Omicidio Khashoggi, la cyber story porta in Italia. E in Israele
09/12/2018 |
Washington Post: “Una società italiana ha contribuito a creare il sistema per spiarlo”.
L’affaire-Khashoggi da giallo dell’orrore si trasforma anche in una cyber-spy story. Che chiama in causa aziende e governi stranieri. E investe anche l’Italia. Ci sarebbe infatti anche una società italiana, la milanese Hacking team, tra le aziende che hanno contribuito a potenziare l’arsenale cybernetico dei sauditi, in particolare del principe ereditario Mohammed bin Salman. Arsenale usato non solo contro i terroristi ma anche contro i dissidenti, tra cui c’era anche il giornalista e dissidente saudita Jamal Khashoggi, ucciso da agenti di Riyadh a Istanbul. Lo scrive David Ignatius, autorevole columnist del Washington Post, il quotidiano con cui collaborava Khashoggi. Ignatius non fornisce prove del fatto che la Srl italiana abbia effettivamente fornito al governo saudita il software per spiare e arrestare Khashoggi ma ricostruisce alcuni passaggi a sostegno di questa ipotesi. Figura centrale appare essere l’avvocato Saud al-Qathani, ex membro dell’aeronautica militare saudita e dirigente ambizioso alla corte reale di Riyadh, dove è responsabile del Center for Studies and Media Affairs. Lui e i suoi cyber colleghi hanno lavorato inizialmente con l’italiana Hacking Team, che ha come clienti circa 40 governi. Il 29 giugno di 3 anni fa, afferma il Wp, al-Qahtani avrebbe scritto ai vertici di Hacking Team chiedendo “la completa lista di servizi che la vostra stimata compagnia offre” e avrebbe proposto “una lunga e strategica collaborazione”. Poi hanno acquistato prodotti realizzati da due compagnie israeliane – NSO Group e la sua affiliata, Q Cyber Technologies – e da una degli Emirati, la DarkMatter.
Qahtani, scrive il Wp, ha costruito un network di sorveglianza e di manipolazione dei social media per far avanzare l’agenda del principe e sopprimere i suoi nemici. L’intelligence saudita, ricorda il Wp, ottenne nel 2013 da Hacking team strumenti per penetrare iPhone e iPad, e due anni dopo voleva un accesso analogo ai telefonini con sistema Android, secondo documenti rivelati da Wikileaks nel 2015. L’ex membro dell’aviazione avrebbe accelerato le cyber operazioni proprio nel 2015, parallelamente all’ascesa di MbS. Il 29 giugno di 3 anni fa, il fedelissimo dell’erede al trono saudita, scrive al capo di Hacking team chiedendogli la lista completa dei suoi servizi proponendogli “una lunga partnership strategica”. Il rapporto tra la società milanese e Riyadh divenne così forte, è la tesi del Wp, che quando Hacking team incontrò difficoltà finanziarie dopo le rivelazioni di Wikileaks, si fecero avanti investitori sauditi. Una compagnia basata a Cipro, la Tablem Limited, guidata da un imprenditore della famiglia di al-Qahtani, acquistò il 20% della Hacking Team nel 2016.
Sul proprio sito, la società si presenta così: “Riteniamo che combattere il crimine dovrebbe essere semplice: forniamo una tecnologia offensiva efficace e di facile utilizzo alle community di polizia e intelligence e di tutto il mondo”. Le risorse della compagnia, si legge in un’altra pagina, sono usate “da oltre 50 principali istituzioni governative per indagini cruciali in più di 35 Paesi”. La cyber-spy story porta anche a Tel Aviv. E qui a essere chiamato in causa direttamente è il governo israeliano. Sempre secondo il Washington Post, Israele ha autorizzato la cyber-company NSO a vendere all’Arabia Saudita un software per la sorveglianza. A rivelarlo al Wp sono due ex alti funzionari dell’intelligence Usa. Le due fonti hanno detto al Ignatius, che Israele ha concesso, in segreto, l’utilizzazione del sistema di sorveglianza nell’ambito della strategia di contrasto all’Iran. Le stesse fonti statunitensi hanno spiegato che i Sauditi hanno operato attraverso una società – la Q Cyber Technologies con base in Lussemburgo affiliata alla NSO. L’analista, che cita fonti americane, europee e saudite, riporta che anche il principe ereditario, Mohammed bin Saman, era stato colpito dalla capacità sviluppata da Israele nel campo del cyber spionaggio. La vicenda è ripresa con grande evidenza anche dal quotidiano di Tel Aviv Haaretz.
Sollecitato dall’autore dell’inchiesta, Chaim Levinson, il ministero della Difesa israeliano ha dichiarato che “the Defense Export Control Agency (Deca) provvede a concedere licenze per esportare sistemi di sicurezza in base alla legge vigente, e solo per i Paesi con i quali Israele ha rapporti di cooperazione in coordinamento con il ministero degli Esteri. E con altre autorità governative. Il ministero della Difesa – prosegue la nota – non entra in merito alla politica del governo d’Israele e comunque concede licenze funzionali a supportare ragioni strategiche e di difesa. Per queste ragioni, noi non possiamo commentare le notizie in questione”. Una sorta di silenzio-assenso.
Non è solo il Washington Post a chiamare in causa Israele. Secondo la causa intentata dal dissidente saudita Omar Abdulaziz, 27 anni che vive a Toronto, la società israeliana NSO Group Technologies ha aiutato il regno arabo a spiare attraverso le sue comunicazioni su smartphone che ha avuto con il giornalista ucciso Jamal Khashoggi, suo amico, ha riferito ieri il quotidiano statunitense, The New York Times. Pertanto, Abdulaziz accusa l’azienda informatica israeliana di aver collaborato con Riad nell’omicidio del giornalista nel consolato saudita in Turchia. Nel mese di agosto, un gruppo di ricerca presso l’Università di Toronto che studia la sorveglianza in rete ha segnalato che il telefono di Abdulaziz potrebbe essere stato violato e che Riad sarebbe stata dietro lo spionaggio che, secondo il dissidente, è stato effettuato da una società israeliana. Questa denuncia si aggiunge a quella di altri giornalisti e attivisti, i quali accusano la Nso Group Technologies di aiutare i governi degli Emirati Arabi Uniti e del Messico a spiare i loro smartphone. Il New York Times ha aggiunto nel suo articolo che la denuncia implica una maggiore pressione nei confronti della compagnia NSO e del governo israeliano; il secondo, in particolare, per autorizzare la vendita di programmi di spionaggio a governi stranieri. “Più in generale, la richiesta punta anche l’attenzione sull’alleanza sempre più aperta tra Israele, Arabia Saudita e altre monarchie del Golfo Persico”, ha affermato. Un passo indietro nel tempo.
Il 17 novembre 2017, il capo di Stato maggiore dell’esercito israeliano Gadi Eisenkot rilascia un’intervista al quotidiano dell’Arabia Saudita Elaph in cui afferma che Israele è pronto a scambiare informazioni, anche di intelligence e di supporto cyber, con tutti i Paesi arabi moderati, per fronteggiare la minaccia rappresentata dall’Iran nella regione. In particolare all’Arabia Saudita. Da allora, l’asse Gerusalemme-Riyadh si è ulteriormente rafforzata, anche per ciò che concerne una cooperazione fra intelligence e nel supporto offerto da Israele al Regno nel campo del cyber spionaggio. Un supporto del quale il grande alleato mediorientale d’Israele, ha fatto un uso “estensivo”, del quale Khamal Khashoggi è stato vittima. E come lui altri dissidenti sauditi invisi ad Mbs.