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💥 SPECIAL SYRIA _ E ora che succede in Siria?

Il Post, 14
aprile 2018

C’è il
rischio di uno scontro diretto tra americani e russi?
Assad continuerà a usare
armi chimiche? Un po’ di risposte dopo gli attacchi di questa notte

Sostenitori
del governo di Bashar al Assad sfilano per le strade di Damasco
dopo i
bombardamenti della notte. (AP Photo/Hassan Ammar)

Poco dopo
le 3 della notte tra venerdì e sabato Stati Uniti, Francia e Regno Unito hanno
attaccato
tre obiettivi militari in Siria, legati alla produzione di
armi chimiche del regime del presidente Bashar al Assad. L’attacco, ampiamente
anticipato nei giorni scorsi, è stato una ritorsione per il bombardamento
chimico
compiuto a Douma, a est di Damasco, lo scorso 7 aprile, per
il quale è stato accusato proprio il governo siriano. Il governo russo, alleato
di Assad, ha condannato i bombardamenti di questa notte e ha detto che ci
saranno conseguenze. Nelle ultime ore in molti si stanno chiedendo proprio
questo: che succede ora? C’è il rischio che inizi una nuova grande guerra in
Siria, con uno scontro diretto tra Stati Uniti e Russia? La risposta breve è:
probabilmente no.

Il
bombardamento di questa notte a Damasco. (AP Photo/Hassan Ammar)
L’attacco
di questa notte è stato particolarmente calibrato per evitare un’intensa
escalation di violenze, che nella complicata guerra siriana, iniziata ormai più
di sette anni fa, è sempre possibile. Già nei giorni scorsi, dopo le prime dichiarazioni
molto bellicose
contro la Russia e Assad, il presidente degli Stati
Uniti Donald Trump aveva ridimensionato i toni delle accuse e aveva lasciato
intendere che la ritorsione contro l’attacco chimico compiuto da Assad a Douma
sarebbe stata limitata e misurata: nessuno, tanto meno gli Stati Uniti e i suoi
alleati europei, vuole arrivare a un grande scontro con la Russia.
 
Per
capire meglio che tipo di attacco è stato compiuto questa notte e l’impatto che
potrebbe avere nelle prossime settimane in Siria è utile partire da più
indietro, almeno un anno fa.
Il 4
aprile 2017 il regime siriano usò armi
chimiche
in un bombardamento nella provincia di Idlib, controllata
dai ribelli anti-governativi e gruppi jihadisti. Nell’attacco furono uccise più
di 70 persone, la maggior parte delle quali civili. Trump, che si era insediato
alla presidenza degli Stati Uniti meno di tre mesi prima, decise di punire
Assad per l’attacco: era stata superata la cosiddetta “linea rossa” fissata
dagli Stati Uniti, aveva detto Trump, e la Siria di Assad andava colpita e
costretta a non usare più sostanze chimiche contro la popolazione civile. Trump
decise di rispondere soprattutto per una ragione politica precisa: voleva
distanziarsi subito dall’amministrazione Obama, che aveva ampiamente criticato
negli anni precedenti. Quattro anni prima, infatti, Obama si era ritrovato in
una situazione simile. Assad aveva
bombardato
con armi chimiche Ghouta orientale (la zona dove si trova
Douma), uccidendo più di 1.400 persone. Obama rinunciò a colpire Assad,
nonostante avesse in precedenza promesso di farlo, e alla fine la questione si
chiuse con un accordo che coinvolse anche la Russia e che prevedeva lo smantellamento
dell’arsenale chimico di Assad.
Nella
ritorsione militare compiuta contro Assad lo scorso anno, gli Stati Uniti
avevano agito da soli, senza la collaborazione degli alleati europei: avevano
lanciato
58 missili e colpito una base militare siriana, quella da
cui erano partiti gli aerei usati nell’attacco chimico nella provincia di
Idlib. Era stato un attacco preciso e limitato, di cui erano stati avvisati in
anticipo i russi per evitare l’inizio di una grave crisi internazionale. Il
problema, però, è che non aveva funzionato.
L’attacco
chimico del 7 aprile, e i molti altri compiuti dal regime siriano nei mesi
precedenti con il cloro, hanno mostrato come le scelte di Assad sulle armi
chimiche non siano cambiate, nonostante l’attacco di un anno fa. Dopo il
bombardamento a Douma del 7 aprile era necessario per gli Stati Uniti e i loro
alleati trovare un punto di equilibrio tra due esigenze: punire Assad per
quello che aveva fatto, ma allo stesso tempo evitare un attacco così intenso da
scatenare la reazione della Russia. O, detto in altre parole, salvare la faccia
senza provocare l’inizio di una nuova grande guerra in Siria che nessuno
vorrebbe.
La
soluzione è stata trovata con l’attacco di questa notte. I missili usati sono
stati il doppio rispetto alla ritorsione dell’aprile 2017 – quindi più di un
centinaio – e gli obiettivi colpiti sono stati tre, al posto che uno solo. La
maggiore estensione e intensità dell’attacco ha permesso ai governi di Stati
Uniti, Francia e Regno Unito di parlare di una punizione più severa di quella
dello scorso anno, ma non così severa da rischiare uno scontro aperto con la
Russia. Nei giorni precedenti all’attacco, americani e russi avevano tenuto
aperte le linee di comunicazione sulla Siria per accertarsi che i bombardamenti
non colpissero mezzi o personale militare russo in Siria. Non è chiaro se anche
questa volta la Russia sia stata avvisata in anticipo degli attacchi: il
dipartimento della Difesa americano ha detto di no, la Francia ha detto di sì.
Sabato mattina, comunque, il governo russo ha confermato di non avere subìto
alcuna perdita nei bombardamenti.

Come ha
sintetizzato molto efficacemente la giornalista Jenan Moussa su Twitter:
«L’Occidente può dire di avere agito. La Russia può dire che il bombardamento è
stato minimo e che non ha bisogno di reagire. Entrambe le parti hanno salvato
la faccia».

Il fatto
che la ritorsione militare di questa notte sia stata limitata nel tempo e nello
spazio è dipeso anche da un altro motivo: né gli Stati Uniti né i suoi alleati
europei avevano l’obiettivo di destituire il regime di Assad.
Nei primi
anni di guerra in Siria gli Stati Uniti, allora governati dall’amministrazione
Obama, avviarono un piano di finanziamento e addestramento di alcuni gruppi
ribelli in funzione anti-Assad. Si arrivò anche a parlare della possibilità di
un cosiddetto “regime change”, un cambio di regime, che però rimase un’ipotesi
e niente di più. Quando gli Stati Uniti iniziarono il loro intervento militare
contro lo Stato Islamico (o ISIS), e dopo una serie di vittorie di Assad contro
i ribelli favorite dall’intervento in guerra della Russia, l’idea di destituire
Assad fu definitivamente abbandonata. Sarebbe stato infatti troppo rischioso –
c’era il pericolo di uno scontro diretto con i russi – e non sembravano esserci
più alternative credibili per il dopo-Assad, visto che i ribelli moderati erano
per lo più stati sconfitti o fagocitati in gruppi di ribelli più radicali, tra
cui c’erano fazioni jihadiste. Nel corso degli ultimi due anni il potere di
Assad si è rafforzato e oggi nessuno stato occidentale mette più in discussione
la sua posizione: come si dice, Assad è lì
per restare
.
È per
questo che nella notte tra venerdì e sabato la prima ministra britannica
Theresa May ha detto esplicitamente, riferendosi al bombardamento in corso:
«Questo non significa intervenire in una guerra civile. Non riguarda il regime
change. Si parla di un attacco limitato e mirato che non provocherà
un’escalation di tensione nella regione e che è stato preparato per evitare in
ogni modo vittime civili».
Sembra
quindi molto improbabile che l’attacco di questa notte provocherà uno scontro
aperto tra Stati Uniti e Russia, ipotesi di cui si era parlato parecchio nei
giorni scorsi. Sembra però altrettanto improbabile che il bombardamento sia
sufficiente a convincere Assad a rinunciare a usare le armi chimiche. Questo
non significa però che non ci saranno ritorsioni di alcun tipo. Come ha
scritto il Washington Post
, il rischio che gli Stati Uniti vengano
in qualche modo colpiti esiste. Per esempio le milizie sciite appoggiate
dall’Iran, e quindi alleate di Assad, potrebbero attaccare le forze americane
presenti in diversi paesi del Medio Oriente. È difficile comunque fare
previsioni certe su quello che potrà succedere, visto il numero di stati
coinvolti e il livello di complessità che ha raggiunto oggi la guerra in Siria.