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Internet ha bisogno di nuove regole

Franklin Foer,
Internazionale, 25 Marzo 2018

Sarà una
vera soddisfazione vedere l’enfant prodige scorticato vivo. I politici, alla
ricerca di un momento di gloria, fustigheranno Mark Zuckerberg all’interno del
tribunale. Metteranno all’angolo il fondatore di Facebook e cercheranno di
attribuirgli tutti i peccati del mondo. Sarà uno spettacolo incredibile, ma lo
spettacolo è solo un effimero sostituto della politica. 
(Jurgen
Ziewe, Getty Images)
   

Mentre
emergono gli scandali
di Facebook
, le critiche nei confronti dei giganti tecnologici si
intensificano a ritmo stupefacente. La rabbia ha preso il posto della
riflessione. La proposta che raccoglie più consensi, tra quelle che circolano
nel congresso, chiede di regolamentare la pubblicità di tipo politico che può
circolare su Facebook, una legge che non ridurrebbe affatto il potere o i
profitti dell’azienda. E sarebbe anche una legge che non fa nulla per attaccare
il cuore del problema: la mancanza di protezione dei dati personali da parte
del governo degli Stati Uniti.
L’elemento
che determina il mondo digitale è il fatto che il web è nato durante l’ondata
libertaria degli anni novanta. Privatizzando la rete, sottraendola alle agenzie
governative che l’avevano gestita, abbiamo abbandonato il pensiero civico.
Invece di trattare la rete come il sistema finanziario, l’aviazione o
l’agricoltura, abbiamo evitato di creare delle regole solide che ci avrebbero
garantito la sicurezza e avrebbero fatto rispettare i valori costituzionali del
paese.
C’è un
parallelo tra ambiente e privacy, sono entrambi beni che rischiano di essere
distrutti da un mercato senza freni
 

Gli
attivisti che portano avanti questo dibattito conoscono da tempo questa
debolezza, e ora i pericoli sono probabilmente chiari anche alla maggior parte
degli utenti di Facebook. Ma una cosa è sapere cos’è lo sfruttamento dei dati,
un’altra è vedere chiaramente come i nostri dati possono essere trasformati in
un’arma contro noi stessi.
Il
risveglio è avvenuto dopo le rivelazioni sulla complicità di Facebook nel
disastro dell’ultima campagna presidenziale. Il fatto che Facebook sia
riluttante ad assumersi pienamente la sua responsabilità getta ulteriori dubbi
sulle sue motivazioni e sui suoi metodi. E mentre seguono il dibattito
sull’argomento, i cittadini potrebbero arrivare alla conclusione che sia stata
la debolezza delle nostre leggi ad aver gettato le basi per l’incredibile
successo di Facebook.
Se
facciamo un passo indietro, ce ne rendiamo conto chiaramente: il modello
economico di Facebook si fonda sullo sfruttamento della privacy. L’azienda
spinge i suoi utenti a condividere sempre più informazioni personali (ciò che
che Facebook ha definito “trasparenza
radicale”
), poi li sorveglia per capire come farli rimanere più a
lungo sul sito, per poi mostrargli annunci pubblicitari adatti al loro profilo.
Anche se
Zuckerberg sosterrà di essere un difensore della riservatezza, ha già rivelato
cosa pensa veramente. Nel 2010, per esempio, ha dichiarato che la privacy non è più una
“norma sociale”
(tanto tempo fa, in uno slancio di trionfalismo
giovanile, aveva detto che chi si fidava di lui e gli consegnava i suoi dati
era “un povero
idiota”
). Anche i dirigenti dell’azienda conoscono le conseguenze
del loro metodo: di recente, durante una conferenza, mi sono seduto accanto a
un rappresentate di Facebook, il quale ha ammesso di non usare il sito da anni
per proteggersi da “forze invasive”.
Bisogna
sempre ricordare questa indifferenza ideologica alla privacy, perché non
dovrebbe esserci niente di scioccante a proposito delle negligenze emerse dallo
scandalo Cambridge Analytica
. A quanto pare Facebook non ha avuto
scrupoli a permettere l’accesso ai nostri dati a ciarlatani che lavoravano per
conto di Cambridge Analytica, senza spendere neppure un minuto di tempo per
capire di chi si trattasse o per preoccuparsi di quali secondi fini avessero
nel raccogliere così tante informazioni sensibili.
E non è
stato un incidente isolato. Facebook ha dato libero accesso ai raccoglitori di
dati, nel quadro di un patto con il diavolo stretto insieme agli sviluppatori
di app. L’azienda aveva bisogno di stringere rapporti con questi sviluppatori,
perché le loro applicazioni spingevano gli utenti a trascorrere ancora più
tempo su Facebook. Come ha scritto
Alexis Madrigal sull’Atlantic
, Facebook ha mantenuto standard molto
permissivi per la raccolta di dati, anche in presenza di varie voci che ne
criticavano pesantemente l’attività.
Mark
Zuckerberg forse crede che il mondo sia un posto migliore senza la
riservatezza. Ma adesso vediamo il costo della sua visione. Le nostre
informazioni più intime sono state messe a disposizione di individui
malintenzionati, che vogliono manipolare l’opinione politica, le nostre
abitudini intellettuali e i nostri modelli di consumo. I proprietari di
Cambridge Analytica hanno potuto accedervi facilmente. Facebook ha trasformato
i dati – una specie di radiografia del nostro io interiore – in un bene
mercificato senza il nostro consenso.
In
passato, di fronte a sfruttatori simili, gli statunitensi hanno chiesto allo
stato di proteggerli. La legge ci protegge dalle banche che vogliono sfruttare
le nostre carenze o debolezze, e impedisce la mercificazione dei nostri dati
finanziari. Quando i produttori di cibi lavorati hanno riempito i loro prodotti
di sostanze terribili, lo stato li ha obbligati a rivelare con trasparenza la
lista completa degli ingredienti.
Dopo aver
creato dei sistemi di trasporti, lo stato ha imposto limiti di velocità e
cinture di sicurezza. In tutti questi sistemi ci sono scappatoie legali, ma
comunque sono migliori del niente assoluto. Dobbiamo estendere questo nostro
modello consolidato al nostro nuovo mondo.
Fortunatamente
non dobbiamo legiferare nel buio. A maggio l’Unione europea comincerà a
far rispettare
una serie di leggi chiamate Regolamento
generale sulla protezione dei dati
. Nel corso del tempo, in Europa
gli stati hanno creato le loro agenzie e limitazioni contro gli eccessi delle
aziende tecnologiche.
Ma questo
regime, che entrerà presto in vigore, crea un unico standard per tutta l’Unione
europea, in un lodevole tentativo di obbligare le aziende tecnologiche a
spiegare in modo chiaro come vogliono usare le informazioni personali che
raccolgono. In questo modo offre ai cittadini più potere sull’uso dei loro dati
personali, tra cui la possibilità cancellarli.
Come in
Europa, i cittadini dovrebbero avere il diritto di cancellare i dati che
rimangono nei server
 

È
arrivato il momento di creare negli Stati Uniti un’infrastruttura di
regolamentazione, in linea con i valori e le tradizioni del paese: un’autorità
di protezione dei dati. Questa denominazione, come ho scritto nel mio libro World
without mind (Mondo senza mente), ricorda un po’ l’ufficio governativo
incaricato di far rispettare le misure di protezione ambientali.
C’è un
parallelo tra ambiente e privacy: sono entrambi beni che rischiano di essere
distrutti da un mercato senza freni. È vero, permettiamo alle aziende di
rovinare l’aria, l’acqua e le foreste. Tuttavia imponiamo anche serie
limitazioni allo sfruttamento ambientale e dobbiamo fare lo stesso per quanto
riguarda la riservatezza. Esattamente come in Europa, i cittadini dovrebbero
avere il diritto di cancellare i dati che rimangono nei server. Le aziende
dovrebbero essere obbligate a stabilire delle opzioni predefinite in modo che i
cittadini scelgano volontariamente di essere sorvegliati, invece di accettare
passivamente la perdita della privacy.
Naturalmente
creare un’autorità di protezione dei dati solleverebbe molte questioni. Ed
esiste una paura fondata che i ricchi e i potenti cerchino di usare queste
regole per indebolire i giornalisti a loro sgraditi. Fortunatamente, abbiamo un
corpus di giurisprudenza più favorevole ai mezzi d’informazione rispetto
all’Europa, e possiamo concepire la nostra legge in modo da proteggere il
giornalismo.
Anche
perché lo status quo pone rischi molto più gravi per i valori democratici. Una
volta che la privacy è scomparsa, non è più possibile recuperarla. Mentre i
demagoghi sfruttano le debolezze del nostro sistema, le nostre norme politiche
potrebbero non riprendersi mai più.
Quando ha
sviluppato un’applicazione per raggirare gli utenti di Facebook e spingerli a
cedere i loro dati, Cambridge Analytica si è concessa una diabolica ironia. Ha
dato al suo cavallo di battaglia un nome che sembrava ammettere l’esistenza di
un ampio e terribile piano di sfruttamento. L’azienda ha infatti chiamato il
prodotto “thisisyourdigitallife” (questa è la tua vita digitale). Se agiremo
concretamente, non sarà per forza così.