In Libia non esiste il lieto fine
Khalifa
Abo Khraisse, Internazionale, 10 maggio 2018
Nessuno
vuole leggere storie sulla Libia, soprattutto se riguardano i crimini che qui
si consumano. Tutte le storie di questo genere che vengono dalla Libia sono più
simili a Gomorra che a una serie poliziesca americana. Nelle nostre realtà non
esiste il lieto fine. Se cercate sognanti trame che possano ispirarvi, seguite
l’account Twitter di un qualsiasi funzionario italiano o libico e non leggete
oltre.
Bengasi,
Libia, 2012. (Lorenzo Meloni, Contrasto)
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I
rapitori erano noti
A qualche mese di distanza dal rapimento, il padre dei bambini, il ricco uomo d’affari Riyad al Shirshari, fratello dell’ex esponente del Consiglio nazionale generale (Cng), il parlamento libico, Adel al Shirshari, ha dichiarato al canale televisivo Libya Tv che il rapimento dei suoi figli era da considerarsi eccezionale e soprattutto che i rapitori erano ben noti. Il riferimento era alle indagini relative alle persone coinvolte nel rapimento. Uno dei sospettati arrestati aveva confessato che il motivo del rapimento era la richiesta di un riscatto di venti milioni di dinari libici (circa 12,3 milioni di euro) e ha indicato i nomi di molte persone coinvolte nel rapimento. Fin dall’inizio tutti in Libia sapevano che l’uomo dietro il rapimento era Al Nimri al Mahjoby, il famigerato capo di una milizia attiva a Surman e Sabratha, un ex rivoluzionario e uno dei leader della coalizione di Alba libica. Era stato molto lodato e aveva ricevuto persino il sostengo del mufti in persona.
A qualche mese di distanza dal rapimento, il padre dei bambini, il ricco uomo d’affari Riyad al Shirshari, fratello dell’ex esponente del Consiglio nazionale generale (Cng), il parlamento libico, Adel al Shirshari, ha dichiarato al canale televisivo Libya Tv che il rapimento dei suoi figli era da considerarsi eccezionale e soprattutto che i rapitori erano ben noti. Il riferimento era alle indagini relative alle persone coinvolte nel rapimento. Uno dei sospettati arrestati aveva confessato che il motivo del rapimento era la richiesta di un riscatto di venti milioni di dinari libici (circa 12,3 milioni di euro) e ha indicato i nomi di molte persone coinvolte nel rapimento. Fin dall’inizio tutti in Libia sapevano che l’uomo dietro il rapimento era Al Nimri al Mahjoby, il famigerato capo di una milizia attiva a Surman e Sabratha, un ex rivoluzionario e uno dei leader della coalizione di Alba libica. Era stato molto lodato e aveva ricevuto persino il sostengo del mufti in persona.
A un mese
di distanza dal rapimento la famiglia non aveva ricevuto alcuna richiesta di
riscatto. Poiché nessuno sembrava disposto a coinvolgere o, quanto meno, a
interrogare il principale sospettato, la famiglia ha deciso di prendere in mano
la situazione. Il 9 gennaio la tribù a cui la famiglia apparteneva, armata fino
ai denti, ha attaccato la milizia del sospettato nel tentativo di liberare i
bambini nel caso si trovassero lì, o di arrestare qualcuno che potesse sapere
dove fossero. La tribù di Al Nimri è intervenuta per proteggerlo. Negli scontri
ciascuno degli schieramenti ha perso quattro uomini e molti altri sono stati
presi in ostaggio.
Gli
scontri sono continuati a intermittenza per circa tre mesi, finché il Consiglio
di riconciliazione degli anziani della Libia e i capi locali non sono
intervenuti per cercare di mediare tra i due contendenti. Le due tribù hanno
accettato di firmare un accordo di pace e di cessate il fuoco, hanno liberato
tutti gli ostaggi e hanno promesso di collaborare per garantire che i bambini
potessero tornare a casa sani e salvi.
Richieste
nel vuoto
Attivisti e abitanti della città di Surman hanno organizzato manifestazioni per chiedere alle autorità di intraprendere passi effettivi per garantire la sicurezza delle città e perseguire i delinquenti. Le ong locali hanno dichiarato in un comunicato: “I bambini della famiglia Al Shirshari sono figli di ogni cittadino libico e fratelli di tutti i bambini della Libia”.
Attivisti e abitanti della città di Surman hanno organizzato manifestazioni per chiedere alle autorità di intraprendere passi effettivi per garantire la sicurezza delle città e perseguire i delinquenti. Le ong locali hanno dichiarato in un comunicato: “I bambini della famiglia Al Shirshari sono figli di ogni cittadino libico e fratelli di tutti i bambini della Libia”.
I
familiari hanno messo in campo tutte le loro risorse e conoscenze per dare una
possibilità ai bambini. Si sono fatti sentire, hanno inviato lettere e
rilasciato interviste, hanno usato i social network e contattato giornali e
canali televisivi. In un’intervista la madre ha dichiarato: “Voglio i miei
bambini, voglio poterli riabbracciare se sono ancora vivi o seppellirli se sono
stati uccisi”. A quel punto non potevano fare altro che riporre la loro fiducia
nel dipartimento per le indagini criminali (Cid), forze di polizia regolari
agli ordini del capo della polizia, e nel capo dell’Unità anticrimine.
L’Unità
anticrimine è un organismo alternativo, legato al governo in modo piuttosto
indefinito, come il resto delle milizie arruolate o imposte al governo libico
dopo il 2011 per riempire il vuoto di sicurezza. È lo stesso organismo che
nell’ottobre del 2013 ha rapito l’ex primo ministro Ali Zidane dal suo
hotel, portandolo via in pigiama, per vendicarsi del ruolo giocato dal governo
nell’operazione statunitense che aveva condotto alla cattura di Abu Anas al
Libi, una figura di spicco di Al Qaeda.
In più di
due anni di indagini l’Unità anticrimine ha arrestato venti persone, una delle
quali morta durante gli interrogatori, ma nessuno ha osato arrestare il
principale sospettato. L’ufficiale che guidava le indagini era il capo
dell’Unità anticrimine di Surman, Mohammed al Kayb. Era uno dei migliori negli
interrogatori e lavorava con le Forze speciali di deterrenza (Rada). Lo
chiamavano “detective Conan” (dal personaggio dei fumetti) per la sua capacità
di ottenere confessioni e risolvere crimini. Sulla scia di questo caso ha
perfino istituito un’unità specializzata nella lotta contro i rapimenti.
Il
coinvolgimento del capo anticrimine
Il mese scorso il Cid di Surman è riuscito ad arrestare Al Nimri dopo che, con un’operazione a sorpresa condotta insieme ad altre forze di intervento, era stata individuata una delle sue case sicure. È stata organizzata un’imboscata a lui, ai suoi cinque fratelli e ad alcuni cugini. Sono morti tutti negli scontri con la polizia. Lo stesso Al Nimri è stato ferito gravemente, ma sono comunque riusciti ad arrestarlo vivo. In ospedale ha dato indicazioni per ritrovare il posto in cui i bambini erano stati seppelliti. Il giorno dopo, il 7 aprile 2018, gli agenti del Cid hanno disseppellito i resti dei tre fratellini nella foresta di Baraem, a sud di Surman.
Il mese scorso il Cid di Surman è riuscito ad arrestare Al Nimri dopo che, con un’operazione a sorpresa condotta insieme ad altre forze di intervento, era stata individuata una delle sue case sicure. È stata organizzata un’imboscata a lui, ai suoi cinque fratelli e ad alcuni cugini. Sono morti tutti negli scontri con la polizia. Lo stesso Al Nimri è stato ferito gravemente, ma sono comunque riusciti ad arrestarlo vivo. In ospedale ha dato indicazioni per ritrovare il posto in cui i bambini erano stati seppelliti. Il giorno dopo, il 7 aprile 2018, gli agenti del Cid hanno disseppellito i resti dei tre fratellini nella foresta di Baraem, a sud di Surman.
Al Nimri
ha distolto l’attenzione da un altro uomo dietro la vicenda, ossia lo stesso
Mohammed al Kayb, capo dell’Unità anticrimine di Surman. Quest’ultimo è stato
arrestato dalle forze del Rada mentre cercava di lasciare il paese poche ore
dopo l’arresto di Al Nimri. Non solo aveva cercato di depistare le indagini, ma
aveva anche ricattato le persone arrestate durante le indagini per ottenere dei
soldi.
Mohammed
al Kayb ha un corposo faldone all’Ufficio per la sicurezza interna della Libia.
Molte fonti hanno confermato che ha avviato la sua carriera terroristica nel
1991, viaggiando con passaporti falsi tra l’Arabia Saudita, il Pakistan e
infine l’Afghanistan, dove ha ricevuto un addestramento militare e ai princìpi
della sharia. Nel 1994 si è unito al Gruppo dei combattenti islamici libici.
Tra il 1995 e il 2000 ha continuato a viaggiare tra il Sudan, la Giordania
e infine la Siria, dove nel 2000 è stato arrestato e rispedito in Libia. Qui è
stato condannato all’ergastolo nel carcere di Buslim. Nel 2011, durante la
guerra civile, è stato liberato, e insieme a lui si stima che siano usciti di
prigione altri ventimila prigionieri. Alcuni sono stati rilasciati da Gheddafi
nei primi giorni della rivolta, il resto all’entrata dei ribelli a Tripoli.
I bambini
sono stati uccisi un mese dopo il rapimento. Li hanno tenuti prigionieri in una
stanza segreta sotterranea, priva di porte e finestre, sotto quella che
dall’esterno sembrava una piccola casa in campagna in mezzo ad altre fattorie.
I rapitori avevano ideato un sistema di areazione per far circolare l’aria, ma
non avevano tenuto conto delle interruzioni di energia elettrica in Libia. I
bambini hanno trascorso le ultime ore di vita nella più totale oscurità, soli,
terrorizzati, a soffocare lentamente.