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Egitto, gli attivisti in esilio denunciano repressioni del regime. Ma in patria non cambia niente

Claudia De Martino* 22 Marzo 2019
Dei molti Paesi arabi che nel 2011 si rivoltarono con mobilitazioni di massa contro i propri tiranni, il caso dell’Egitto è uno dei più drammatici.

Si potrebbe obiettare che la vicina Libia è in preda a una guerra civile, e che la Siria sta ancora vivendo una guerra regionale che ha prodotto oltre 400mila morti e cinque milioni di rifugiati, ma l’Egitto con i suoi 65mila prigionieri politici rimane uno dei casi più evidenti di violazioni sistematiche dei diritti umani. E anche uno dei più tollerati dalla comunità internazionale, dato il ruolo strategico di contenimento di rifugiati e jihadisti che l’autocrazia del presidente al-Sisi svolge sul fianco sud del Mediterraneo.

Non a caso i governi occidentali si limitano a ricordare nei loro comunicati ufficiali la “difficile situazione” in cui si trova l’Egitto, ribadendo però tanto a livello di Commissione europea che di Stati membri la ferma volontà di “portare avanti un dialogo costruttivo con l’Egitto in vista della stabilità, di riforme economiche e sociali e dello sviluppo, nell’ambito del dialogo instaurato all’interno della partnership congiunta” (portavoce della Commissione Ue sull’Egitto, maggio 2018).
Il presidente francese Emmanuel Macron ha anche recentemente assicurato un nuovo prestito bilaterale di un miliardo di eurotramite l’Agenzia francese per lo sviluppo, per sostenere le non meglio definite “riforme” del presidente al-Sisi, mentre il governo italiano – dimenticato l’irrisolto caso Regeni – dopo appena 18 mesi di formale protesta tra il 2016 e il 2017 ha ripristinato le relazioni diplomatiche senza contropartita politica (ma con buon auspicio per gli investimenti delle oltre 130 aziende italiane impegnate nel Paese e per il giacimento di gas dell’Eni a Zohr, in acque territoriali egiziane).
In uno scenario di normalizzazione crescente delle relazioni con l’Egitto, il cui violento golpe militare del luglio 2013 sembra ormai dimenticato tanto dalle cancellerie che dalle opinioni pubbliche straniere, a pagare il prezzo della repressione sono i cittadini egiziani, compresi i circa 350mila espatriati, la cui voce è spesso messa a tacere o boicottata da un’immensa rete di spionaggiodispiegata dai servizi segreti egiziani in tutto il mondo, ma in particolare in Italia. Pagina dolente, questa, che ricorda la “tolleranza” delle autorità italiane verso molti assassini politici perpetrati sul nostro territorio da parte di governi stranieri: in particolare il “Lodo Moro”, che garantiva sostanziale impunità sia ai palestinesi che agli israeliani per “regolamenti di conti” avvenuti in Italia che non toccassero cittadini italiani, e gli omicidi mirati dei dissidenti iraniani, avvenuti prima e dopo la Rivoluzione islamica.
A sottolineare la paura che accompagna i dissidenti egiziani nel nostro Paese sono le testimonianze raccolte in un bel libro di Azzurra Meringolo Scarfoglio, intitolato Fuga dall’Egitto. Inchiesta sulla diaspora del dopo golpe, che ha il pregio di gettare luce sul fenomeno della diaspora egiziana post-2013, ovvero su tutti quegli attivisti che, traditi dai militari e minacciati di repressione e tortura in Egitto, hanno preferito la via dell’esilio a una lunga e dolorosa prigionia.
L’inchiesta giornalistica della Meringolo rintraccia molti attivisti egiziani fuggiti dal Paese all’indomani del golpe del 2013 o negli anni successivi alle “riforme” avviate dal presidente al-Sisi, tra le quali spicca la stretta operata sui media e sui finanziamenti stranieri alle Ong, che aveva di fatto l’obiettivo di mettere a tacere molte organizzazioni attive nella difesa dei diritti umani. Azzurra Meringolo Scarfoglio traccia un quadro complesso della diaspora egiziana divisa tra moltissimi Paesi, ma soprattutto ripartita in due tronconi principali a seconda delle affiliazioni politiche degli esuli egiziani: Stati Uniti e Italia per liberali e laici, Qatar e Turchia di preferenza per gli islamisti. Gli Usa figurano in effetti come la meta diasporica ideale tanto per gli uni che per gli altri, e risultano per gli esuli – almeno dalle interviste raccolte – come il rifugio più sicuro e meno soggetto alle interferenze politiche dei servizi di sicurezza egiziani.
Negli Stati Uniti molti dissidenti egiziani che ricoprivano incarichi importanti in patria e che provenivano da famiglie liberali sono riusciti a fondare istituzioni e centri di ricerca dai quali continuano a monitorare i cambiamenti interni all’Egitto. È il caso di Nancy Okail, fondatrice del Tahrir Institute for Middle East Policy (Timep) e già direttrice della Freedom House al Cairo, o di Mohammed Soltan, fondatore della Freedom Initiative. Altri continuano a scrivere e fare ricerca sull’Egitto esercitando le rispettive professioni. È il caso dell’accademico Amr Hamzawy, ex ministro della Gioventù nel governo di transizione post-2011, oggi negli Stati Uniti, o di giornalisti come Ahmed Ragab in Germania, impiegato presso la Deutsche Welle, o Mostafa el-Marsafawy in Giordania, impiegato presso l’Arab Reporters for Investigative Journalism. Altri ancora hanno fondato propri media dai quali diffondere informazioni indipendenti, come Islam Lofty a Londra (al-Araby Tv) o Ayman Nour, ex politico liberale del partito al-Ghad, ideatore del canale al-Sharq a Istanbul.
L’impegno dei dissidenti sembra concentrarsi sugli appelli contro le violazioni dei diritti umani e sul monitoraggio delle leggi liberticide egiziane, scontrandosi però con il limite evidente dello scarso o inesistente seguito di tali iniziative in patria. Le testimonianze raccolte nel libro evidenziano bene questa contraddizione tra il forte attivismo dei dissidenti egiziani nelle loro patrie d’adozione e l’impossibilità di un cambiamento in Egitto, dove anzi nuove leggi repressive vengono promulgate ogni giorno.
Le biografie dei dissidenti egiziani raccolte in questo testo conservano un importante valore di testimonianza sulla repressione del regime e sull’impossibilità di operare entro i confini dello Stato di diritto in Egitto. Oltre ai singoli successi personali, esse comunicano complessivamente un senso di disfatta e il naufragio di un’alternativa politica nel Paese. Tutti coloro che hanno invocato un cambiamento nel 2011 e che attendevano di vederlo realizzato nell’arco della propria vita oggi adottano una visione di lungo periodo, improntata a un faticoso processo di ricostruzione del dialogo tra le differenti componenti della diaspora egiziana, e in primis tra gli esuli della Fratellanza Musulmana e i liberali laici.
Tutti convengono che all’origine dell’attuale tragedia in cui versa l’Egitto vi sia stata la mutua diffidenza tra attivisti laici e musulmani nell’unico anno di relativa libertà dal regime (tra il 2012 e il 2013). Tutti condividono oggi il giudizio a posteriori che l’Egitto non potesse essere salvato dall’esercito, come un milione di cittadini aveva implicitamente richiesto scendendo in piazza, nel giugno del 2013, contro il governo eletto del presidente islamista Mohammed Morsi. L’attuale regime di polizia è il frutto di una convergenza di fattori interni ed esterni, ma è anche il risultato della scelta di una parte degli attivisti liberali di oggi che, per timore del governo Morsi, hanno fornito una legittimazione iniziale al colpo di Stato: molti attivisti egiziani di allora hanno sottovalutato il fatto che, dopo la cacciata di Mubarak, una nuova generazione di militari, altrettanto ambiziosa e forse più repressiva della precedente, si fosse affacciata al potere e che l’esercito fosse l’unica forza organizzata rimasta nel Paese.
Il libro di Azzurra Meringolo Scarfoglio raccoglie quindi le parole di coloro che hanno svolto ruoli preminenti nelle rivolte di piazza e nel breve periodo democratico che le ha seguite, ma che oggi devono compiere necessariamente un’autocritica sui limiti della loro azione politica, benissimo sintetizzati nel messaggio consegnato alla giornalista da Abdel Rahman Mansour, uno degli attivisti intervistati: “Occorre minare la legittimità e la popolarità del regime. Costruire un’alternativa, puntare sull’integrità delle elezioni”.
La diaspora egiziana oggi è stata ricondotta al pragmatismo, si interroga su come possa funzionare concretamente una democrazia, ma sa che il suo progetto di costruzione di un’alternativa si dispiegherà solo nel medio-lungo periodo, e che la strada per il ritorno in Egitto è ancora preclusa.
* ricercatrice ed esperta di questioni mediorientali