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Sunnistan, la soluzione dei problemi mediorientali?

Di Gianmarco Cenci, L’Indro, 23
marzo 2018

John
Bolton, suo sostenitore, è stato nominato da Trump nuovo consigliere per la
sicurezza nazionale per sostituire il troppo morbido McMaster. L’ipotesi di una
confederazione Iraq-Siria può tornare in auge?

Da quando
Donald Trump è Presidente degli Stati Uniti, si sono succeduti un grande numero
di consiglieri e collaboratori. Fra gli ultimi a farne le spese c’è Rex Tillerson,
ormai ex segretario di Stato, allontanato per profonde divergenze in materia di
politica estera e sostituito con l’ex CIA Mike Pompeo.
Ma a far discutere nelle ultime ore è soprattutto la scelta del
Presidente Trump di nominare John Bolton come consigliere per la sicurezza
nazionale, allontanando così il generale Herbert Raymond McMaster, fautore di
una politica estera tradizionalmente filo-atlantica e per questo considerato
lontano dalle vedute e dall’approccio della presidenza.
La scelta
di nominare Bolton nel ruolo che fu di McMaster e di Michael Flynn
– a suo tempo allontanato in seguito allo scandalo
Russiagate
– lascia a tutti un grande punto interrogativo. Chi è
costui? Ex avvocato, vicino alla NRA (la lobby delle armi) e noto per le sue posizioni
interventiste, John Bolton è un diplomatico, dagli atteggiamenti alle volte
poco ‘diplomatici’, che ha affiancato, a vario titolo, tutte le presidenze
repubblicane, da Ronald Reagan, a entrambi i Bush, fino a oggi. È stato fra i
più accesi sostenitori dell’intervento americano in Iraq nel 2003 (la Seconda
guerra del Golfo) e ambasciatore degli Stati Uniti presso il Palazzo di Vetro,
presso cui si fece notare per le sue dichiarazioni aspramente critiche verso
l’ONU; la carica, conferitagli dal Congresso nel 2005, non venne
riconfermata l’anno successivo. Dopo aver collaborato come consulente per la
politica estera di Mitt Romney, candidato repubblicano nella campagna
elettorale che portò alla rielezioni di Barack Obama, Bolton è stato anche
sostenitore di Donald Trump, difeso dagli studi di Fox News, presso cui è
opinionista. O meglio, era opinionista: inizierà a ricoprire ufficialmente la
carica dal 9 aprile, come confermato da un tweet del Presidente, mentre il
generale McMaster lascerà e, con ogni probabilità, si ritirerà a vita privata.
John
Bolton, però, è noto anche per una sua soluzione particolare alla risoluzione
dei problemi geopolitici dell’area mediorientale: il Sunnistan. Questa virtuale
entità politica nascerebbe dall’unione di Iraq e Siria e, secondo Bolton,
potrebbe consentire di aprire una nuova era nelle relazioni dell’area
mediorientale. Ma in che modo? E, soprattutto, la nomina di Bolton a
consigliere per la sicurezza nazionale potrebbe far tornare in auge questa
ipotesi? Lo abbiamo chiesto a Claudio Bertolotti, analista strategico ISPI. “È
possibile che con l’arrivo di Bolton alla Casa Bianca torni in scena l’ipotesi
del Sunnistan”, esordisce Bertolotti “ma non possiamo dire con quale grado di
probabilità. Quello di un ipotetico ‘Sunnistan’ è un tema che ha appassionato
gli addetti ai lavori negli anni passati, ma deve essere chiaro che deve essere
un processo che non può, e non deve, essere pilotato dall’esterno”. Per due
ragioni ordini di ragioni, spiega l’analista: “Una storica: abbiamo visto
quanto l’intervento occidentale, in primis quello degli Stati Uniti, abbia
contribuito alla devastazione dell’intero arco Grande Mediorientale,
dall’Afghanistan alla Libia passando per l’Iraq. L’altra ragione è culturale: nonostante
decenni di errori, ancora manca la capacità culturale di comprendere le
reazioni locali, tribali e regionali alle azioni esterne. Semplicemente perché
si tende a non volerne tenere conto”. E conclude: “Dovessero esserci delle
spinte locali verso un ipotetico Sunnistan, che costituisca una terra unica per
i sunniti, queste vanno assecondate attraverso il dialogo in seno alle Nazioni
Unite, senza interventi unilaterali”.
La prima
dichiarazione di Bolton sul Sunnistan risale al 2015. Va specificato che il
futuro consigliere nazionale per la sicurezza non è l’inventore di questa
virtuale entità, ma solo un suo sostenitore: la sua prima
formulazione risale al 2006
, e i primi a parlarne in ambito
americano furono i due democratici Leslie Gelb, ex ufficiale del dipartimento
di Stato, e Joe Biden, ex vicepresidente degli Stati Uniti durante
l’amministrazione Obama. Che cosa significherebbe oggi ritirare fuori questa proposta?
Difficile dirlo, secondo Bertolotti, ma si possono fare alcune ipotesi: “Più
che un Sunnistan tout court ritengo più probabile, e forse anche auspicabile,
una compartimentazione dell’Iraq in aree sunnite, sciite e curde. Una
confederazione di stati ampiamente autonomi potrebbe andare a ridurre le
conflittualità oggi vive più che mai. Bisogna tuttavia anche considerare che la
divisione su base esclusivamente confessionale, e accompagnata da motivazioni o
giustificazioni di tipo confessionale, al contrario, potrebbe destabilizzare
ulteriormente l’area”. Ma non ci si deve dimenticare che le vicende interne
all’eventuale Sunnistan risentono di tutte le influenze dell’area circostante e
non solo: “sotto la superficie delle conflittualità settarie, utili e
funzionali a mobilitare le masse, vi sono le ambizioni divergenti dei gruppi di
potere interni, vi è la competizione tra attori esterni per la leadership a
livello regionale, vi è il ruolo destabilizzante delle grandi e delle medie
potenze intenzionate a cambiare gli equilibri regionali a proprio favore. Tra
le prime Stati Uniti e Russia, tra le seconde l’Iran, l’Arabia Saudita e, come
miccia accesa tra la polvere da sparo, una sempre meno affidabile Turchia”.

Il cambio
voluto da Trump fa credere che il nuovo consigliere verrà tenuto in grande
considerazione, anche per quello spirito affine che, volendo leggere fra le
righe delle dichiarazioni del Presidente, sembra legarli. Quanto sarebbe,
tuttavia, possibile che Trump sostenesse un’eventuale proposta di questo
genere? Nonostante la mancanza di chiarezza degli obiettivi della politica
estera delle ultime due presidenze americane, secondo Bertolotti, si possono
fare alcune fondate previsioni: “Trump vuole e deve parlare all’opinione
pubblica interna anche attraverso le scelte di politica estera, ma per farlo
necessita di messaggi chiari e di impatto sul piano comunicativo. Per questa
ragione l’idea di un’iniziativa epocale come quella di risolvere il problema
degli equilibri mediorientali dopo il crollo del sistema disegnato da
Sykes-Picot un secolo fa può essere considerata dall’amministrazione
statunitense come una valida opportunità”. E, se declinata opportunamente e in
un certo modo, potrebbe aprire a una nuova era di relazioni di quell’area: “È
possibile un maggiore ruolo statunitense in Iraq in questa fase. 
Una presenza
che, tutto sommato, se concentrata al supporto alla ricostruzione dello Stato
iracheno, sulla base delle dinamiche interne all’Iraq e attraverso la
mediazione degli attori regionali e con un limitato ruolo militare, potrebbe
essere molto utile”.
Resta da
chiarire un ultimo, decisivo punto. Ammesso che questo progetto del Sunnistan
dovesse realizzarsi, inevitabilmente gli equilibri dell’area ne uscirebbero
completamente stravolti. Che cosa provocherebbe il Sunnistan, nella remota
ipotesi che dovesse realizzarsi? Bertolotti inizia analizzando i suoi effetti
sul non-Stato per eccellenza: “Lo Stato islamico, come lo abbiamo conosciuto, è
stato formalmente sconfitto nella sua forma statuale. 
Ma il fenomeno sociale
‘Stato islamico’ gli è sopravvissuto e prosegue nell’ideologia della violenza
jihadista. I suoi combattenti si sono dispersi sui fronti caldi del Grande
Medio Oriente e dell’Asia; altri ancora stanno confluendo in nuove formazioni
jihadiste nella regione, lo abbiamo
visto ad Afrin
dove al fianco dell’esercito turco, e spesso in
funzione di avanguardia, erano presenti unità composte da reduci dello stato
islamico o di altri gruppi jihadista-qaedisti, già finanziati e sostenuti dalla
Turchia dal 2011 in poi”. Senza dimenticare le ripercussioni con l’Iran sciita,
storico nemico dell’Iraq sunnita: “L’Iran, in Siria, sta procedendo ormai da
tempo, a consolidare i risultati ottenuti sul campo di battaglia attraverso la
presenza continua e duratura della componente sciita. Lo sta facendo attraverso
importanti acquisizioni immobiliari (terreni e aree urbane) e il trasferimento
di comunità sciite in aree in precedenza abitate da altre confessioni. Questo è
un fattore di cui tenere contro nella valutazione di impatto sui nuovi
equilibri regionali perché la compartimentazione su base settaria è un processo
già avviato e in fase di consolidamento avanzato degli spazi, geografici,
economici e politici. Un dato di fatto, al quale non potrà che seguire un
processo di legittimazione formale sul piano delle relazioni internazionali”.