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SIRIA. Washington e alleati paralizzano la ricostruzione

Michele Giorgio 27 novembre 2018
L’amministrazione Trump e alcuni paesi europei e arabi condizionano lo sblocco di fondi e progetti all’avvio di una “transizione” politica, ossia alla fine del potere di Assad e all’uscita dalla Siria delle forze iraniane. L’Onu si adegua.

La partita siriana non è ancora finita. Se nel primo tempo il presidente siriano Bashar Assad e i suoi alleati – Russia, Iran e Hezbollah – sono riusciti a riprendere gran parte del paese grazie alla battaglia decisiva vinta due anni fa ad Aleppo, nel secondo tempo gli avversari occidentali e arabi faranno di tutto per ribaltare il risultato.
L’obiettivo è, come nei passati sette anni, la rimozione dal potere di Assad e la fine dell’alleanza tra Siria e Iran e dell’allineamento di Damasco alla cosiddetta “Mezzaluna sciita”. Un risultato che non sono riusciti ad ottenere con le armi e l’impiego di migliaia di jihadisti e islamisti “ribelli” e che adesso ritengono raggiungibile imponendo il blocco più o meno totale della ricostruzione del Paese devastato dalla guerra.
Di ricostruzione in Siria si parla già da un paio d’anni e di tanto in tanto si legge di progetti che imprese russe, iraniane e di altri paesi fuori dal “fronte anti-Assad” sarebbero pronte ad avviare per rimettere in piedi il Paese. Le Nazioni unite calcolano in 400 miliardi il costo della ricostruzione. Una cifra immensa che possono permettersi di sborsare solo gli Usa, l’Europa e le ricche petromonarchie del Golfo e pertanto destinata a rimanere solo inchiostro su carta sino a quando Assad, o meglio l’intero establishment politico e militare siriano, non si farà da parte.
La linea è stata dettata al Palazzo di Vetro, su pressione di Washington e dei suoi alleati. Un documento dell’ottobre 2017, disponibile sul sito dell’Onu, definisce criteri e principi dell’aiuto umanitario alla Siria. Un punto evidenziato in grassetto sancisce che «Soltanto quando ci sarà una transizione politica genuina e inclusiva negoziata dalle parti, le Nazioni Unite saranno pronte a facilitare la ricostruzione».
Il mese scorso Washington ha annunciato che rifiuterà qualsiasi assistenza alla ricostruzione post-bellica se forze iraniane saranno presenti in Siria. Il Segretario di Stato Mike Pompeo, parlando a un gruppo pro-Israele, ha descritto la Siria come un «campo di battaglia decisivo» e negato la volontà degli Usa di disimpegnarsi dal Paese arabo. «L’onere di espellere l’Iran dal paese ricade sul governo siriano – ha affermato Pompeo – se la Siria non garantisce il ritiro totale delle truppe sostenute dall’Iran, non riceverà un dollaro dagli Stati Uniti per la ricostruzione».
La sconfitta dell’Isis in Siria, ha aggiunto il responsabile della politica estera statunitense, «era il nostro obiettivo principale e continua ad essere una priorità ma ad esso si sono aggiunti altri due obiettivi: la risoluzione politica del conflitto e la rimozione di tutte le forze iraniane». Secondo la Nbc gli Stati Uniti impediranno in ogni modo possibile agli aiuti alla ricostruzione di entrare in Siria. Questa strategia non prevede che Assad sia rovesciato con la forza bensì con la pressione economica e sanzioni dure. Il governo siriano se vorrà ottenere i finanziamenti internazionali per la ricostruzione dovrà tagliare i legami che ha con l’Iran mentre Assad dovrà accettare di uscire di scena, annunciando come prima cosa che non si candiderà per un nuovo mandato presidenziale.
Le agenzie dell’Onu si sono adeguate al diktat di Usa e alleati occidentali e arabi. «Ad Aleppo, ad esempio, le Nazioni unite hanno una politica ben precisa» ci spiega una fonte siriana che collabora con una importante organizzazione umanitaria e che ha chiesto l’anonimato «se un edificio è stato danneggiato dalla guerra le agenzie dell’Onu potrebbero intervenire per ripararlo. Invece si astengono categoricamente da qualsiasi lavoro di costruzione ex novo perché la linea è che in Siria la guerra va avanti e Assad non ha vinto».
Non pochi dirigenti delle Nazioni unite contestano questa linea che penalizza milioni di civili siriani, aggiunge la fonte, «ma non possono muovere un passo senza il via libera dall’alto quando si tratta di lavori di ricostruzione, anche di piccola entità, di infrastrutture civili, anche quando potrebbero migliorare la vita di comunità prive di servizi essenziali, come l’elettricità e la rete idrica».
Il no alla ricostruzione non è seguito solo dall’Onu. Per la Banca Mondiale la situazione nel paese sarebbe ancora incerta. A inizio novembre il vice presidente per il Medio oriente e il Nord Africa della Banca Mondiale, Ferid Belhaj, ha detto al giornale online Sputnik che «Per ora l’ambiente (in Siria) non è favorevole» e ha aggiunto che un cambiamento di linea sarebbe comunque legato al consenso della comunità internazionale. La partita si gioca persino sulla pelle dei profughi.
Se è giusto che coloro che sono scappati dalla guerra (verso Libano, Turchia, Giordania e altri paesi) tornino in patria in condizioni di sicurezza e che alcuni di loro non siano costretti a subire eventuali punizioni da parte delle autorità, allo stesso tempo il rientro dei profughi viene comunque permesso con il contagocce perché non si vuole riconoscere la fine del conflitto e la stabilità della presidenza Assad.
Intanto le petromonarchie sunnite che tanto hanno fatto per abbattere Assad, armando e finanziando jihadisti e qaedisti in Siria, ora mandano segnali concilianti e fanno capire di essere pronte a riallacciare i rapporti con Damasco. Già qualche mese fa Anwar Gargash, l’influente ministro degli esteri degli Emirati, aveva parlato di «grave errore» in riferimento all’espulsione della Siria dalla Lega Araba (voluta dall’alleata Riyadh).
L’obiettivo di questa svolta è combattere l’Iran e spezzare, forse promettendo generosi aiuti economici, l’alleanza tra Tehran e Damasco. E anche limitare l’influenza della Turchia. «La situazione – scrive Kamal Alam sul portale Middle East Eye – non è diversa dal precedente riavvicinamento tra il defunto re Abdullah dell’Arabia Saudita e Assad dopo l’assassinio di Rafiq Hariri in Libano nel 2005. In precedenza, come ora, i sauditi misero fine alla loro ostilità nei confronti di Damasco per combattere l’influenza iraniana e turca nel Levante».
Michele Giorgio è su Twitter: @michelegiorgio2