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Siria: ecco come il regime reintegra gli ex combattenti ribelli

ROBERTA TESTA 21 AGOSTO 2018
Negli ultimi vent’anni, la strategia adottata per promuovere la riconciliazione post-conflitto ha avuto al suo centro l’integrazione degli ex ribelli nelle forze nazionali, le stesse che hanno combattuto in passato.

I risultati ottenuti finora, certo non permettono di scendere a conclusioni univoche: alcuni stati, infatti, vantano un certo successo, come le Filippine, ma in Siria la situazione appare diversa. Il Governo, infatti, starebbe usando questo approccio per rafforzare il controllo sul Paese e la sua capacità di combattimento, cosa che, secondo gli esperti, porterà ad un effetto boomerang e prolungherà il conflitto.

Piuttosto che portare avanti un piano globale di smobilitazione, che prevede il disarmo e la riconciliazione, la Siria starebbe costringendo i ribelli ad integrarsi nelle forze armate come parte della suddetta strategia. I ribelli che accettano tali accordi e scelgono di rimanere in aree di controllo del Governo, hanno due alternative: unirsi alle forze filogovernative o finire arrestati o sotto rappresaglia. Lo sottolinea anche il ricercatore siriano Haid Haid, autore di una ricerca in proposito presso Chatham House. «Il regime sta usando una serie di incentivi a breve termine per smobilitare o cooptare il maggior numero di combattenti ribelli, ma è improbabile che la strategia sostenga la stabilità a lungo termine».
Molte preoccupazioni aleggiano, insomma, sulla costruzione della pace mediante l’integrazione dei ribelli nelle forze armate in Siria, ma vediamo nel dettaglio cosa sta accadendo.
Dal 2016, il regime ha dato il via alla negoziazione di accordi di consegna -i noti accordi di riconciliazione– che di fatto gli hanno permesso di ristabilire la propria autorità sulla maggior parte delle aree di predominio dell’opposizione. Tutto ciò ha significato lo spostamento forzato di alcunicombattenti e civili che continuano a resistere al dominio di Assad.
Ma nonostante i rischi e l’odierna presa di controllo del regime in quelle zone, non tutti le hanno abbandonate e, in diversi, hanno deciso di rimanere. Alcuni di loro, hanno deposto le armi scegliendo di tornare a una vita civile, ma un numero sorprendente si è unito a varie forze filogovernative. «Lungi dall’essere riconciliati, i meccanismi utilizzati dal regime per cooptare questi combattenti dell’opposizione irregolare sono coercitivi e difficilmente sosterranno la stabilità a lungo termine», afferma Haid.
Nonostante la consapevolezza che il servizio all’interno delle forze ausiliarie sarà probabilmente più pericoloso di altre opzioni, la maggior parte degli ex ribelli che non hanno lasciato le loro aree hanno incappato questa via. Perché? «Il principale driver dietro sembra essere il salario più alto fornito dalle forze ausiliarie rispetto alle forze armate ufficiali come l’esercito e la polizia locale. È stato riferito che la maggior parte dei combattenti dell’opposizione armata rimasti nella città di Al-Tall nelle zone rurali di Damasco aveva deciso di unirsi a un gruppo NDF chiamato Qalamoun Shield», spiega Haid. Non c’è una regola di procedura univoca per il passaggio dal ribelle alle forze ausiliarie, ma le nuove reclute vengono solitamente inviate per un breve addestramento dopo i primi contratti. «In molte occasioni, tale formazione comporta un programma di riorientamento politico da tre a sette giorni, controlli medici e valutazione delle competenze».
E cosa accade a chi non rispetta le regole? I militanti vengono arrestati e arruolati forzatamente. «In molti casi, la riconciliazione degli evasori è arrestata dal regime ancor prima che la fase temporanea finisca».
Eh si, perché parliamo di veri e propri metodi coercitivi che il regime siriano applica al fine di fare pressione su quelle stesse aree e convincere i ribelli ad arrendersi. Funziona così: gli accordi sono negoziati da comitati composti da mediatori locali con forti legami con il regime siriano; una volta raggiunto un accordo di consegna, il comitato in questione provvede alla registrazione dei nomi di combattenti e attivisti armati considerando se desiderano andarsene o rimanere nelle loro aree. Le liste composte vengono poi valutate da varie forze di sicurezza e di intelligence militare per determinare chi può rimanere e chi dovrebbe essere trasferito in altre aree controllate dai ribelli. Inoltre, gli ex combattenti tra i 18 e i 42 anni che non hanno adempiuto precedentemente ai propri obblighi di servizio militare, saranno tenuti ad arruolarsi nell’esercito. «In genere, viene loro concessa una pausa formale temporanea per sei mesi per risolvere i loro affari (un processo comunemente noto come taswiyat al-wad ‘) e iscriversi al ramo di reclutamento militare locale (Sha’bet Tajneed) nella loro rispettiva area per essere arruolati», dice Haid.
«I ribelli non hanno altra scelta se non quella di unirsi alle forze filogovernative. Devono accettare le milizie filo-governative o sono costretti a lasciare la loro area di residenza. Se scelgono di rimanere, rischiano di essere arrestati se non si uniscono ai lealisti del governo. In altre parole, unire le milizie filo-governative era l’unico modo per proteggersi dalle rappresaglie. Quindi questo è un esempio di una strategia coercitiva. Un altro modo è attraverso gli incentivi finanziari. Non ci sono alternative valide per queste persone per guadagnarsi da vivere. Il Governo non ha ancora avviato un processo che consenta loro di essere reintegrati nella vita civile e di assumere un impiego. L’unica via per guadagnarsi da vivere è quella di unirsi alle forze filogovernative», afferma Hai in un’intervista a Peacebuilding Deeply.
Inoltre, alcuni ex combattenti ribelli sono autorizzati ad unirsi ai servizi di polizia locali per soddisfare il loro obbligo di leva. Una volta che le persone vengono accettate, sono tenute a firmare un contratto per cinque anni. «I loro ranghi e stipendi sono in genere decisi in base alle leggi e ai regolamenti della polizia. Le loro rispettive stazioni di polizia sono quindi incaricate di seguire le autorità per sospendere il loro servizio militare». Unirsi alle forze di polizia locali consente agli ex combattenti di evitare la coscrizione e rimanere nelle loro comunità locali. Permette anche loro di evitare di combattere altri combattenti ribelli. Ma non per questo rimane una succosa opzione: le reclute di polizia devono prestare servizio per un periodo più lungo rispetto alle altre, inoltre, lo stipendio è inferiore al salario medio pagato da altre forze favorevoli al regime.
Ma torniamo a noi. Lo scopo che si cela dietro questi accordi, non pare essere quello di arruolare gli ex combattenti per fornire all’esercito la manodopera ma mira anche a costringerli ad «adottare la posizione politica del regime», come afferma Haid. Ne è una conferma l’obbligo a partecipare a programmi di riorientamento politico volti all’istruzione delle reclute nell’ideologia del partito Baath, con tanto di narrazioni del regime sulla rivolta.
I meccanismi di cui sopra hanno permesso al regime, almeno per il momento, di reintegrare o smobilitare gli ex combattenti ribelli rimasti nelle sue aree di controllo. Ma tali sforzi, come scrive Haid, «dipendono da meccanismi coercitivi a breve termine per cambiare il marchio delle ex forze ribelli, invece di essere parte di misure concrete per alimentare una strategia globale di disarmo, smobilitazione e reintegrazione. Senza una riforma politica e istituzionale di trasformazione, questi sforzi continueranno a minare la stabilità della Siria piuttosto che a migliorarla».
Un processo completo di smobilitazione e reintegrazione del disarmo, denominato DDR, mira a smobilitare i combattenti che non vogliono continuare a combattere o che non vogliono reintegrarsi nelle forze armate, solitamente consentendo loro di tornare alla vita civile. Poi si procede con il disarmo e, infine, con la reintegrazione. «Per coloro che non vogliono tornare alla vita civile e vogliono unirsi alle forze armate, è necessario creare meccanismi che consentano loro di farlo. Devi dare ai ribelli una chiara idea di cosa aspettarsi quando si tratta della loro classifica e del potenziale di promozione. Il governo deve anche fornire risposte chiare a domande come: gli ex ribelli saranno trattati come gli altri? Quali sono le regole che verranno implementate su di loro? Quali sono le condizioni e i criteri che faranno sotto?», afferma Haid.
Le problematiche sono diverse. In Siria, il regime sta cambiando la lealtà di questi gruppi di ex ribelli senza, però, reintegrarli in forze armate ufficiali e, quindi, regolari. «In altre parole, molti ex ribelli continuano a esistere al di fuori delle strutture statali. Ma anziché essere l’opposizione, ora sono membri di gruppi lealisti che operano al di fuori dello stato. Questo è un problema: cambiare la fedeltà senza realmente integrarsi. È più una soluzione a breve termine che una strategia completa». Inoltre, il regime non facilita il ritorno alla vita civile di coloro che non vogliono continuare a combattere. Il Governo non sta facendo nulla per dare loro posti di lavoro e garanzie di protezione che garantiscano loro di poter dormire al sicuro qualora scelgano di non aderire alle forze filogovernative.
Non dimentichiamo, poi, il problema del disarmo. Manca la fiducia tra gli ex ribelli e lo Stato, molti di loro nascondono ancora le proprie armi. «Il regime non sta facendo nulla per incoraggiarli a rinunciare alle armi, come pagarli o riacquistare armi. Inoltre, il governo non sta cercando di creare fiducia con i ribelli, così molti pensano che non saranno protetti dallo Stato».
Cosa andrebbe fatto?
Riforme istituzionali diversi livelli. La prima dovrebbe riguardare l’apparato militare e di sicurezza dello Stato. «Sono tra le istituzioni più corrotte e sono stati fondamentali per l’inizio del conflitto in Siria: sono stati coinvolti nel licenziamento contro i manifestanti, nel detenere attivisti, nel torturare i detenuti. In altre parole, la sicurezza e l’apparato militare sono tra le istituzioni che hanno scatenato il conflitto». «Per cambiare, è necessario cambiare quelle istituzioni. Non puoi semplicemente dire alle persone di unirsi a quelle istituzioni senza cambiarle».