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Il caso Serena Williams? Ecco come si strumentalizzano il femminismo e l’antirazzismo per fare soldi

Francesco Francio Mazza 12 Settembre 2018
È la tennista più forte di sempre, ma ha perso contro un’avversaria più forte di lei: questi i fatti. Ma la bolla dei media femministi e afroamericani sfruttano il caso, parlando di discriminazione per il loro tornaconto, plagiando la realtà. Un caso di scuola di mercificazione dell’indignazione.

Ricordate quando si diceva che il valore di uno sportivo si misura nel modo in cui accetta la sconfitta? Potete pure dimenticarlo. Grazie alla sceneggiata di Serena Williams durante la finale degli US Open abbiamo capito che nel 2018 neppure lo sport è al riparo dallo tsunami di ipocrisia che da tempo ha travolto i media di tutto il mondo.
I fatti sono noti. Serena Williams – la migliore tennista di sempre – si gioca all’Arthur Ashe Stadium la finale che potrebbe regalarle il 24esimo Grande Slam, issandola al primo posto nella classifica delle più vincenti di sempre, a pari merito con la leggenda Margaret Court. Peccato che Serena, coetanea di Roger Federer, vada per i 37 anni: a quell’età, le giornate da dimenticare sono da mettere in conto, soprattutto se davanti c’è la giapponese Naomi Osaka, che di anni ne ha 17 di meno, ha disputato un torneo pazzesco perdendo solo un set e sta giocando una finale perfetta.
I numeri, alla fine, saranno impietosi. Un solo doppio fallo contro i sei dell’Americana, che ha realizzato solo un ace e commesso quasi il doppio degli errori gratuiti dell’avversaria. Per la giapponese è una vittoria storica: è la prima nella Storia a vincere un Grande Slam. La Williams, si sa, odia perdere – lo ha dichiarato più volte nelle interviste: ma questa volta, oltre che perdere la partita, perde pure la testa. Durante il match, visto che il suo allenatore le sta urlando dei consigli tecnici e che ciò, nel tennis, sia considerato un’infrazione (“coaching”), il giudice la richiama verbalmente. Lei, nervosissima, risponde a muso duro, guadagnandosi un secondo richiamo ufficiale. E a quel punto, fuori di se dalla frustrazione per una sconfitta certa, la campionessa lo accusa di essere un ladro.
Se fossimo nel calcio sarebbe da cartellino rosso. Siccome siamo nel tennis, come da regolamento, le viene semplicemente tolto un game. E qui comincia una commedia dell’assurdo, con la Williams che, da quel momento, inizia a sostenere che la ragione della penalità è il suo essere donna. «Ad un uomo non sarebbe accaduto», grida in campo, e poi lo ripete anche in conferenza stampa. Peccato sia accaduto eccome: durante lo stesso torneo gli uomini hanno ricevuto 23 richiami ufficiali, le donne 9. E se proprio ci fossero dei dubbi, basta chiedere al nostro Fognini, che di richiami ufficiali e penalizzazioni è un noto habituè.
«Io lotto per i diritti delle donne. E non mi fermerò», afferma sdegnata in conferenza stampa. Ci si aspetterebbe che qualcuno si alzi e chieda alla Williams se lei pensi effettivamente di non aver ricevuto il “coaching”, talmente chiaro da essersi sentito pure in TV. O ancora meglio, che qualcuno le chieda se questa lotta comprenda anche l’aggressione verbale di cui si rese protagonista nello stesso stadio nel 2009, quando durante un’altra sconfitta bruciante contro la rivale di allora Kim Clijsters, gridò ad una giudice di linea donna «prendo la pallina e te la infilo su per il …», più una serie di minacce e insulti assortiti, giustificandosi poi con un bel “tanto lo fanno tutti” e rifiutando di scusarsi.
A quei tempi, il gesto della Williams venne censurato all’unanimità. Ma quella era un’altra epoca, quella dove il femminismo era una cosa seria e il motto dei media di tutto il mondo non era ancora “strumentalizzare tutto, strumentalizzare subito”. Infatti in questa epoca, in cui il femminismo viene strumentalizzato per meglio vendere i giornali, all’irrompere della notizia che una tennista donna, e pure afroamericana, sostiene di essere vittima di discriminazioni, la bolla femminista letteralmente esplode. In America, blog e opinion leaders saliti alla ribalta nell’ultimo anno sulla scia del #metoo fanno della Williams l’ultima martire dell’odio maschilista – senza che si capisca bene quale sia il legame tra le donne costrette a subire il ricatto di un porco per poter lavorare e una tennista che per aver perso una partita si è appena messa in tasca 1,8 milioni di dollari.
Mentre il destino delle donne vittime di pregiudizi non viene nemmeno sfiorato dalla meritata sconfitta della Williams, a cambiare, in meglio, è il destino di questi paladini, che soffiando sul grande falò dell’indignazione, fanno schizzare in alto gli accessi ai propri profili social: stumentalizzando così le donne, e il femminismo, per il loro tornaconto economico
In Italia, una nota pagina Facebook che propone contenuti orientati alle donne mette insieme alla bell’e meglio una scheda in cui si illustra “il caso di discriminazione” subito dalla Williams, che ottiene un delirio di like, commenti e condivisioni. Peccato che nessuno, all’interno di questa bolla, si ricordi del precedente del 2009, o del fatto che gli insulti all’arbitro vengano sanzionati in tutti gli sport o della statistica sui richiami comminati agli uomini nel corso del torneo. Così, gli utenti che si informano esclusivamente in questa bolla, vengono privati di elementi fondamentali per formarsi un’opinione. Tralasciare intenzionalmente aspetti fondamentali di una notizia che erano già pubblici (citati, per esempio, dalla Gazzetta dello Sport): che cos’è questo se non lo stesso modo di procedere dei famosi creatori di fake news, cui si imputano tutti i mali del mondo?
Perché il problema è che non si tratta di una svista: si tratta, invece, del disvelamento definitivo di una strategia commerciale chiarissima, quella operata da quei media che sviliscono il femminismo a settore di mercato, da sfamare solleticando l’indignazione delle donne stufe, dando loro in pasto improbabili martiri che di martiri, come si vede, non hanno assolutamente nulla. E che purtroppo tengono in scacco l’intero sistema mediatico, attraverso la minaccia di una shitstorm su Twitter operata dalle loro locuste indignate, al punto che perfino la WTA – la federazione femminile di tennis – pur avendo multato la Williams ha dovuto scusarsi ammettendo il presunto sessismo per evitare la sassaiola di insulti virtuali (e allora come mai l’avete multata?).
Il tutto, si capisce, con un solo fine: non certo la parità di genere (di cui la WTA dovrebbe farsi vanto: le paghe tra uomini e donne sono uguali, altro che il calcio!) ma semplicemente aumentare la visibilità di questi paladini delle donne. Mentre il destino delle donne vittime di pregiudizi non viene nemmeno sfiorato dalla meritata sconfitta della Williams, a cambiare, in meglio, è il destino di questi paladini, che soffiando sul grande falò dell’indignazione, fanno schizzare in alto gli accessi ai propri profili social: stumentalizzando così le donne, e il femminismo, per il loro tornaconto economico.
Ma ecco che, col passare delle ore, sulla vicenda piomba un altro ordine di paladini: visto che sulle TV americane non si parla d’altro, i paladini degli afroamericani hanno capito che la Williams è una ghiotta occasione anche per la loro bolla, e ci si buttano sul caso a capofitto. Si rivedono alcuni dei volti protagonisti del movimento “Black Lives Matter” senza che, di nuovo, si capisca il legame tra le vite di innocenti assassinati dalla polizia e quello di una tennista sanzionata per coaching; si accusa un disegnatore australiano di essere “un membro del KKK” per una vignetta; ovunque e’ tutto un richiamo alla fratellanza e al colore della pelle con una strumentalizzazione degna del miglior Johnny Cochran.
In ultimo – capolavoro dei capolavori – si va addirittura all’attacco della bolla avversaria, con alcuni paladini afro che accusano i paladini delle donne bianchi di non avere diritto ad occuparsi della “loro” Serena. Il tutto senza che nessuno si occupi, neppure per un secondo, della vera vittima di tutto questo. Ovvero della povera Naomi Osaka, una donna che ha realizzato un’impresa pazzesca, a cui nessun paladino ha dedicato una riga, derubricando il suo trionfo strameritato come frutto di un arbitro sessista, nonostante la giapponese abbia schiantato la Williams in maniera netta, come certificato dalle statistiche. Ma di lei, ai paladini non interessa assolutamente nulla: quello che conta è solo il proprio conto in banca.