Perché l’odio continua a preferire i social network
Claudio Giua 02/11/2018 |
Poche ore dopo la strage della sinagoga di Pittsburgh, tre cronisti del New York Times sono andati a verificare quante persone avessero postato su Instagram agganciandosi all’hashtag #jewsdid911, che sintetizza la vetusta fake news sugli ebrei responsabili dell’attacco alle Twin Towers.
Erano già quasi dodicimila. Ricordato che con “hashtag” si definisce la parola o l’accrocco di parole dietro i quali si raggruppano – in una comunità digitale – quanti si stanno esprimendo su un tema (il “topic”), mi preoccupa il fatto che Instagram sia di gran lunga il social più usato dai ragazzi americani ed europei.
Dunque anche loro prendono per buone e diffondono le più strampalate e pericolose falsità messe in circolo da menti e manine criminali. E poiché nell’universo della comunicazione interpersonale digitale l’estremismo urlato sale di livello quando uno dei tanti che se ne abbeverano diventa protagonista di fatti drammatici, un altro hashtag molto frequentato dopo l’attentato a opera del suprematista trumpiano Robert Bowers è risultato essere #88, abbreviazione del saluto nazista “Heil Hitler” per la doppia iniziale H, ottava lettera dell’alfabeto.
I social sono dunque il porto franco dell’hate speech, ossia dell’aggressione verbale e dell’insulto all’indirizzo dell’altro? In parte sì, e la responsabilità è dei loro gestori, che finora hanno garantito la totale impunità a chi alimenta l’odio, contando sui ritardi normativi di stati e sovrastati come l’Unione europea. Ha scritto The Daily Beast, sito tra i più informati d’America: “Instagram, di proprietà di Facebook, è diventato un rifugio per le figure di estrema destra”.
È evidente che qualcosa deve essere fatto al proposito, come sta accadendo nei confronti del piccolo social network Gab, sul quale Bowers aveva annunciato le proprie intenzioni terroristiche senza che alcuno se ne accorgesse e intervenisse. Abbandonato dagli investitori pubblicitari e dalle aziende sponsor, Gab adesso boccheggia. Ma si può fare altrettanto con giganti come Facebook, Twitter, Instagram? Soprattutto, sarebbero accettabili interventi repressivi o boicottaggi organizzati nei loro confronti? Ovviamente no, perché sui social non circola solo l’odio: lì trovano casa il dibattito politico, il gossip, il cazzeggio, la condivisione degli show televisivi, lo sfottò sportivo e ogni notizia che attragga gli utenti, ciascuno dei quali potenziale o attivo commentatore.
Quando ho cominciato a scrivere questo articolo, su Twitter gli hashtag che definiscono i “trend topics” italiani erano nell’ordine #fascistometro, #1novembre, #juventus121, #tuttisanti e #artissima2018. Il fascistometro è un test ideato dalla scrittrice Michela Murgia, pubblicato in appendice a suo ultimo libro, per misurare il proprio o l’altrui tasso di fascistizzazione. Artissima è la fiera torinese di arte contemporanea. Gli altri hashtag non hanno bisogno di spiegazione. Tre ore più tardi, in prima serata, tutt’altra classifica, con netta prevalenza dell’effetto tv: #XF12 (X Factor), #piazzapulita, #pechinoexpress eccetera.
Moltissimi di noi comunicano attraverso i social network, che hanno potenziato le possibilità di creare e mantenere rapporti tra persone vicine e lontane, con le istituzioni, con le aziende, con i servizi pubblici e privati, spesso condizionandoli. Non possiamo più farne a meno. Ma è necessario che chi li guida trovi il modo di rendere difficile la vita a quanti li usano per spargere i semi dell’odio. Lo farà, mr. Zuckerberg?
Come me ne dubita l’opinionista del Washington Post Kara Swisher, secondo la quale “tutte le piattaforme di social media sono progettate in modo che i post più inaccettabili viaggino due volte più veloci di quelli corretti. E operano con negligente disprezzo delle conseguenze (di questa scelta ndr)”. Dopo aver raccontato di come, trent’anni fa, fosse stata presa di mira da un lettore antisemita che le inviava lettere con minacce e insulti, conclude: “Non riesco a dirvi quanto sia triste per me scrivere queste cose. Dopo aver visto per la prima volta Internet, sperai che avrebbe aiutato a eliminare i comportamenti che avevano alimentato quelle lettere orribili. Immaginavo ingenuamente che un uomo solo che inviava a un giornalista missive piene di cattiverie non riuscisse a trovare un simile rifugio sulla rete, dove il suo odio sarebbe stato visto per quello che era, denunciato ed esorcizzato”. Accade esattamente il contrario: perché avere una platea esalta i deboli e i frustrati.