fine anno. Un anno complicato, denso di incognite, segnato da una crisi economica e da un malessere sociale che rischiano di intaccare fortemente l’unico Paese arabo dove la “Primavera” non era sfiorita. “In un quadro politico complesso e in continuo mutamento – annota Fabio Frettali di Terre de Hommes Italia – un elemento pare rimanere invece stabile: la disaffezione dei cittadini verso la vita politica del Paese, avvertita sempre più come un mezzo inadeguato per risolvere le problematiche socio-economiche della Tunisia. La percepita incapacità della classe politica tunisina di veicolare il malcontento della popolazione e di tradurlo in istanze politiche sembrerebbe essere anche una delle principali cause alla base dell’aumento esponenziale del numero di proteste e disordini che hanno colpito il paese negli ultimi mesi”.
In un contesto socioeconomico simile, non stupiscono i risultati di due sondaggi pubblicati lo scorso gennaio, secondo i quali il 66% di tutti gli elettori tunisini e il 75% dei giovani e delle donne non prevede di votare alle elezioni legislative di ottobre. “A pesare sullo stallo economico del Paese – rimarca Stefan M.Torelli, Ispi associated research fellow – vi sono anche le insanabili divergenze che sembrano esistere tra il governo e il mondo delle associazioni di categoria e i sindacati. La Tunisia ha ottenuto fino a ora quasi 3 miliardi di dollari di prestiti da parte del Fondo Monetario Internazionale, ma tali erogazioni sono state vincolate all’adozione di specifiche misure da parte del governo. Quest’ultimo conta di tagliare di tre punti percentuali il costo dei salari del settore pubblico, dal 15,5% del Pil al 12,5% del Pil, per poter diminuire il deficit di bilancio, attualmente al 6,6%, e portarlo al 3,9%. In tale quadro si inserisce il congelamento dei salari di circa 670.000 impiegati statali, che nel gennaio del 2019 si sono mobilitati in un’ondata di scioperi generali che ha messo in ginocchio il paese, provocando la chiusura di aeroporti, porti e uffici pubblici. Il braccio di ferro tra sindacati e forze politiche rischia di aggiungere ulteriore tensione sociale, in un paese già pesantemente colpito economicamente dagli otto anni di crisi politica e transizione istituzionale”.
Nell’ultimo anno il Pil è cresciuto meno dell’1 per cento, la disoccupazione è schizzata invece al 15% (anche se secondo chi protesta la percentuale è almeno il doppio). I disoccupati sono oltre 600 mila, di cui più di un terzo in possesso di diploma di istruzione superiore . “La grande maggioranza del popolo tunisino – dice ad HuffPost Abdessatar Ben Moussa, avvocato, presidente della Lega per i diritti umani, uno dei membri del Quartetto per il dialogo nazionale tunisino, insignito, nel 2015, del Premio Nobel per la Pace – sostiene il processo democratico. Si tratta di un patrimonio di credibilità che non va disperso. Ma i rischi sono tanti, legati soprattutto alla situazione socio-economica. La difesa dei diritti umani è importante ma lo è altrettanto il rafforzamento dei diritti sociali. La democrazia si rafforza se si coniuga alla crescita economica, alla giustizia sociale, a realizzare prospettive di lavoro per i giovani. Non è un caso che i terroristi dell’Isis abbiano puntato a colpire il turismo, una delle fonti di entrata più importanti per la Tunisia. Oggi i terroristi reclutano giovani emarginati non offrendo loro il miraggio del “Califfato ma un salario per combattere la Jihad. Per questo è fondamentale che l’Europa investa nella cooperazione con la Tunisia e più in generale con i Paesi della sponda Sud del Mediterraneo. Per l’Europa non sarebbe un atto di generosità ma un investimento a rendere sul piano della stabilità e della sicurezza. Un investimento sul futuro”. I “gelsomini” non bastano per sfamare un popolo. I diritti non si mangiano. Una “rivoluzione” non si consolida se non riesce a dare un tetto, un lavoro, un futuro ad un popolo giovane. A otto anni dalla revolution yasmine, la Tunisia si riscopre inquieta, pervasa da un malessere sociale che investe tutti i settori della popolazione. Diplomati, laureati, professionisti: la protesta parte da lì. E dai ragazzi: un popolo sotto i 35 anni che si trova governato da un presidente della Repubblica di 90, da uno del Parlamento di 83, da un capo dell’opposizione di 76, da un premier di 68. Quello che si dispiega è anche un conflitto generazionale. “Quello compiuto in questi otto anni – rimarca Houcine Abassi, già Segretario generale dell’Ugtt (Union générale tunisienne du travail) anche lui Premio Nobel per la Pace nel 2015 come membro del Quartetto per il dialogo – non è stato un percorso lineare, la transizione democratica è ancora in atto e non potrà dirsi conclusa se non affronta la grande questione che resta irrisolta ed anzi tende ad aggravarsi”.
E quella “grande questione si chiama malessere sociale. L’ex capo del sindacato tunisino ne è assolutamente convinto: “La libertà – sostiene – non può dirsi realizzata se non hai un lavoro, se i giovani non possono costruire il loro futuro, avere una casa, diventare autonomi. In Tunisia, la rivoluzione del 2011 ha abbattuto un regime corrotto, la transizione ha consolidato le istituzioni, abbiamo una Costituzione tra le più avanzate in questa parte di mondo, ma non basta, non può bastare. Perché sul piano sociale il bilancio è negativo: il tasso di disoccupazione è aumentato del 15% a livello nazionale e raggiunto il 25% nelle regioni interne. Quello tunisino è un popolo giovane, e se ai giovani non dai una prospettiva concreta di realizzazione, il futuro è a rischio”.
Un rischio, aggravato dall’azione terroristica, tutt’altro che circoscritta, dei gruppi jihadisti legati al al-Qaeda e all’Isis, che si fa presente. E che allarma anche l’Italia. Arrivano nelle aree di Porto Empedocle, Sciacca, Licata, nell’Agrigentino, su barconi di legno di 10-12 metri, che spesso vengono anche abbandonati. In alcuni casi gli occupanti delle imbarcazioni riescono a scendere e far perdere le loro tracce, in altri gli uomini della Guardia di Finanza o della Capitaneria di porto li hanno individuati. Più a ovest, verso Trapani o Mazzara, gli immigrati sbarcano, invece, da gommoni che portano dalle 20 alle 40 persone alla volta. In alcuni casi, assieme agli esseri umani, sono stati recuperati anche carichi di sigarette o stupefacenti. E’ la rotta tunisina, che attraversa il confine tra Tunisia e Libia. Annota Paolo Howard in un documentato report su Affari Italiani: “Considerare la rotta tunisina quale mera alternativa a quella libica appare riduttivo. Sono i migranti tunisini a imbarcarsi dai porti di Sfax e Kerkenna, raramente gli stranieri…I protagonisti della rotta restano i giovani tunisini che, stretti nella morsa di una economia impoverita e di un clima politico asfissiante, fuggono a bordo dei social media prima ancora che delle imbarcazioni di fortuna”. Tunisia, Algeria: sono i giovani i protagonisti delle manifestazioni di protesta o delle fughe disperate. Istruiti e senza futuro. Traditi o comunque non rappresentati da una classe politica di ottuagenari o da nomenclature affaristico-militari che non hanno alcuna intenzione di cedere potere e privilegi. E l’Europa sta a guardare. Silente e complice.