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Cina, i gay vincono sulla censura dei social

Cecilia Attanasio Ghezzi, lettera43, 16 aprile 2018
Il bando delle tematiche omosessuali su Weibo è durato appena tre giorni. Una tempesta di messaggi lo ha obbligato a fare marcia indietro. Le conquiste e le difficoltà della comunità Lgbt nell'ex Celeste impero.


È durata appena tre giorni la decisione di censurare i contenuti omosessuali su Weibo, quello che comunemente viene definito il Twitter cinese. Con hashtag come #SonoGay e #SonoIllegale, decine di migliaia di cittadini hanno protestato contro la decisione annunciata dall'azienda il 13 aprile scorso di rimuovere i contenuti «con implicazioni pornografiche, che promuovono la violenza o correlati all'omosessualità». In meno di 24 ore questi hashtag sono comparsi sul microblog 300 milioni di volte, poi sono stati censurati. Ma la "tempesta" ha dato i suoi frutti.
CONTRORDINE: TOLLERARE I GAY. Nel pomeriggio del 16 aprile l'azienda ha fatto ufficialmente marcia indietro con un messaggio che in meno di tre ore è stato condiviso oltre 33 mila volte. Non è però ancora chiaro che ruolo abbia avuto il governo sulla decisione di equiparare l'omosessualità alla pornografia, e su quella successiva di rimuovere il divieto dal social. Fatto sta che il Quotidiano del popolo, organo di stampa ufficiale del Partito comunista, il 15 aprile aveva pubblicato un editoriale in cui si incoraggiava la tolleranza verso i gay ma al contempo si ribadiva che i contenuti «volgari» devono essere rimossi dal web a prescindere dall'orientamento sessuale che esprimono.
Non è certo la prima volta che la comunità Lgbt cinese deve combattere per vedere riconosciuti i propri diritti. Nonostante fosse un fenomeno largamente diffuso in epoca imperiale, la Repubblica popolare ha da sempre etichettato l’omosessualità come una «pratica decadente» importata dall’Occidente. Fino al 1997 è stata considerata un reato e solo nel 2001 è stata cancellata dalla lista delle malattie mentali. Oggi l’attitudine del governo è quella di«non approvare, non disapprovare e non incoraggiare» ma la pressione sociale continua a essere enorme. La discendenza non è qualcosa a cui cinesi sono disposti a rinunciare.
L'OMOSESSUALITÀ NON È UNA MALATTIA. A fine 2014 un tribunale di Pechino ha sentenziato che «l’omosessualità non è una malattia mentale e come tale non può essere curata». Neanche un mese dopo una corte di Shenzhen si è dovuta confrontare con il primo caso di discriminazione sessuale sul lavoro: un ragazzo licenziato dopo aver messo online un video in cui faceva coming out. Il tribunale gli ha dato ragione anche se il ragazzo non è stato reintegrato. A settembre 2016 una studentessa dell’università di Guangzhou aveva fatto causa al ministero della Pubblica istruzione perché su 31 libri di psicologia pubblicati dopo il 2001, 13 descrivevano ancora l’omosessualità come un disordine della personalità. Ovviamente la Corte suprema ha finito per dare ragione al ministero.
Nel 2016 un tribunale di Changsha, nella Cina interna, aveva respinto la causa intentata da una coppia gay nei confronti di un ufficio dell’amministrazione locale che si era rifiutato di emettere un regolare certificato di matrimonio per due uomini. Si è trattato del primo caso di questo tipo, e le motivazioni portate dall'avvocato della coppia non erano certo peregrine: «La legge non discrimina: non dice che il matrimonio è l'unione di un uomo e di una donna, ma di marito e moglie. Una terminologia che si può applicare anche alle coppie gay». A luglio 2017, invece, un 28enne transgender ha vinto la causa contro l’azienda per cui lavorava: era stato licenziato a causa dell’abbigliamento non appropriato.
PINK YUAN. Ma nel frattempo tra i giovani delle grandi città il fenomeno è sempre più conosciuto e accettato e, come in tutto il mondo, intorno al mondo Lgbt (lesbiche, gay, bisessuali e transessuali) si sta sviluppando un mercato miliardario. Li chiamano “pink dollar”, ma sono dollari - anzi yuan - a tutti gli effetti. Forbes ha stimato che il potenziale commerciale che gira attorno al mondo Lgbt si aggira sui 3 mila miliardi di dollari, di cui circa 300 miliardi solo per la Repubblica popolare, un mercato in rapida espansione che fa gola a molti.
C'È CHI CI GUADAGNA. Lo sa bene il gigante di e-commerce Alibaba, che per San Valentino 2015 ha regalato un matrimonio negli Stati Uniti a 10 coppie dello stesso sesso. O il poliziotto che nel 2015 ha lanciato Blued, l'app per incontri omo basata sulla geolocalizzazione. Oggi ha 27 milioni di utenti, quanti quelli del competitor Grindr che, lanciato negli Usa nel 2009, è stato poi comprato da un fondo cinese.
Un finto matrimonio gay. STR/AFP/GettyImages
Ma al di fuori delle grandi città, la società cinese ancora fatica ad accettare l'omosessualità. Le difficoltà che i giovani gay e lesbiche dicono di incontrare sono soprattutto in seno alla famiglia. Un sondaggio delle Nazioni Unite del 2016 evidenzia come solo il 15% degli omosessuali ne ha parlato con i famigliari e appena il 5% si presenta pubblicamente come gay. Nonostante si sia già espresso un tribunale, sono ancora molti gli ospedali pubblici che offrono «cure per l'omosessualità».
PER LE FAMIGLIE È ANCORA UN TABÙ. E secondo un recente report dell'HRW è la famiglia a spingere verso queste terapie. Anche per i genitori più aperti, infatti, continua a essere impensabile che i propri figli non si sposino e non diventino a loro volta mamme e papà. L’omosessualità, per loro, è bene che rimanga un tabù. Per questo per gli attivisti Lgbt anche le campagne pubblicitarie mirate a un pubblico omosessuale sono un bene: obbligano la società a confrontarsi e accettare anche chi sceglie di fare coming out.