EGITTO. “Il Sinai è il nostro Vietnam”
Middle East Eye – Traduzione di Valentina Timpani 11 febbraio 2019 |
I militari egiziani impegnati dal Cairo nella penisola raccontano il dramma del fronte: mal equipaggiati, non sufficientemente addestrati e ferite psicologiche durature.
Mentre mangiano panini con pollo fritto e fumano il narghilè in un bar locale, Ahmed e Mohamed discutono su come passare le prossime ore prima di tornare alla base. I due soldati, in licenza dal loro battaglione per il weekend, sono appena tornati dal funerale del loro amico ucciso quando dei militanti hanno teso un’imboscata al suo battaglione nel nord del Sinai.
Rintanati nel bar, seduti sotto un poster ritoccato del calciatore egiziano Mohamed Salah che stringe la Coppa del Mondo, si nascondono dalla polizia militare che proibisce ai soldati in uniforme di mischiarsi con i civili. “Gli hanno fatto un funerale con una banda, e daranno il suo nome a una scuola”, dice Ahmed, 20 anni, tirando grandi boccate da un narghilè e sorseggiando caffè turco zuccherato. “Avresti dovuto vederlo”. Mohamed, 21 anni, scuote la testa mentre finisce il suo secondo panino con pollo fritto. “Non voglio una scuola o una moschea con il mio nome”, dice. “Voglio vivere la mia vita”.
Ahmed e Mohamed sono due tra migliaia di giovani uomini egiziani che sono stati schierati nella penisola del Sinai dal 2011 per contrastare una rivolta di militanti. È una battaglia che il presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi sta sostenendo dall’inizio della sua presidenza, usando gli attacchi ripetuti come scusa per tenere il paese in stato di emergenza e per perseguire campagne militari che hanno ucciso centinai di civili e ne hanno dislocati altre migliaia.
In un’intervista con 60 Minutes sull’emittente statunitense Cbs che il governo, stando a quel che si dice, ha provato a fermare prima che venisse mandata in onda all’inizio di questo mese, il presidente ha rivelato che le forze armate egiziane hanno lavorato per anni in collaborazione con gli israeliani nel Sinai.
Ma sette tra ex e attuali soldati, che hanno parlato a Middle East Eye, dicono che la guerra nel Sinai – che ha visto più di 1500 addetti alla sicurezza uccisi in battaglia, secondo un conteggio effettuato da ricercatori indipendenti che mantengono l’anonimato per sicurezza – li ha resi tormentati e li ha distrutti psicologicamente, essendo molti arrivati con soli 45 giorni di addestramento. Mee non ha potuto verificare indipendentemente le figure dei ricercatori.
La cultura nell’esercito egiziano, dice il personale militare, non lascia spazio a traumi o debolezze, molti raccontano di essere stati costretti a cercare privatamente un aiuto psichiatrico perché le forze armate non lo forniscono. Due portavoce militari con i quali Mee ha parlato si sono rifiutati di dire se veniva offerto o meno un aiuto psichiatrico. Un ufficiale affiliato con l’apparato di intelligence dello stato riferisce a Mee: “Quando il morale è giù, sono gli ufficiali a fare da strizzacervelli. Nelle basi più centralizzate vicino al Cairo o ad altre grandi città, alcuni uomini di chiesa spesso vengono e parlano con i soldati”. Eppure i soldati affermano che quello che hanno vissuto ha del tutto alterato le loro vite e necessita di essere risolto da parte di professionisti.
“È orribile vedere qualcuno che raccoglie i pezzi di un tuo amico che conoscevi da due anni e con il quale avevi pranzato quella mattina stessa”, ha detto Sameh, 27 anni, un sottufficiale che è in servizio nel Sinai. “Se i soldati sono depressi, o non lo danno a vedere o richiedono di andare in ferie”. Moataz, cha ha prestato sevizio come medico militare nel Sinai, ha affermato:“Abbiamo visto le cose peggiori che le persone sono in grado di farsi, e abbiamo visto come le reclute siano considerate vite che valgono poco. Ad alcune persone andava bene, ma per quanto mi riguarda qualcosa dentro di me non è più lo stesso”.
Insurrezione e rivolta
L’insurrezione attuale nel Sinai ha radici che risalgono a molto prima della rivolta del 2011 e del colpo di stato del 2013. Nei primi anni 2000, un gruppo militante con base nel Sinai al-Tawhid Wal Jihad formò un’alleanza spirituale con al-Qaeda, compiendo diversi attacchi di alto profilo a resort turistici insieme ad altri target che uccisero dozzine di persone. Lo Stato rispose con una repressione dei militanti nel Sinai che, nel caos che seguì la rivolta del 2011, trovò un momento perfetto per vendicarsi degli anni di maltrattamento da parte della polizia e dell’esercito.
In quel periodo un altro gruppo militante, Ansar Bayt al-Maqdis, che aveva le sue radici in al-Tawhid Wal Jihad, è diventato attivo, prendendo di mira le tubature del gas nel Sinai che vanno in Israele e Giordania. Dopo che al-Sisi ha deposto il presidente Mohamed Morsi nel luglio del 2013 e dopo il massacro di Rabaa, il gruppo ha fatto crescere il terrore nel Sinai con attacchi quasi settimanali, accusando l’esercito di dislocare civili del posto e di lanciare attacchi aerei sulle case dei civili.
Nel 2014, dispute all’interno del Ansar Bayt al-Maqdis hanno portato una maggioranza del gruppo a promettere un’alleanza con il gruppo Stato Islamico (Is), cambiando il suo nome in Provincia del Sinai e sostenendo di essere un ramo dell’Is. Dall’inizio dell’insurrezione, l’onda egiziana di ultra-nazionalismo creò una propaganda e una narrazione del “combattente egiziano” come una religiosa, disciplinata, precisa macchina da guerra “nata per uccidere”. Nel 2016, il ministero della difesa rilasciò un film che mostrava la vita quotidiana di una recluta egiziana.
Tuttavia molti dei soldati che prestano servizio nel Sinai non hanno avuto possibilità di scelta: sono stati chiamati alle armi. Secondo la costituzione egiziana, gli uomini dai 18 ai 30 anni devono prestare servizio nelle forze armate per almeno 18 mesi, seguiti da un obbligo di nove anni di prestare servizio se chiamati alle armi. I giovani che non sono adeguati dal punto di vista medico, i figli maschi unici nella propria famiglia, alcuni che hanno doppia nazionalità e individui conosciuti per avere inclinazioni islamiste, sono di solito esenti.
Mentre i militanti dell’Is vengono addestrati nella guerriglia, nella guerra nel deserto, nel combattimento di casa in casa, con eventuale esperienza militare a Gaza, in Siria, Afghanistan, Iraq e Libia, la maggior parte delle forze combattenti d’Egitto sono reclute che hanno passato solo 45 giorni nei campi d’addestramento per imparare a essere soldati. Uno di questi reclutati era un ex medico, Moataz, il cui battiglione fu uno dei primi ad arrivare sulla scena dopo che il gruppo, allora ancora noto con il nome Ansar Bayt al-Maqdis, aveva eseguito un grave attacco presso un checkpoint nel nord del Sinai nell’ottobre del 2014.
Uno dei più mortali attacchi fino ad oggi compiuti contro le forze armate egiziane, almeno 30 agenti militari vennero uccisi al checkpoint. Il lavoro di Moataz come medico fu quello di stimare velocemente i morti e i feriti, e poi iniziare le cure. Dice di aver contato 19 corpi con molti dei resti sparpagliati sulla scena dopo l’esplosione delle bombe sul ciglio della strada. “C’erano parti di corpi ovunque”, Moataz, che ha ora 25 anni, riporta a Mee. “È una scena che non dimenticherò mai. I restanti vennero prima feriti e poi giustiziati a colpi d’arma da fuoco. Alcuni corpi avevano più di 20 proiettili nella testa”.
Moataz, che è ora un medico che lavora privatamente in Qatar, venne dimesso nel 2017, ma dice di fare ancora incubi sul suo servizio ed è seguito da uno psichiatra. “Per noi e molte altre reclute, il Sinai è stato il nostro Vietnam”, ha detto. Khaled, che ha ora 23 anni, era un soldato reclutato 23enne che prestava servizio nella città del nord del Sinai, Rafah, a luglio del 2017 quando i militanti attaccarono un checkpoint che stava bloccando il flusso di beni e persone da Gaza. Ventitrè agenti militari vennero uccisi dopo che un attentatore suicida colpì il checkpoint all’alba, ma Khaled ha detto che l’attacco proseguì.
“Molti furono uccisi e feriti e poi i jihadisti continuarono a venire. Chiunque era ancora vivo continuava a sparare, ma loro continuavano a venire”, ha detto. “Io fui ferito da un proiettile allo stomaco. Mi stesi sul terreno e non potevo muovermi, ma sentivo i miei fratelli urlare”. Khaled venne dimesso dall’esercito dopo l’attacco e ora riceve una pensione, ma non ha visto alcun aiuto psichiatrico. “Nell’esercito, non esiste che si dica ‘Sono triste’ o ‘Non mi sento bene’. Ecco perché solo gli uomini entrano nell’esercito”, dice.
Carenza di addestramento ed equipaggiamento
Omar, un ufficiale delle forze speciali con la polizia egiziana che ha stazionato nel Sinai nel 2013, ha riferito a Mee che il campo di addestramento di 45 giorni per reclute, unito a una mancanza di equipaggiamento sufficiente, aveva reso molti dei giovani che prestavano servizio nella penisola più un peso che un’effettiva forza militare. “A differenza delle altre forze nel resto del mondo dove una recluta deve essere adeguata e ben addestrata alle operazioni di combattimento, le reclute sono spesso un problema per la guerra contro il terrorismo”, dice Omar. “O non sono motivati o sono sovraeccitati. Ed entrambi compiono errori”.
Ai soldati principianti hanno dato un equipaggiamento degli anni ’90, ma anche ufficiali come lui che avevano budget maggiori per le armi non avevano equipaggiamento a sufficienza, dice. “Per esempio, fino al 2014, i jihadisti avevano binocoli a visione notturna e noi no”, dice Omar. La disparità di armi che Omar descrive è sintomo di una cultura storica all’interno dell’esercito che vede maltrattamento e abuso tramandarsi fino alla linea del comando.
La fonte militare affiliata con l’intelligence ha riferito a Mee che gli ufficiali devono essere duri con i soldati come sarebbe qualsiasi altro militare. “Come potrebbe, altrimenti, il soldato obbedire ai suoi superiori”, dice.
“Se c’è la guerra, dobbiamo garantire che il soldato obbedisca senza fare domande, senza rimorsi. Funziona così in tutto il mondo”. Ma anche soldati come Mouraad che sono stati lontani dal fronte nel Sinai parlano di bullismo che loro consideravano intollerabile e dannoso. Mourad, che ha ora 24 anni, si era laureato alla facoltà di belle arti all’Università di Helwan prima che venisse reclutato nell’esercito.
“Ero così ingenuo quando ero piccolo da pensare che avrei servito il mio paese – ha riferito a Mee – Dopo l’allenamento di base di 45 giorni, ho realizzato che devo solo far passare quest’anno a qualunque costo, anche se devo essere un commesso in uno degli outlet dell’esercito”. Ma invece del ruolo da commesso, Mourad è stato trasferito alla Terza Armata nel Sinai, in servizio presso il refettorio di giorno e i dormitori di notte degli ufficiali di un battaglione.
“Ho studiato scultura e disegno per quattro anni, e mi ritrovo qui a pulire i bagni degli ufficiali, ufficiali che sono più giovani di me, e a ricevere urla e insulti”, dice. “Gli ufficiali ti insultano e mirano a distruggere la tua personalità di proposito. Veniamo trattati come schiavi o come cani”. Ma con il nazionalismo alle stelle e nel mondo militare dove vige la legge del più forte, Mourad dice che si sentiva di non potersi permettere di lamentarsi o arrabbiarsi, e doveva invece adattarsi. “Ho imparato a rubare, a mentire, a imbrogliare e a essere ipocrita, e a chiudere un occhio sulle ingiustizie. Ho anche iniziato a fare il bullo e intimidire i soldati più giovani – dice -Ma questo è quello che succede quando l’oppressione prende piede in una catena di comando: chiunque alla fine opprimerà chiunque si trovi sotto di lui”.
Mohamed, un laureato di un istituto tecnologico di Alessandria, era un calciatore popolare di un club locale e aveva sperato che le sue capacità sul campo gli avrebbero fatto ottenere un posto in una delle squadre di calcio delle forze armate, e di conseguenza avrebbero reso la sua esperienza da recluta più semplice. Invece, presta servizio da due anni nella Seconda Armata e al momento si occupa della mensa dei soldati. Mohamed dice di essere diventato anche lui un bullo nell’esercito. “Ho imparato, tristemente, a diventare un bullo. Devi provare la tua personalità essendo aggressivo, facendo vedere che sei un uomo duro altrimenti vieni travolto”, dice.
Mentre si occupava della mensa, l’ex sportivo racconta di essere stato costretto a imbrogliare per restare fuori dai guai. “L’ufficiale voleva la sua riduzione nel profitto della mensa, che originariamente deve andare al budget del battaglione”, dice. “In cambio, ho dovuto imbrogliare e falsificare le carte, e anche comprare snack e cibo scaduti”. In difesa delle sue azioni, richiama un famoso detto tra gli egiziani – “L’esercito ti dice di arraggiarti” – e lui dice di essersi “arrangiato” per cavarsela. “So che è peccato, ma nella base ci sono persone che non conoscono Dio. Diversamente, non avrei superato le mie giornate”, dice.
‘Solo ragazzi’
Come Mohamed, Ahmed, un ex studente dell’università di al-Azhar, credeva di avere conoscenze sufficienti per completare il suo servizio militare in uno dei battaglioni di difesa aerea al Cairo, un posto amministrativo o in una delle compagnie dell’esercito dove il lavoro è minimo e le reclute possono passare la notte a casa. Ma quando si è laureto, è stato dislocato nel nord del Sinai per prestare servizio nella seconda divisione di fanteria della seconda armata.
Quarantotto giorni della vita di Ahmed sono passati nel campo di addestramento di al-Galaa a Ismailia con addosso vestiti della misura sbagliata, senza acqua pulita e cibo su base regolare, e costretto a stare sotto il sole per ore, un’esperienza che descrive come “infernale”. “È la peggior cosa che abbia mai visto. Piangevo ogni notte, ma non lo davo a vedere per non subire bullismo”, dice il robusto 23enne. “Se non fossi stato ‘condannato’ ad arruollarmi, avrei studiato turco e avrei fatto il traduttore – dice a Mee – Volevo viaggiare e incontrare persone diverse, fare cose sbagliate e imparare, non stare seduto in un chiosco di latta con una vecchia e arrugginita mitragliatrice di 30 chili”.
Sono passati più di sei mesi dal suo campo d’addestramento. Ogni 40 giorni alla base, ad Ahmed sono dati cinque giorni di vacanze. Uno lo usa per andare a casa e uno per tornare. “Quando sono libero, praticamente mangio e dormo, vedo la mia fidanzata, e guardo film, quello che farebbe qualsiasi giovane”. Altri soldati a cui viene dato il fine settimana libero o un congedo finiscono a Suez o a Ismailia per riposarsi prima di tornare alle basi nel nord del Sinai.
Said, un tassista e venditore di Suez, spesso trasporta le reclute dalle fermate degli autobus agli ostelli del posto. “La maggior parte, vogliono un posto decente dove dormire e buon cibo fatto in casa. Molti vogliono dello spezzatino. Sono solo ragazzi – racconta a Mee – Spesso c’è un gruppo che cerca di tirare su un soldato tra loro che sembra triste. Solo Dio sa cosa vedono nel Sinai”.