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SIRIA. Ritiro iniziato ma i marines restano. E resta l’Isis

Chiara Cruciati 12 gennaio 2018
Caos Usa, in partenza solo equipaggiamenti. Daesh uccide ancora da Raqqa a Deir Ezzor. Trump dichiara guerra all’Iran: Pompeo al Cairo rilancia la Nato araba e cancella i popoli.

Pochi dettagli e una mezza smentita: in tipico stile trumpiano, ieri gli Stati uniti hanno iniziato a ritirarsi dalla Siria. Ma i marines restano.L’annuncio lo aveva dato ieri mattina il colonnello Sean Ryan, portavoce della coalizione anti-Isis: «È iniziato il processo del nostro ritiro dalla Siria. Per ragioni di sicurezza, non daremo tempistiche specifiche o movimenti di truppe». Poche ore dopo tre alti funzionari anonimi specificavano: non stiamo ritirando uomini, ma equipaggiamento non essenziale.
Il caos. Anche perché, fino a 24 ore prima, il consigliere alla sicurezza Usa Bolton e il segretario di Stato Pompeo, rispettivamente da Ankara e Il Cairo, parlavano di un prosieguo della lotta all’Isis fino al momento dell’effettivo ritiro. Washington lascia un paese nella guerra che ha contribuito ad accendere. A bassa intensità, ridotta nei modi e nei luoghi, ma che è ancora lì presente e che è in buona parte frutto delle cellule dell’Isis attive lungo il confine orientale.
Lunedì un kamikaze del «califfato», identificato dalla rivista di Daesh Amaq come Abu Abdulla al-Shami, ha prima sparato sulla gente e poi è saltato in aria in una base militare delle unità di difesa popolare curde, le Ypg, a Raqqa: cinque uccisi, di cui quattro civili.
Raqqa resta quel che era al momento della cacciata dello Stato Islamico, una città in macerie che ieri Amnesty è tornata a denunciare: «Deploriamo il fatto che la coalizione a guida Usa continui a venir meno, anche adesso che inizia a ritirarsi, alla sua responsabilità di svolgere indagini degne di nota sulle centinaia di civili uccisi a Raqqa – dice Lynn Maalouf, direttrice per il Medio Oriente – La coalizione sta vergognosamente dimenticando la devastazione lasciata dalla sua campagna di bombardamenti e non ha alcuna intenzione di offrire ai sopravvissuti compensazioni».
E ieri sei bambini sono morti di inedia mentre tentavano con le famiglie e altre 8.500 persone di raggiungere il campo profughi di al-Hol nel nord della Siria: scappano dagli scontri a Deir Ezzor, dove l’Isis mantiene una presenza ridotta ma distruttiva. Dalla zona di Hajin si continua a combattere: espulsi dalle Ypg, gli islamisti stanno tornando e seminano morte.
Ad Hajin restano solo 2mila persone, negli ultimi sei mesi ne sono fuggite 25mila. Arrivano, raccontano le ong, in condizioni terribili, a piedi, con pochissimi effetti personali: freddo, sete e fame li riducono a scheletri e in alcuni casi uccidono, difficile dare bilanci.
È in questo contesto che ieri è iniziato il ritiro Usa dalla base di Rmeilan, ad Hasakah, nord-est siriano, a poche ore dalla visita di Bolton ad Ankara, snobbato dal presidente Erdogan. Ai turchi il consigliere di Trump non ha dato nulla di concreto, se non cinque punti non scritti su cui discutere. Tra questi l’intenzione di proseguire nella lotta all’Isis non si sa bene in che forma e di negoziare una soluzione della questione curda.
Washington, a parole, dice di voler tutelare chi ha davvero combattuto lo Stato Islamico. Ma di fronte ha un alleato che non aspetta altro che un ritiro per demolire il progetto di confederalismo democratico di Rojava. Non a caso, mentre Bolton chiacchierava, il ministro degli esteri turco Cavusoglu in tv gli mandava a dire che le tempistiche dell’offensiva nel nord della Siria le decide solo Ankara, con o senza marines.
Alla Casa Bianca in realtà importa poco, troppo presa dal descrivere al mondo arabo la dottrina Trump. L’ha srotolata Pompeo al Cairo, all’American University, stesso palcoscenico da cui dieci anni fa Obama prometteva un’era di rapporti nuovi tra Usa e paesi arabi.
Pompeo fa saltare il tavolo e, dopo aver descritto gli Usa come «forza vera» e criticato il predecessore di Trump per troppa «inazione» (sic), prima ha aperto a una soluzione politica per la Siria che, senza dirlo esplicitamente, guarda ad Assad e poi ha mirato al vero obiettivo: l’Iran. Tutto ruota intorno a Teheran, l’intera confusionaria strategia Usa: «È tempo di mettere fine alle vecchie rivalità per il bene più grande della regione», la distruzione dell’Iran. «Gli Usa useranno la diplomazia e il lavoro con i partner per espellere ogni singolo stivale iraniano dalla Siria» e per ridurre a zero l’export di petrolio iraniano.
Un approccio muscolare che sta producendo povertà e frustrazione tra gli iraniani, disillusione tra i palestinesi messi all’angolo dalle nuove relazioni tra Israele e Golfo e disperazione tra gli yemeniti bombardati dall’alleato Riyadh. Tutti popoli che, nel suo discorso da «forza vera», Pompeo non ha nemmeno nominato.