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Siria: gli Stati Uniti escono di scena. Gioie o dolori?

EMANUELE CUDA – 20 DICEMBRE 2018
“Abbiamo sconfitto l’Isis, era l’unica nostra ragione per stare lì” con questo tweet il Presidente americano, Donald Trump, ha annunciato ieri il ritiro delle truppe americane dalla Siria in quanto “Gli Usa vogliono essere il poliziotto del Medio Oriente, non ottenendo nulla ma spendendo vite preziose e migliaia di miliardi di dollari proteggendo altri, che in quasi tutti i casi, non apprezzano quello che stiamo facendo? Vogliamo essere lì per sempre? E’ finalmente tempo per altri di combattere“.

La Casa Bianca ha poi confermato che le truppe americane lasceranno la Siria immediatamente e saranno completamente smobilitate entro 30 giorni; alcuni funzionari hanno reso noto che tutto il personale del Dipartimento di Stato sarebbe pronto alla partenza entro 24 ore e che anche il personale delle ONG sarebbe stato presto evacuato.

La portavoce della Casa Bianca, Sarah Sanders, ha confermato quanto sostenuto dal presidente Donald Trump, precisando che “cinque anni fa, l’ISIS era una forza molto potente e pericolosa in Medio Oriente, e ora gli Stati Uniti hanno sconfitto il califfato territoriale… le vittorie sull’Isis in Siria non segnano la fine della Coalizione Globale o delle sue campagna. Abbiamo cominciato a riportare a casa le truppe americane dal momento che ci stiamo spostando sulla prossima fase della campagna“.
Attualmente ci sono 2 mila uomini delle forze armate americane in Siria, distribuiti in circa dieci basi e la maggior parte dei quali è impegnata nell’addestramento delle Forze democratiche siriane che combattono i jihadisti. Secondo fonti del della Difesa, gli Stati Uniti hanno già informato alcuni dei suoi partner della sua intenzione di rimuovere le truppe.
Ciò detto, il Dipartimento della Difesa, guidato dal segretario Jim Mattis, non starebbe sulla stessa lunghezza d’onda del Presidente e starebbe cercando di dissuaderlo. La portavoce del Pentagono Dana White, ha puntualizzato: “Abbiamo iniziato il processo di ritorno delle truppe americane dalla Siria durante la transizione alla prossima fase della campagna“. Secondo il Pentagono il disimpegno potrebbe essere percepito dai kurdi come un tradimento, un abbandono e questo vorrebbe dire compromettere un’alleanza che resiste da anni, giocando un ruolo cruciale in diversi contesti. Inoltre, i timori riguarderebbero anche il conseguente aumento dell’influenza di Paesi ostili come la Russia e l’Iran in Siria: infatti anche se mantenessero le loro forze armate nel vicino Iraq, da dove potrebbero lanciare raid contro Damasco, la decisione americana avvantaggerebbe Mosca e Teheran, minando il ruolo statunitense nella regione.
Alle perplessità dei ‘tecnici’, si affiancano quelle delle forze politiche, a partire dagli stessi repubblicani. Il Presidente della Commissione Esteri della Camera Ed Royce,sempre del GOP, ha tenuto a rammentare che “l’ultima amministrazione ha mostrato cosa succede quando le scadenze politiche arbitrarie … dettano la politica nelle zone di guerra. Dobbiamo imparare dagli errori del passato, non ripeterli“. Duro anche il Presidente della Commissione Esteri del Senato, Bob Corker, anch’egli repubblicano, che si è detto colpito dalla decisione, definendola, per certi versi, inaccettabile per gli interessi della nazione e degli alleati oltre che ‘peggiore’ di quanto fatto da Obama in Iraq. A detta del senatore repubblicano del Sud Carolina, Lindsey Graham, “ritirare questa piccola forza americana in Siria sarebbe un enorme errore simile a quello di Obama: con tutto il dovuto rispetto, l’ISIS non è sconfitto in Siria, in Iraq, e dopo essere appena tornato dalla sua visita Sicuramente non in Afghanistan, il presidente Trump ha ragione a voler contenere l’espansione iraniana, tuttavia il ritiro delle nostre forze in Siria compromette tale sforzo e mette a rischio i nostri alleati, i kurdi. al desiderio dell’ISIS di tornare“. Per il senatore Marco Rubio, repubblicano, ma molto critico di Trump, il brusco ritiro dalla Siria farà sì che i curdi e le forze di difesa siriane cessino la lotta contro l’ISIS e trasformino la Siria dai più grandi nemici di Israele: si tratta di un errore terribile che avrà gravi conseguenze per Stati Uniti e Israele e grande vantaggio per ISIS, Iran e Hezbollah “.
Dal fronte dei Democratici, Jack Reed, membro della Commissione per i Servizi Armati del Senato, ha definito l’annuncio “frettoloso” ed un’ “un’ulteriore prova dell’impossibilità del Presidente Trump” di muoversi nel contesto internazionale: “Solo perché il Presidente Trump ha twittato di aver sconfitto l’ISIS, non siamo più sicuri, soprattutto quando la realtà è molto diversa sul terreno. Il Presidente continua a ignorare il parere del suo personale militare, diplomatico e dei servizi segreti che ha costantemente messo in guardia contro l’azione che il presidente sembra pronta a prendere“. Scettico si è detto anche Adam Schiff, membro della Commissione Intelligence della Camera e, per esortare il Presidente Trump a riconsiderare la sua scelta, Rubio e Graham, insieme ad un gruppo di senatori bipartisan come Tom Cotton, Joni Ernst, Angus King e Jeanne Shaheen gli hanno inviato una lettera mercoledì sera.
A queste preoccupazioni, Trump ha risposto via Twitter che “La Russia, l’Iran, la Siria e molti altri non sono contenti che gli Stati Uniti se ne vadano, nonostante quello che dicono le fake news, perché ora dovranno combattere l’Isis e agli altri che odiano, senza di noi… Sto creando senza alcun dubbio il più potente esercito al mondo … Se l’Isis ci colpisce, sarà la loro fine“.
“Donald ha ragione“: ha, invece, sostenuto, nella conferenza stampa di fine anno a Mosca, il Presidente russo, Vladimir Putin, dicendo di essere d’accordo con l’omologo statunitense, sul fatto che gli Usa hanno contribuito in modo massiccio alla distruzione dell’Isis in Siria. “La presenza delle forze Usa non e’ necessaria” perché “stiamo percorrendo la via di una soluzione politica“, ha chiarito il leader del Cremlino, vantando gli ottimi risultati che la Russia ha conseguito intervenendo a fianco delle forze governative siriane e dell’Iran per combattere il terrorismo. Ma non ha mancato di tirare una stoccata ironica alla Casa Bianca, chiedendosi se poi agli annunci seguiranno le azioni, dato che “gli Stati Uniti sono in Afghanistan da 17 anni e quasi ogni anno dicono che ritirano le loro truppe“.
Cauto il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu: “Questa è una decisione degli Stati Uniti e studieremo le sue tempistiche, la sua attuazione e le sue ripercussioni per noi. In ogni caso, ci assicureremo che la sicurezza di Israele sia preservata e ci difenderemo da questa arena“, continuando “ad agire aggressivamente contro i tentativi iraniani di acquartierarsi in Siria con il pieno sostegno degli Stati Uniti“. “Era positivo avere un tampone americano all’Iran in Siria, ma non diciamo agli americani dove mettere gli stivali“, ha sottolineato il ministro dell’Intelligence israeliana, Yisrael Katz. L’ ex ministro israeliano della Difesa Avigdor Lieberman, leader del partito nazionalista Yisrael Beitenou, intervistato dalla radio dell’esercito israeliano, si è detto convinto che il ritiro delle forze americane operanti in Siria aumenti il rischio di un conflitto lungo il confine settentrionale d’Israele contro milizie sciite sostenute dall’Iran, come gli Hezbollah libanesi.
Preoccupati gli alleati europei: il ministro degli affari europei della Francia, Nathalie Loiseau ha dichiarato: “È vero che la coalizione ha compiuto progressi significativi in ​​Siria, ma questa lotta continua e continueremo“.“Esiste il pericolo che questa decisione danneggi la lotta contro l’Isis“, ha twittato il ministro degli Esteri tedesco, Heiko Maas. “La coalizione internazionale contro l’Isis ha fatto enormi progressi ma c’è ancora molto da fare e non dobbiamo perdere di vista la minaccia che rappresenta. Anche senza un territorio, Isis rimarrà una minaccia“, ha detto il portavoce della premier Theresa May. Ma le maggiori inquietudini sono quelle delle Forze democratiche siriane (SDF), che combattono contro i jihadisti al fianco dei curdi del Pyd/Ypg, principale alleato della coalizione a guida americana ma nemico di Ankara.
Ma andiamo con ordine. Bisogna ricordare che il ritiro, come ha fatto notare lo stesso Trump, era stato uno dei cavalli di battaglia della sua campagna presidenziale del 2016. Da candidato, aveva fortemente criticato l’intervento voluto da Bush jr. in Iraq e l’accelerazione impressa al disimpegno da Barack Obama, reo, rispettando le promesse elettorali, di aver aperto le porte all’Isis.
Nell’aprile 2017 parve ci fosse stato un ripensamento quando, dopo che le forze di Assad avevano usato armi chimiche in un attacco che ha ucciso più di 80 civili in un quartiere di Idlib, il tycoon, durante l’incontro con il Presidente cinese Xi Jinping nella sua tenuta di Mar-a-Lago in Florida, ordinò un raid aereo contro una base siriana dal quale si sospettava fosse partito l’offensiva. In quest’occasione, molti avevano evidenziato una differenza dal predecessore Obama, che aveva deciso di non passare all’azione contro Assad nonostante avesse oltrepassato la ‘linea rossa’ di utilizzo di armi chimiche. Nell’aprile di quest’anno, Trump è tornato a bombardare, con Francia e Gran Bretagna, obiettivi (un centro di ricerca scientifica nella capitale, un sito di stoccaggio per precursori di armi chimiche a Ovest di Homs e un posto di comando) che si sospettava fossero legati alle armi chimiche che il presidente siriano aveva utilizzato contro Khan Shaykhun, in provincia di Idlib. Ciononostante, pochi giorni dopo, il presidente USA aveva dichiarato l’intenzione di ritirare il contingente americano dalla Siria e “Su questo tema – forse solo su questo argomento – c’è più continuità tra Trump e Obama“, ha detto Richard N. Haass, presidente del Council on Foreign Relations e alto funzionario dell’amministrazione Bush Jr. A conti fatti, Trump sembra percorrere la strada già tracciata da Obama, non avendo mai disposto un intervento di terra, ma solo aereo.
Ciò che colpisce è che non più tardi della scorsa settimana Brett McGurk, l’inviato degli Stati Uniti alla coalizione che combatte contro l’ISIS, aveva prospettato: “Anche se la fine del califfato fisico è chiaramente ora in vista, la fine dell’ISIS sarà un’iniziativa molto più a lungo termine. Nessuno sta dichiarando la missione compiuta “. Di opinione simile, anche il consigliere di sicurezza nazionale, John Bolton, il 24 settembre, affermava che le truppe americane non “sarebbero andate via fintanto che le truppe iraniane erano fuori dai confini iraniani“.
Ma qualcosa era già cambiata tre giorni fa, il 14 dicembre, quando il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha avvertito che le sue forze si sarebbero presto spostate per attaccare le Unità di protezione del popolo curdo (YPG) e le forze democratiche siriane (SDF, sostenute dagli USA fin dalle prime fasi della guerra all’ISIS), entrambe considerate dalla Turchia fedeli alleate del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK). L’azione mirerebbe a liberare Manbij, citta’ a ovest dell’Eufrate nel nord della Siria, che, a seguito dell’operazione Euphrates Shield nell’agosto 2016 e Olive Branch nel gennaio 2018, a cui gli Stati Uniti non si sono opposti in quanto si trovavano sulla riva opposta, la Turchia non era riuscita a conquistare sebbene avesse acquisito un controllo effettivo su gran parte del territorio ad ovest dell’Eufrate immediatamente al di sotto del confine turco-siriano.
Il 14 dicembre, in una telefonata tra Washington e Ankara, l’inquilino della Casa Bianca aveva voluto rassicurazioni che l’azione non finisse per colpire i militari a stelle e strisce. Non a caso, sempre lunedì 17, sottolineando l’importanza di ridurre la presenza iraniana, l’inviato USA per la Siria James Jeffrey aveva tentato di minimizzare il sostegno degli Stati Uniti alle milizie kurde affermandone il legame con “un obiettivo specifico: la sconfitta dell’ISIS“. Inoltre, aveva tenuto a rimarcare Jeffrey, gli Stati Uniti “non hanno relazioni permanenti con entità substatali“. Piuttosto – aveva auspicato il funzionario – i kurdi siriani dovrebbero mirare “a diventare parte del tessuto di una società siriana rinnovata“, invece che perseguire l’indipendenza.
Ecco che il disimpegno americano si inserisce nel contesto, dunque, di una progressiva ‘riappacificazione’ con la Turchia, alleato NATO: due giorni fa, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti aveva infatti rivelato di aver approvato l’acquisto da parte di Ankara di 140 missili Patriot per un costo di 3,5 miliardi di dollari. A spingere Washington in questa direzione, ha certamente influito la volontà turca di acquistare il sistema antimissilistico S-400 dalla Russia, mossa che aveva incrinato ulteriormente i rapporti turco-americani, già tesi a causa delle vicende legate a Fethullah Gulen (di cui Trump starebbe meditando l’estradizione) e al pastore Andrew Brunson (recentemente liberato dalla Turchia) e, ovviamente, al supporto USA ai curdi siriani. Di fronte alla resistenza americana (anche sul programma F35), Erdogan, sfruttando il pretesto dei costi, aveva deciso di rivolgersi a Mosca.
“La quasi simultanea tempistica di questi due cambiamenti politici non è senza dubbio una coincidenza e riflette una conclusione dell’amministrazione Trump che riportare la Turchia indietro nell’orbita della NATO è più importante di altri interessi degli Stati Uniti nel nord-est della Siria” mette in chiaro William F. Wechsler, analista del Medio Oriente per l’Atlantic Council, specificando “che una mossa per ridurre la presenza degli Stati Uniti non è né sorprendente né sgradita. Ma se gli ultimi dieci anni ci hanno insegnato qualcosa dovremmo riconoscere che fino a quando le legittime rimostranze sunnite potrebbero non scalfire la minaccia di una rinascita di gruppi terroristici jihadisti salafiti rimane. Sarebbe meglio lasciare una piccola presenza per continuare a lavorare con i kurdi per aiutare a proteggersi da questo risultato. Un ritiro completo invia il segnale sbagliato, che sarà anche ascoltato da altri partner anti-terrorismo lontani dalla Siria “.
Anzi – sostiene Rachel Brandenburg, direttrice della Middle East Security Initiative dell’Atlantic Council – “il ritiro immediato delle forze americane dalla Siria invierebbe un segnale ai partner locali e regionali sul nostro impegno non solo a raggiungere un accordo diplomatico in Siria, ma anche all’approccio dichiarato dell’amministrazione di contrastare l’Iran in Siria e raggiungere una ‘sconfitta duratura’ dell’ ISIS. Anche una piccola impronta statunitense in Siria ha rassicurato alcuni partner chiave che gli Stati Uniti rimangono preoccupati per la loro sicurezza, che mi aspetto che un rapido ritiro possa mettere in discussione “.
Quello che appare chiaro è che la premessa di uno Stato islamico completamente neutralizzato è del tutto falsa. Il ritiro americano avrà’ un impatto negativo sulla campagna antiterrorista” lanciata contro l’Isis, hanno sottolineato in un comunicato le Forze Democratiche Siriane (SDF). L’ISIS infatti dimostra di avere ancora, ad esempio, la capacità di rispondere con contro-offensive importanti ogni volta che la potenza aerea americana non si trova nell’area. Al momento, risulta intonsa la roccaforte lungo la valle del fiume Eufrate nella parte orientale della Siria dove,secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, i jihadisti avrebbero ucciso oltre 700 prigionieri in quasi due mesi. Il 14 dicembre scorso, le SDF hanno sequestrato gran parte della città di Hajin, ma solo dopo una lunga campagna aerea. Contemporaneamente, l’ISIS sta intensificando la sua campagna per destabilizzare la città di Ar-Raqqa, come dimostra l’attacco del 4 novembre. Ma è soprattutto nel deserto e nell’area rurale che lo Stato Islamico continua ad avere forte presa, continuando ad avere accesso ai confini siriano-giordano e siriano-iracheno: grazie ad una fitta rete di tunnel, sembra ancora attivo ad Abu Kamal nella provincia meridionale di Deir ez-Zour e il fatto che non sono stati addestrati abbastanza uomini, come ricordato dal generale Joseph Dunford, può solo facilitare ancora di più la situazione dei miliziani.
Di certo, la decisione avrà conseguenze importanti sia per la Siria sia per il Medioriente. “Non è chiaro se abbiamo stabilito delle intese sulle condizioni del ritiro americano”, ha affermato Haass. “Abbiamo impostato delle linee rosse con i turchi su come gestiranno i kurdi? Qualche intesa con i russi sulla forma del futuro governo? “
Certamente, il carattere repentino della decisione statunitense rischia di compromettere la credibilità di Washington nella regione. Verrebbe meno un’importante leva nei rapporti con Teheran e Damasco e se, nell’ottica di Trump, la Russia e l’Iran non saranno contenti, la verità è che questa sua mossa ne consolida la posizione di attori protagonisti in Siria e ne fa gli arbitri chiave per una futura risoluzione del conflitto, che vedrà quasi certamente al potere il loro alleato, il presidente siriano Bashar al-Assad. Quest’ultimo avrà buon gioco di leggere questo disimpegno americano come un semaforo verde da parte degli Stati Uniti ai suoi sforzi per ristabilire il controllo su tutta la Siria. La Russia, impiegando poche migliaia di soldati e poche decine di velivoli, ha salvato Assad, si è assicurata le uniche basi aeree e navali nel Mar Mediterraneo e ha ristabilito il prestigio perso con il crollo dell’URSS. Dal canto suo, l’Iran rimarrà libero di mantenere la sua presenza lì ed espandere la sua influenza fino al Libano, a scapito sia di Israele sia di altri Stati del Golfo, Arabia Saudita in testa. La Turchia sembra aver ottenuto il massimo guadagno – poter avere voce in capitolo sul destino della Siria; poter colpire i kurdi; i sistemi d’arma americani – con il minimo sforzo. “Abbiamo raggiunto un punto importante nel lavoro per la formazione della commissione costituzionale per la Siria“. ha scritto in un tweet il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, dopo l’incontro a Ginevra di tre giorni fa con gli omologhi di Russia e Iran, Sergei Lavrov e Mohammad Javad Zarif, e l’inviato speciale delle Nazioni Unite, Staffan de Mistura. “Lentamente andiamo verso una conclusione. Non ci sono problemi riguardo le liste del regime e dell’opposizione per la commissione costituzionale“, ha precisato, promettendo che la Turchia intensificherà gli sforzi insieme ai partner affinché la commissione nasca “il più presto possibile” .
A rischiare più di tutti sono i kurdi. Due le alternative possibili. La più tragica riguarda l’offensiva turca nella zona ad est dell’Eufrate nella Siria settentrionale: lo scontro sarebbe cruento e per le forze kurde non ci sarebbero vie di scampo. Migliaia di morti e altrettanti rifugiati sarebbe il risultato finale. La più auspicabile potrebbe portare i kurdi a decidere di negoziare con Assad. In questo modo, però, il regime siriano potrebbe aumentare progressivamente il controllo sul Paese mentre per i kurdi il sogno indipendentista potrebbe appannarsi. 
Il ministro della Difesa ed ex capo dell’esercito turco Hulusi Akar, durante una visita ai militari turchi nella base di Doha in Qatar, ha annunciato che “la Turchia è pronta ad una nuova operazione militare nel nord della Siria contro le milizie curde”. Vi prenderanno parte circa 24mila tra soldati dell’esercito regolare e miliziani dell’Esercito siriano libero (Esl), fazione armata vicina alla Turchia. Negli ultimi giorni gli F16 di Ankara hanno già ripreso a bombardare le postazioni del Pkk nel nord dell’Iraq. In queste ore l’agenzia di stampa ufficiale siriana Sana riferisce di proteste nelle città di Hasakah e Qamishli “contro le minacce del regime turco e le sue dichiarazioni aggressive riguardo l’unità e l’integrità territoriale della Siria“.
“Sono preoccupanti i recenti eventi e sviluppi in Siria, soprattutto riguardo la condizione della nazione curda nel Paese“, afferma Barzani, che lo scorso anno aveva lasciato la presidenza della regione autonoma del Kurdistan iracheno e che mantiene la guida del Partito democratico del Kurdistan (Pkd). “In Siria molti curdi sono sfollati. Gli attacchi terroristici di Daesh, la situazione politica instabile e altre minacce negli anni passati hanno già fatto soffrire molto i curdi siriani. Spero che i recenti eventi e sviluppi non portino ulteriori violenze e a un’escalation del conflitto” ha concluso il leader kurdo che appena tre giorni fa Barzani aveva reso noto di aver incontrato a Erbil l’inviato l’inviato speciale Usa per la coalizione anti-Is Brett McGurk.
Riad Darar e Ilham Ahmed, co-presidenti del Consiglio democratico siriano (Msd), il braccio politico delle Forze democratiche siriane sono i due rappresentanti dell’alleanza curdo-siriana che combatte l’Isis arriveranno a Parigi domani per discutere del ritiro delle truppe americane dalla Siria. Si riuscirà ad evitare il peggio?